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RECALCATI, JOYCE E ALAIN MILLER

20 Lug 17

Di Mario Degli Stefani
La mia conoscenza di  Massimo Recalcati, riferibile a tre  incontri, di cui uno fugace nel suo studio, unitamente alla lettura della sua opera, la ritengo sufficiente per entrare, seppur in punta di piedi e con una pressoché irrilevante rilevanza, sulla questione che ha turbato qualche tempo fa il mondo della cultura e, in modo più dirompente, quello della psicanalisi.
Oltre a una testimonianza di solidarietà che potrebbe lasciare il tempo che trova, intervengo per due precisi motivi:
  • il primo è per  l’impegno che ho contratto, nei miei corsi di formazione, con i miei uditori e verso i quali mi sento di prendere posizione su un autore e una persona alla quale io mi richiamo sempre e del quale voglio evidenziarne  le ragioni in riferimento al caso in oggetto; 
  • il secondo, parte da un senso di gratitudine, che poi si traduce in una domanda e in considerazioni che ritengo plausibili e condivisibili.
 
La gratitudine è per la possibilità, di essere approdato con Recalcati, a Lacan e con lui a un corpus teorico indispensabile per affrontare i problemi del disagio della contemporaneità.
Compito che mi ero già prefissato nei primi anni ottanta, ma subito lasciato cadere, fermandomi, colpevolmente, per un pregiudizio di nome Armando Verdiglione.
Poi ci fu un riavvicinamento con Contri, quindi con Di Ciaccia, ma il desiderio della svolta avvenne nel 2011, allorché mio figlio mi trasmise il suo Desiderio.
 
Gli altri dov’erano?
Mi accorgo che ora emerge automaticamente una domanda: “Perché prima di Recalcati, nessuno si è mosso per divulgare in maniera altrettanto efficace, un corpus teorico così straordinario?”
Perché i tanti Don Abbondio della psicanalisi lacaniana hanno continuato a parlare il latinorum?
Forse per vezzo, forse per il godimento di crogiolarsi nelle loro sintassi  contorte, per il piacere di riportare locuzioni e frasi intere in francese e inspiegabilmente prive di traduzione;
autori che come premessa preannunciano, narcisisticamente, una loro piena autonomia dal maestro e la loro inarrivabile singolarità, citando il Lacan del: ”Fate come me, non imitatemi!” salvo mostrarsi, nei loro  scritti,  ancor meno intellegibili dell’originale.
Perché nessuno ha saputo riportare l’organicità dell’opera lacaniana, evidenziando la coessenzialità di teorizzazioni che nel tempo smontavano e smentivano quanto proposto precedentemente?
 
A questo gigioneggiare e a questo rispecchiarsi, a questo intendersela tra compagnie di giro,  si aggiunge quindi la responsabilità di non aver saputo divulgare le loro conoscenze, contestualizzandole con esempi, rendendole strumenti interpretativi della realtà, della vita reale, quella di tutti i giorni: infatti a cosa serve la psicanalisi, come dottrina, se non cerca di spiegarci anche gli inciampi della vita quotidiana e a cosa la vita stessa tenda, abbia o non abbia, essa, un senso?
Slavoj Zizek a tale scopo riesce perfino con le barzellette a spiegare l’essenza dei concetti lacaniani.  (toh, a proposito, chissà cosa ne pensa lui dello psicanalista che si occupa di politica[1])
 
Una delle “107 storielle di Zizek”
Una vecchia barzelletta ebraica racconta di un gruppo di ebrei in una sinagoga che ammettono pubblica­mente la loro nullità agli occhi di Dio. Dapprima, un rabbino si alza e dice: «Oh Dio, so di essere senza valore, io non sono nulla!». Quando questi ha finito, un ricco uomo d'affari si alza e dice, battendosi il petto: «Oh Dio, anch'io sono senza valore, ossessionato dalla ricchezza materiale; io non sono nulla!». Dopo questo spettacolo, anche un povero ebreo or­dinario si alza, e proclama: «Oh Dio, io non sono nulla…». Il ricco uomo d'affari calcia il rabbino e gli sussurra in un orecchio con disprezzo: «Che insolenza! Chi è quel ragazzo che osa affermare che anch'egli non è nulla?!».
 
La vera questione al fondo di questa storia è che l’unico veramente consapevole di essere un soggetto umano, un soggetto diviso, sembra essere Recalcati, mentre gli altri appaiono degli Io che cercano o peggio credono di fare Uno, in Nome del Padre, di Lacan, della psicanalisi stessa.
 
Ognuno di essi pensa di essere l’unico ad aver capito fino in fondo Lacan e ognuno oscilla tra il desiderio di divulgarlo e il “godimento” di ritenersi l’unico esegeta e di voler rimanere tale: cosicchè l’effetto che ne sortisce è “un atto mancato”, perché nei loro scritti, cercano di spiegare, ma non ci riescono.
Questo perché rimangono intrappolati dalla fascinazione dal linguaggio di Lacan, non riuscendone a differenziarsi e a separarsi.   
 
Recalcati invece i concetti, sia di Lacan, che suoi, “li frammento, li spremo, li semplifico,  li riprendo … Voglio che quel bambino possa seguirmi, voglio che non resti più indietro. Insomma, faccio per lui quello che avrei desiderato mio padre facesse per me …[2]
 
Il Tempo dell’Inconscio
C’è qui da fare “L’elogio dell’Inconscio”[3], per citare un testo del Nostro, nel senso che il tempo della scelta di campo di Recalcati, precede le fortune di Renzi e le segue: nella parabola politica di Renzi, Recalcati ha scelto di salire sul cavallo, nel punto di minimo della parabola stessa, ritenendo che quella fosse, a torto o a ragione, l’unica scelta possibile, in quel momento,  per la politica italiana.
Recalcati ha preferito andare incontro a una annunciata sconfitta, piuttosto che cedere sul suo Desiderio di militanza.
È che il tempo dell’inconscio non tiene conto del “Principio di Realtà”, della convenienza e, men che meno, dell’opportunismo.
Il tempo logico della coscienza, questa volta perversa, lo ha colto invece chi attendeva la caduta, la sconfitta.
Troppo comodo seguitare a parlare di etica, rinunciando sempre all’atto, con la motivazione della neutralità dello psicanalista: l’etica è azione, è il fare  scelte, è rischiare, è seguire il proprio Desiderio.  
 
I Incontro
Del primo incontro con Recalcati, da me invitato come relatore a un convegno organizzato dall’Istituto delle Suore Agostiniane di  Voghera, sul rapporto tra Scuola e Società, ricordo che, sapendolo impegnato per una certa ora, dopo il convegno, allorché  come spesso accade, stava tutto slittando di un’ora, io gli proposi di cambiare la scaletta e anticipare il suo intervento: egli mi rispose, cortesemente e fermamente, di no. Stette quindi tutta la mattinata, fermandosi anche per gli autografi di rito, alla fine.
 
Massimo Recalcati era venuto gratuitamente, avendo saputo che le suore mandano i proventi delle iscrizioni dei ragazzi, alle missioni in Africa e in India.
Nel suo incipit,  dopo avere ascoltato cose trite e ritrite sugli aspetti formali della scuola, il Nostro fece presente che non si era parlato della cosa più importante e cioè di come il compito precipuo dell’insegnante sia quello di trasmettere un Desiderio, il Desiderio per la conoscenza e aggiunse che, a tale proposito, avrebbe scritto un libro[4].
 
II Incontro
La seconda volta che lo invitai, fu a un convegno per le scuole superiori, in quel di Pietra Ligure, organizzato con la Direzione Scolastica della Liguria.
Le cose che riferisco, sono accadute  nei momenti informali,  un paio e molto significative.
  • Alla fine del convegno ci recammo all’Alberghiero di Finale Ligure, per il pranzo e nel momento dell’aperitivo, prendendo spunto da ciò che avevo letto di lui, e precisamente la sua paradossale frase: ”Mio padre è Giulia” e il commento al libro di Philip Roth “Patrimonio”, gli dissi, intuendo un rapporto conflittuale col padre, che lo identificavo all’autore americano. Nicchiò, anche se poi mi si rivelò con una commovente innocenza rispondendomi su ciò.
  • Al momento dell’aperitivo, Recalcati  non prese alcunché.
  • A tavola, niente antipasto, niente vino, al che io con azzardata ironia, gli chiesi se questa sua sobrietà non fosse l’effetto del transfert delle sue analizzanti anoressiche: sorrise bonariamente, ma mi colpì la sua risposta:” È che ora, andando a casa (si sarebbe fermato nella sua casa di vacanza a Noli) mi devo metter subito al lavoro”.
 
Più  Joyce che  Roth
La terza volta che l’ho incontrato, è stato nel suo studio, a Milano, per avere una documentazione per mio figlio.
C’era la segretaria e lui arrivò trafelato qualche minuto dopo.
Mi chiese di mio figlio, quindi qualche frase di rito, fino a che io non potei esimermi dal verbalizzargli una intuizione sorta in quel momento, suggerita dal suo trafelare:
”Gentilissimo Professor, riflettendo su quanto le dissi tempo fa, non è Roth l’autore al quale la associo, ma a Joyce”.
Ed egli  che stava firmando dei documenti, alzò lo sguardo e assentì col capo e con lo sguardo. 
 
Recalcati  –  Joyce
 
James Joyce è preso da Lacan come metafora di chi, non sentendosi                                                                                                                                                                                                            figlio e non potendo farne a meno, se lo cerca in maniera singolare.
Joyce, percependo il padre come figura carente e inadeguata per tale ruolo, lo rifiuta come tale, ci rinuncia e cerca di supplire  a tale carenza per una via traversa e cioè quella della scrittura.
Joyce si crea, con l’arte, un padre che non deve ringraziare, in quanto non ha contratto con lui alcun debito simbolico, avendo rinunciato alla sua eredità simbolica.
 
Sedici ore al giorno di lavoro, ricorda Ellman[5]: un godimento dello scrivere, un sinthomo che  fa della sua opera, lo sgabello sul quale elevarsi come artista: un godimento quindi creativo e non distruttivo.
 
Quale il prezzo?
Con l’Ulisse Joyce, attraverso il suo alias Stephen Dedalus, resta radicato al padre pur rinnegandolo, pur non usandolo, perché si separa dal padre solo chi sa farne uso[6], mentre Stephen Dedalus (Joyce), cerca di farne a meno, non ne fa uso.
Ma, omen nomen[7],  Dedalus, privo della guida paterna, sa solo vagare senza meta, senza desiderio, senza mai prendere decisioni.
 
Riporto un passo che mi ha molto colpito, dove appare un Dedalus, ricco di pietas per l’altro, ma senza alcun Desiderio e quindi senza la capacità di prendere alcuna iniziativa: un uomo senza etica:
 
“Sargent, il solo che avesse indugiato, si fece avanti con lentezza tenendo un quaderno aperto.
I capelli ar­ruffati e il collo scarno davano a divedere un che di tardo e attraverso le lenti appannate deboli occhi si levavano imploranti. Sulla gota, smorta ed esangue, c'era una lieve macchia d'inchiostro, a forma di dattero, recente e umida come una traccia di lumaca.
Porse il quaderno. In cima alla pagina stava scritta la parola Operazioni. Sotto c'erano delle cifre sbilenche, in fondo una firma contorta, con gli occhielli delle lettere ciechi e una macchia. Cyril Sargent: firma e suggello.
Con lunghi tratti confusi Sargent ricopiò i dati. In attesa di una parola di aiuto, la mano moveva fedelmente i simboli incerti, un debole color di vergogna ­lippolando sotto la pelle opaca ….  
… Ero come lui, queste spalle cadenti, questa sgraziatagg­ine.
La mia infanzia si china qui accanto a me. ….
L'operazione era fatta.
È  semplicissimo, disse Stephen alzandosi. Sí professore. Grazie, rispose Sargent.
Asciugò la pagina con un sottile foglio di carta assorbente e riportò il quaderno al suo banco.
Meglio che adesso lei vada a prendere la mazza raggiunga gli altri, disse Stephen, seguendo verso porta la figura sgraziata del ragazzo”.
 
Stephen assiste impotente a un destino segnato, senza saper trasmettere il segno di un minimo Desiderio; anzi, si riflette passivamente in Sargent, ricevendone l’immagine irrisolta della sua infanzia.
Dedalus è ciò che in fisica si definisce “un sistema isolato”: come un bambino sull’altalena che non toccando i piedi per terra e non avendo nessuno che gli dia la spinta, se ne sta lì, frustrato e perplesso, fino a che, deluso e cercando di non darlo a vedere, non decide di scendere e cercare timidamente un amichetto.  
 
Recalcati, penso abbia avuto un rapporto col padre[8] ancor più tormentato che non Joyce col proprio; il suo lavoro è, leopardianamente, “matto e disperato”; le sue opere di saggistica, inarrivabili per chiarezza; la sua opera, ponderosa; la sua dedizione al lavoro, totale e ascetica; la sua disponibilità, incondizionata. 
Tutto ciò, nato come tentativo di riscatto rispetto a una verbalizzata sfiducia su ciò che gli era stato vaticinato come destino;  manifestato come ostentazione di onnipotenza auto generatrice; agito come contro moneta rispetto alla mancata eredità paterna: “un vero e autentico tentativo di auto generazione attraverso la propria opera”.  
 
È in questo  rapporto drammatico con la figura paterna, in questo perseguire con tenacia il Desiderio di farsi figlio della sua opera, in questo cercare la propria salvezza nell’arte della scrittura, che mi sono sentito di accostare  Recalcati a Joyce e di verbalizzarglielo, quel giorno, nel suo studio.
Anche se, ovviamente, tra le tante cose che li differenziano, c’è un aspetto che li distanzia clamorosamente, ma li associa nella totale torsione speculare dello stile letterario:
  • volutamente ostico fino alla provocazione in Joyce, ove “La scrittura è lalingua e Il significante alluviona il significato[9]
  • volutamente pedagogico[10] e chiaro in Recalcati.
 
Dubito però che tutto ciò avrebbe tenuto, se non ci fosse sempre stato, in maniera implicita, il sogno e il Desiderio di un rapporto con il proprio  padre, che ora so pienamente recuperato, anche se ammantato della nostalgia per ciò che avrebbe potuto essere,  ma non è stato.
Il significante paterno forse era maggiormente presente e attivo, nell’inconscio, proprio per la sua mancanza.
 
E così, ogni volta che riprendendo l’Ulisse, Dedalus Joyce, seguita a vagare erraticamente e senza desiderio, mentre Recalcati sa dove andare e con un Desiderio che contagia chiunque ne venga a contatto:  i suoi lettori, i suoi uditori e soprattutto i suoi analizzanti e i suoi studenti.
 
 
I nuovi Farisei
E allora facciano editti di espulsione le Wirginie Woolf, i George Moore, i Wyndham Lewis, i Paul Claudel della psicanalisi, i nuovi farisei[11] e intanto io, parafrasando  Richard Ellman, dico; ”Dobbiamo ancora imparare a essere contemporanei di Recalcati e a comprendere questo nostro interprete”[12]
 
La legittimazione di Miller: “Mio Padre è Mio Padre”
  • Tesi a carico di Miller: come analista non si era accorto del desiderio profondo di Recalcati per la militanza?
  • Tesi a discarico di Miller: l’analista deve portare l’analizzante a riconoscere il proprio desiderio più profondo, senza per questo doverlo riconoscere anche lui.
Io non ritengo che Miller abbia nuociuto o voluto nuocere a Recalcati, con la sua intervista, in quanto la visione romantica dell’analista e dell’analizzante legati per la vita, rimane nel campo dell’immaginario dei profani: l’analista infatti è il significante del significante primario: il padre, che, una volta recuperato, neutralizza il significante del significante, nel senso che lo rende neutro, in – significante.
Miller questo lo sa benissimo e anche se non si può negare un residuo di godimento di Crono, in fondo sapeva che tale godimento non sarebbe stato soddisfatto: Recalcati non è edibile, non è più il nemico che ogni tanto si fantasmatizza nel controtransfert, in quanto non più analizzante e tantomeno, figlio.
 
Miller va solo ringraziato per averci dato Recalcati, come sarebbe stato da ringraziare chiunque altro fosse stato l’analista di Recalcati.
Gli effetti  della formazione e dell’analisi possono essere molto lunghi, e se Recalcati ha recuperato il Padre è anche grazie a Miller, grazie a Giulia, grazie alla propria moglie; ma soprattutto, ritengo che abbia recuperato il padre, attraverso il figlio, che è poi l’opera d’arte più riuscita di ogni genitore.
 
So che ciò che sto scrivendo sarà più utile a me, per il piacere che trovo a schierarmi per una giusta causa, (non il renzismo, ma il rispetto delle scelte), che non a Recalcati, data la mia insussistente autorevolezza e la scarsa eco che avrà l’articolo, se non tra i miei lettori, uditori, amici.
Parlo ovviamente anche a nome loro, con i quali tengo vivo un discorso che riprenderò, a settembre,  nei corsi nelle scuole e in diverse sedi di Università della Terza Età e voglio evitare che chi mi segue, rimanga intrappolato nella bruneriana metafora precauzionale[13], per cui gli antirenziani buttino, come si suol dire, il bambino con l’acqua sporca. 
Parlando di Recalcati non posso non suggerire un link, nel quale il Nostro spiega l’essenza della psicanalisi: essenza che emerge, non dall’episodio che riporta su Freud, ma dal modo, meglio, dal nodo di commozione che si coglie mentre riporta l’episodio stesso. Si capirà anche cosa siano  il Desiderio,  cosa la Parola Piena, cosa “Lalingua”.

 

 

 
Buona visione.
Per i più frettolosi e ansiosi, andare al minuto 2 e 10 secondi del video.
 



[1] Personalità di spicco dell'opposizione al regime comunista in Slovenia negli anni ottanta (venne licenziato dal suo impiego pubblico perché ritenuto "non marxista", nonostante si dichiarasse da sempre "leninista"), nel 1990 è stato il candidato della Democrazia Liberale Slovena (Liberalna Demokracija Slovenije) alle prime elezioni presidenziali libere del paese.
[2] “Elogio del Fallimento” – M. Recalcati – Ed. Erickson –  pag. 200
 
[3] “Elogio dell'inconscio” Dodici argomenti in difesa della psicoanalisi – Massimo Recalcati
[4]   Un anno dopo esce “L’Ora di Lezione”.
 
[5] Desiderio Godimento e Soggettivazione – M. Recalcati – Ed. Cortina
[6] Desiderio Godimento e Soggettivazione – M. Recalcati – Ed. Cortina
[7] Nel nome il destino.
[8] “Io sono stato considerato un bambino ebete … l’idiota della famiglia. … Non assimilavo il sapere che mi proponevano. Questa resistenza era probabilmente legata all’assenza di parole di mio padre. Mi aspettavo che mi parlasse, ma lo faceva molto raramente …[8]”. “Elogio del Fallimento” – M. Recalcati – Ed. Erickson –  pag. 200
 
[9] “Elogio del Fallimento” – M. Recalcati – Ed. Erickson –  pag. 206
 
[10] ….. Voglio che quel bambino possa seguirmi, voglio che non resti più indietro. Insomma, faccio per lui quello che avrei desiderato mio padre facesse per me” – “Elogio del Fallimento” – M. Recalcati – Ed. Erickson –  pag. 200
 
[11] Uso il termine “farisei”, con estremo rispetto per i critici di Recalcati e solo nel senso etimologico del termine e cioè come coloro che, soli, solo loro e non altri, si ritengono depositari delle interpretazioni delle leggi ebraiche.
[12] Dedalus – J Joyce – Oscar Mondadori – Parafrasi della prefazione al libro
[13] Jerome Bruner (1966): La metafora precauzionale è "un principio di organizzazione cognitiva di carattere affettivo – emotivo, per cui  insiemi di cose e rappresentazioni connesse, ma diversamente connotate simbolicamente, in negativo e in positivo, tendono a essere vissute tutte negativamente e rifiutate”. Il principio sul quale si fondano è un processo difensivo di assimilazione e rifiuto.
 

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