Sul tema dei diritti dell'uomo si è da tempo parlato e scritto infinitamente a lungo. Devo unirmi al dibattito sui diritti dell'uomo, se non serve affatto a coloro che vivono nei luoghi in cui tali diritti sono negati in maniera orribile? Se coloro che pensano, scrivono o discutono dei diritti dell'uomo finora non sono riusciti a fare in modo che si attengano al diritto coloro che lo calpestano? Ho deciso tuttavia di parlarne e di discutere con Muhidin Saric. Spiegherò alla fine perché preferisco parlare, sebbene non abbia alcun potere di fare qualcosa contro la negazione dei diritti dell'uomo nel mondo. Farò dapprima delle considerazioni generali sul tema, in maniera non sistematica e senza alcuna pretesa di completezza. Poi sottoporrò il diritto dell'uomo alla critica di due scienze, la psicoanalisi e l'etnologia. Sono entrambe adatte a far luce su problemi che finora sono stati forse troppo poco chiari. Il punto di vista psicoanalitico aiuta a comprendere quali sono i fenomeni psichici che inducono al rispetto del diritto umanitario e quali invece quelli che inducono alla sua violazione. Il punto di vista etnologico, in particolare il confronto fra culture diverse, può aiutare a rispondere ad alcuni quesiti, e cioè se il diritto dell'uomo sia sempre diverso nelle varie strutture sociali, se in generale esistano diritti dell'uomo validi per tutti i popoli, oppure, se non è così se cioè il principio dei diritti dell'uomo si è affermato solo negli stati euroamericani, se si debbano imporre agli altri popoli i nostri, occidentali, diritti dell'uomo, e se ciò debba accadere attraverso un condizionamento oppure con la coercizione e la forza. In altre parole: sono l'influsso culturale, la supremazia politica e militare dell'occidente, in particolare dei poteri coloniali, ad aver imposto agli altri stati la propria concezione dei valori, oppure con i diritti dell'uomo vengono riconosciute ed espresse leggi indispensabili, universalmente valide, della convivenza umana?
La Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo dell'ONU contiene un gruppo di valori che si possono senz'altro riconoscere come universalmente validi, come il diritto alla vita e all'integrità del corpo, il diritto all'autodeterminazione politica e culturale della persona, il diritto di ogni bambino a un sano sviluppo, e altri ancora. Solo a questi farò riferimento nelle mie riflessioni. La Carta dell'ONU del 1948 con le successive integrazioni (fino al 1985) contiene altri «diritti» che evidentemente possono essere rispettati in maniera sensata solo nei paesi industriali «sviluppati», coma le regolamentazione dell'orario di lavoro, il diritto alle ferie e così via. Di essi non mi occuperò in questo contributo e mi limiterò al primo gruppo di diritti, che chiamerò diritti universali dell'uomo. I diritti dell'uomo sono stati definiti, integrati e riveduti dalle Nazioni Unite. Dell'ONU fanno parte, a eccezione della confederazione elvetica, tutti gli stati. Perciò all'incirca tutti gli abitanti del nostro pianeta sono tenuti a rispettare i diritti dell'uomo; le istituzioni politiche dei vari stati garantiscono, in linea di principio, che tutti i cittadini e cittadine che essi rappresentano rispettino tali diritti. Tuttavia la definizione e il riconoscimento formale non si sono dimostrati sufficienti. Ci sono innumerevoli e a quanto pare sempre più numerose ed efferate negazioni e violazioni dei diritti dell'uomo. Molte violazioni dei diritti dell'uomo sono presentate persino dalle istituzioni statali (autorità) come politicamente necessarie, motivate dalla temporanea necessità di agire «pragmaticamente», dalla legge di guerra, da tradizioni etniche, da argomentazioni storiche o psicologiche; sono definite inevitabili e dunque legittimate. Talvolta viene contestata persino la richiesta morale che i diritti dell'uomo siano rispettati. Non posso addentrarmi in questo contributo nel merito della dimensione etica del problema.
L'idea dei diritti dell'uomo ha una storia; è la storia dell'Illuminismo. Le tappe più importanti del suo sviluppo sono all'incirca: il «bill of rights» di Oliver Cromwell nel diciassettesimo secolo, la prima costituzione degli Stati Uniti d'America, la grande Rivoluzione francese. Tutte le definizioni successive si rifanno a questa tradizione, come pure la Dichiarazione delle Nazioni Unite. L'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato il 10 dicembre del 1948 la «legge internazionale dei diritti dell'uomo» (The International Bill of Human Rights); essa è stata più volte perfezionata, ampliata e messa in vigore nel 1978, dopo essere stata ratificata, come previsto, da almeno dieci stati. Anche noi, naturalmente, ci atterremo a questa definizione, tuttavia dobbiamo mettere in guardia dagli equivoci derivanti dalla storia di questa idea e dallo sviluppo delle nostre concezioni. Dal momento che si tratta di un diritto, per di più fondamentale e universalmente valido, esso poteva, una volta riconosciuto, essere recepito solamente in un progetto di legge (bill). La «divisione dei poteri», l'indipendenza del potere giudiziario dagli organi del governo e dal corpo legislativo, il parlamento, non lasciava nessun'altra possibilità. La struttura delle Nazioni Unite comporta che questa legge differisca in modo sostanziale dalle leggi penali o civili. Il suo effetto viene descritto nella premessa del documento ufficiale delle Nazioni Unite del 1985 non come legge, bensì come idea entusiasmante e avvincente, il cui influsso è ampio e destinato ad aumentare sempre più. «Dal momento della sua votazione, la Dichiarazione (dei diritti dell'uomo) ha esercitato in tutto il mondo un influsso che si è sviluppato ampiamente, ha ispirato leggi, costituzioni nazionali, come pure accordi su svariati, specifici diritti. La Dichiarazione non ha avuto, all'epoca della sua votazione, alcun valore di legge, ma ha esercitato da allora un forte influsso sullo sviluppo del diritto internazionale, nella nostra epoca» (United Nations, 1985, p. 1; corsivo di P.P.).
Le norme di attuazione (Implementation Measures) mostranochiaramente che dipende dalla buona volontà di ogni singolo stato osservare o no quelle norme. Il comitato per i diritti dell'uomo (Human Rigbts Committee) viene definito esplicitamente come organo d'inchiesta per «l'accertamento dei fatti» (fact finding body). Resta poi da vedere quel che può accadere al di là del mero accertamento dei fatti e della loro divulgazione. Ciò nonostante «l'Assemblea generale (dell'Onu) invita in futuro tutti gli stati ad aderire alla Convenzione (1966) e all' Optional Protocol (1976) in base ai quali essa (l'Assemblea generale) ritiene di poter potenziare in modo significativo la capacità delle Nazioni Unite di promuovere il rispetto dei diritti dell'uomo* (United Nations, 1985, p. 3). Dunque fin dal principio il progetto di legge (bill) delle Nazioni Unite è stato concepito non altrimenti che come un'idea bella e auspicabile. «Nessuno o quasi contesta il principio secondo cui i diritti dell'uomo debbano essere difesi» (Lukes, 1966, p. 30).
Che non possa trattarsi di una legge, risulta evidente dal fatto che non è prevista nessuna possibilità di punire le violazioni del diritto. Si suppone che ci sia un ordinamento giuridico, un ordinamento come quello presente in uno stato caratterizzato dalla divisione dei poteri e dal monopolio del potere da parte delle autorità, definito stato di diritto. Tali presupposti ideali, che possono essere presenti in singoli stati, sono stati estesi dalle Nazioni Unite, in modo incauto e senza alcuna modifica, all'ordinamento giuridico internazionale. Anche se in pratica tutta la popolazione mondiale è organizzata in stati, solo una minoranza di stati sovrani merita pienamente il titolo di stato di diritto. Gli stati in cui le autorità violano quei diritti dell'uomo che dovrebbero essere validi a livello internazionale, sono sovrani, vale a dire che sul loro territorio essi soltanto devono decidere in materia di diritto. Nessun altro stato può ingerirsi. In linea di principio, è previsto che in caso di gravi ed estese violazioni, la sovranità non possa proteggere da un intervento straniero. In effetti nel nome dei diritti dell'uomo sono stati fatti alcuni interventi (Tribunale di Norimberga, Tribunale dell'Aja per la ex Jugoslavia, Tribunale dei diritti dell'uomo nel Ruanda Burundi, etc.). Quanto poi gravi ed estese debbano essere le violazioni del diritto perché un altro stato possa o debba, rispettivamente, ingerirsi e interferire, è una questione del tutto insoluta; d'altro canto nemmeno presso le Nazioni Unite è prevista un'istituzione che possa decidere in merito a un intervento, che possa ordinarlo o condurlo.
Non è difficile dimostrare che, se è vero che i crimini devono essere puniti, l'affermazione del diritto può essere imposta solo dagli stati più forti. «Il criterio decisivo (per un intervento) è il potere degli interessati, delle parti in causa, non l'entità della violazione commessa ( … ) la probabilità di subire un intervento è molto grande per gli stati più deboli e praticamente nulla per quelli più forti. Ciò che è possibile in Somalia, non lo è in Cina. ( … ) Una condizione simile (è) sommamente ingiusta» (Fisch, 1996, p. 26). Persino gli stati che da più tempo e con grande energia si adoperano per l'affermazione dei diritti dell'uomo, ne violano i requisiti fondamentali: gli USA, cui nessuno può contestare l'appellativo di stato di diritto, permettono che in alcuni stati della confederazione si pronuncino pene capitali e che vengano eseguite in numero sempre crescente. Si viola in tal modo il fondamentale «diritto alla vita» e non si osserva, inoltre, il divieto di comminare «pene crudeli e inumane».
Si potrebbe forse obiettare che la pressione di allineamento cui viene sottoposto ogni stato aderente all'ONU, ostacola il tempestivo adeguamento del sistema giuridico nazionale alle norme dell'ONU. C'è però un'eccezione, uno «stato di diritto» di costituzione democratica, che non fa parte dell'ONU (dopo un referendum che ha sancito un netto rifiuto dell'adesione all'ONU), e che non è esposto perciò alla pressione di allineamento: la Svizzera. Ovviamente la confederazione elvetica ha aderito a singole convenzioni, nel senso di un sistema giuridico umano, modificando conseguentemente le sue leggi e procedure. Tuttavia essa infrange uno dei diritti fondamentali dell'uomo, quello della concessione dell'asilo. Il nocciolo di ogni regolamentazione del diritto d'asilo è il principio del non refoulement: vale a dire che una persona fuggita dal proprio paese perché, a causa delle sue idee, dell'appartenenza etnica, della razza, religione, etc., aveva il fondato timore di subire in patria un trattamento crudele ' la morte, la persecuzione, e non poteva godere di un corretto procedimento giudiziario, riceve asilo, e non può essere in nessun modo rimpatriata nel paese da cui è dovuta fuggire premesso che tale pericolo personale sia accertato e che sussista al momento della concessione dell'asilo. Nella regolamentazione del diritto d'asilo della Svizzera (1971) il principio del non refoulement viene espressamente citato. Tuttavia, sotto la pressione dei partiti che si oppongono all'afflusso di nuovi profughi, esso viene aggirato per mezzo di un artificio diplomatico. Il pericolo che corrono in patria coloro che chiedono asilo, viene valutato non a seconda dell'effettivo stato di pericolo dei profughi, ma a discrezione dell'amministrazione confederale. Essa si basa, nella valutazione delle condizioni dello stato in questione, sui resoconti dei diplomatici svizzeri ivi accreditati, che a loro volta sono informati dalle autorità, vale a dire dal governo e dalla polizia dello stato incriminato.
Forse non il primo caso, ma senz'altro il più spettacolare, è stato quello del professor Musey, un filosofo vissuto per molti anni in Svizzera, originario dello stato illiberale dello Zaire, ai tempi del presidente Mobuto Sese Seko. Il pericolo cui era esposto il professor Musey era evidente: mentre risiedeva all'estero in Svizzera! egli aveva aderito al governo di opposizione costituitosi in esilio, come Ministro per l'Educazione e la Cultura. Minacciata di espulsione, la sua famiglia era stata nascosta per circa un anno clandestinamente da una famiglia contadina elvetica, ma una volta rintracciata, fu arrestata dalla polizia confederale, con un gran dispiego di mezzi militari, e infine con un aereo speciale messo a disposizione a tal scopo, rimpatriata nello Zaire.
Da allora questa prassi si è estesa gradualmente ad altri paesi. Attualmente gli Albanesi del Kosovo sono rimpatriati in Serbia dalla polizia, coloro che si oppongono sono costretti con la forza. Il governo serbo, che dal 1990 sottopone la popolazione albanese della regione a un incessante terrore poliziesco e militare, è interlocutore e garante dinanzi al governo elvetico dell'incolumità delle persone rimpatriate. In modo analogo si procede da tempo con i profughi provenienti dallo Sri Lanka, devastato dalla guerra civile, e con i Curdi provenienti dalla Turchia che, perseguitati per motivi etnici, sono accusati di sostenere un partito fuorilegge (Pkk). A ogni modo, ciò non significa affatto che tutti coloro che corrono pericolo vengano rimpatriati. Per interi gruppi di profughi provenienti da zone di guerra, che non ricevono asilo o che non ne fanno richiesta, sono state fatte delle eccezioni. Essi «temporaneamente» non vengono respinti o rimpatriati, a seconda di quel che ritiene opportuno il governo elvetico, e per tutto il tempo che lo ritiene opportuno, oppure vengono espulsi in seguito, volontariamente o con la costrizione fisica e psichica. In altre parole: la prassi non è sempre inumana; i profughi tuttavia sono sottoposti a una prassi del tutto arbitraria, il contrario di ciò che si richiede a un ordinamento legislativo.
Da oltre un anno, soprattutto dall'inizio del 1997, la Svizzera è messa di fronte alle sue responsabilità durante la seconda guerra mondiale, e viene generalmente stigmatizzato come un crimine non semplicemente come un deplorevole errore il fatto che numerosi profughi ebrei (30.000 e più), provenienti dal Terzo Reich, furono respinti alla frontiera e destinati così a morte sicura. Come circostanza attenuante si sostiene che la Svizzera, circondata dalle potenze dell'Asse, era minacciata militarmente. Ma a rendere ancora più grave la sua posizione è il fatto che la presunta necessità di respingere gli Ebrei, secondo la parola d'ordine «la barca è piena», si rivelò in seguito un inganno o un pretesto. La barca non era affatto piena. Si menziona inoltre come aggravante il fatto che la prassi di respingimento per gli Ebrei era diversa, più rigida e selettiva, secondo idee razziste, rispetto a quella dei profughi «abituali», e che i passaporti e gli altri documenti degli Ebrei, in conformità a una disposizione della diplomazia elvetica, venivano contrassegnati dal marchio «J»1: i profughi venivano dunque ostacolati anche nel tentativo di raggiungere gli altri paesi, fin dal principio cioè erano stigmatizzati e discriminati.
Questo excursus storico permette di confrontare la situazione odierna dei diritti dell'uomo in Svizzera con quella dei tempi della seconda guerra mondiale. Una minaccia militare oggi non c'è. Tuttavia, rispetto ai diritti dell'uomo, non si è verificato alcun progresso, ma sono da segnalare solo alcuni cambiamenti. La selezione delle persone destinate al rimpatrio non viene fatta a seconda della razza, ma della provenienza. Nel cosiddetto modello delle tre zone, i profughi non sono accolti o respinti per la gravità del pericolo che corrono nei paesi di origine, o a seconda della loro idoneità. Decide esclusivamente la Svizzera che i profughi provenienti dai paesi confinanti e da altri paesi occidentali in stato di bisogno, sono graditi, accogliendoli con alcune limitazioni, mentre quelli provenienti dai paesi orientali e meridionali, per esempio la Jugoslavia, sono sgraditi, come gli Ebrei nella seconda guerra mondiale come allora con alcune eccezioni. Nei documenti la «J» è sostituita dal marchio «R», che sta per «retourné» o «refoulé» (rimpatriato o respinto). Proprio come un tempo, la «R» veniva applicata indipendentemente dal fatto che i motivi della fuga fossero stati esaminati oppure no, ed eventualmente si perpetrava una discriminazione d'ufficio, senza alcun riguardo per le circostanze individuali, come invece richiedono i diritti dell'uomo2. I cambiamenti sono: provenienza invece che razza, «R» invece che «J», «troppi stranieri in Svizzera», invece che pericolo di «ebraizzazione».
Se durante la seconda guerra mondiale, l'allestimento dei campi profughi non violava, a mio avviso, i diritti dell'uomo, la costruzione di luoghi di detenzione per i profughi destinati all'espulsione, accanto all'aeroporto di Zurigo Kloten, rappresenta una chiara violazione del divieto di allestire strumenti di tortura o strutture che comportino un trattamento crudele di uomini che non devono rispondere di un alcun crimine. In effetti tali luoghi di detenzione non si differenziano dai penitenziari; essi sono sorti per custodire, fino a nove mesi, persone il cui unico reato è quello di non avere documenti validi a parte il fatto che la Svizzera intende espellerli perché sono entrati nel paese, legalmente o illegalmente. Sulla prassi di tali strutture detentive non c'è alcuna forma di controllo, né delle sentenze giuridiche.
Osservazioni psicoanalitiche sul problema dei diritti universali dell'uomo
È stato affermato che i diritti universali dell'uomo sono profondamente ancorati all'essenza dell'uomo, che l'uomo è «buono per natura», e che soltanto l'ingiustizia della società lo rende malvagio e cattivo (Jean Jacques Rousseau). Partendo da questa concezione, viene posto il problema ontologico della costante «buono o cattivo», il problema dell'Essere così, della dotazione dell'uomo, dei suoi bagagli pulsionali. A ciò la psicoanalisi freudiana dà una risposta chiara: tanto il comportamento amoroso (Eros), che quello ostile al proprio simile (aggressività) sono contenuti nel bagaglio pulsionale di ogni uomo. La costante antropologica non è dunque «buono o cattivo», ma «buono e cattivo». Il problema ontologico è dunque superfluo. Esso viene sostituito dalla constatazione che la psiche, solo dopo un lungo e complicato processo di sviluppo, produce ciò che noi osserviamo come fenomeno: il modo in cui l'«uomo adulto» si comporta, sente, pensa e agisce. Il problema se l'uomo sia «buono o cattivo» è formulato spesso in maniera manichea, nel senso di un aut aut. Tutte le «grandi» religioni e molte scuole filosofiche hanno una risposta al riguardo. Non è sorprendente che si cerchi continuamente di dare un giudizio etico al comportamento adottato dinanzi ai diritti dell'uomo, e di sottoporre questi a una morale. La psicoanalisi non è adatta a dare una valida risposta al problema etico; ci risparmia la ricerca di un principio morale. Essa cerca invece di esaminare nell'uomo adulto, e, partendo da questi, nella famiglia, nella tribù, nel popolo, vale a dire in ogni tipo di comunità umana, il risultato dello sviluppo psichico. Cerca di scoprire, per esempio, quali strutture, maturatesi nell'«apparato psichico» (come Freud ha definito la vita interiore) promuovano, o al contrario riducano, una disposizione e un comportamento conformi ai diritti universali dell'uomo.
La psicoanalisi non solo «non è adatta» a trovare una risposta al problema di una legge morale (Ethos) valida o universalmente valida; essa può dimostrare che il problema è mal formulato. Sigmund Freud (1927) ha dimostrato a suo tempo che le religioni, compreso l'Ethos che è loro inerente, sono illusioni, che devono la loro origine al medesimo complesso e inconscio processo di sviluppo da cui derivano i sintomi nevrotici; e che da esse perciò non si può trarre alcuna legge ragionevole. Peraltro il metodo etnopsicoanalitico ha dimostrato che ogni sistema tradizionale di valori dell'individuo deriva specificamente, e dunque in maniera univoca, da fenomeni storici e sociali (Io del gruppo, coscienza del clan). Se oggi i Cinesi dichiarano di fronte agli europei di avere dei «diritti dell'uomo», diversi tuttavia da quelli europei, lo psicoanalista dovrebbe obiettare: «Se si adducono argomenti di carattere morale, senz'altro». I diritti dell'uomo, però, sono qualcosa di diverso da un principio etico. Almeno in due fondamentali sistemi di valori della sua cultura (cinese), il marxismo e la dottrina dell'armonia di Confucio, si può dimostrare che i diritti universali dell'uomo sono senz'altro presenti come elementi costitutivi.
La mia esposizione non può che essere sintetica e dunque superficiale. Asserzioni certe e verificabili sono possibili nella psicoanalisi solo attraverso singole analisi, lunghe e complesse. Se si vogliono trarre da essa leggi generali sui processi interiori, le affermazioni diventano ipotetiche, si avvicinano, per così dire, a una filosofia psicologica speculativa. Nel suo fondamentale lavoro di critica della cultura, «Il disagio della civiltà» (1930), Sigmund Freud ha preso le mosse da un'ipotesi evidente dal punto di vista fenomenologico, ma poco espressiva, e cioè che la psiche si sviluppa in modo da rendere possibile la convivenza degli uomini. Ciò nonostante, cercherò almeno di illustrare in che modo la psicoanalisi si accosti criticamente al problema dei diritti dell'uomo. Seguirò a tal scopo il modello «strutturale» della «metapsicologia», mi chiederò dunque in che modo si debba analizzare ognuna delle tre istanze, l'Io, il Super io e l'Es, per spiegare la particolare disposizione dinanzi ai diritti universali dell'uomo.
I bagagli pulsionali non sono accessibili come tali; i bisogni pulsionali derivano dall'Es, che la psicoanalisi ha in primo luogo equiparato all'Inconscio. Essi devono essere esaminati indirettamente dal loro sviluppo, dai destini delle pulsioni. Resta tuttavia l'impressione che i bagagli pulsionali presentino poche differenze, e che, per esempio, non trovi conferma il detto popolare secondo cui i criminali, i cosiddetti «assassini passionali», sono persone che mostrano fin dalla nascita un eccesso di energia pulsionale aggressiva. Lo sviluppo psichico, che è caratterizzato da un andamento fasico nelle crisi epigenetiche (René A. Spitz), può determinare tuttavia una tendenza duratura a mete pulsionali aggressive o crudeli (fissazione). Eccessive frustrazioni nella fase di separazione del bambino piccolo dalla madre, durante il conflitto edipico e soprattutto nell'adolescenza, possono far sì che le pulsioni erotiche si indirizzino prevalentemente sul proprio Sé, e che le persone di riferimento siano avvicinate non per il soddisfacimento di fini erotici, bensì prevalentemente per il soddisfacimento di pulsioni crudeli (sadiche). In effetti nelle persone che tendono a violazioni particolarmente ripugnanti dei diritti universali dell'uomo, sono stati spesso riscontrati tali disturbi «narcisistici» della personalità. Tuttavia il fatto che si arrivi davvero a un'efferata violazione dei diritti universali dell'uomo non è da ascrivere, per quanto riguarda le cause, alla sola fissazione narcisistica. Questa è piuttosto una di una serie complementare di fattori: modelli particolari, personalità di leader e ideologie aggressive, come pure un ambiente (sociale) in grado di scatenare angoscia e furore inerme, fanno sì che i «caratteri narcisistici» diventino colpevoli e violino regole e norme di valori universalmente valide.
Al Super io viene ascritta la funzione di rappresentare l'istanza che, nel corso dello sviluppo psichico, fa sì che si stabilisca una potente voce interiore, la quale a sua volta fa in modo che i valori eterni, trasmessi dalla tradizione, diventino principi regolatori del comportamento. Il Super io si manifesta attraverso le leggi e i divieti interiori; quando le sue richieste sono ignorate, nasce il senso di colpa. Per questo motivo, esso viene equiparato alla coscienza. Coloro che violano i diritti universali dell'uomo, si afferma, non hanno una coscienza oppure hanno una coscienza difettosa. Lo sviluppo interiore avrebbe fallito nella formazione del Super io. Si è supposto anzi che non tutti i tipi di socializzazione, nei vari popoli o strutture sociali, portino alla formazione dell'istanza del «Super io». Quest'ultima obiezione non è però convincente. Non sono quasi conosciuti modelli tradizionali di socializzazione che risparmino agli adolescenti la formazione dell'istanza del Super io o che la rendano impossibile. Uomini «senza coscienza» non ci sono in nessuna cultura. Al contrario, esistono forme di Super io che trasmettono sistemi di valori e norme di comportamento completamente diversi da quelli che sarebbero necessari per il rispetto dei diritti universali dell'uomo. Nelle caste di guerrieri per esempio si trasmettono concezioni di valori che contraddicono quelle dei diritti universali dell'uomo; lo stesso vale per i maschi allevati in una cultura del machismo (patriarcale). D'altro canto anche un Super io troppo rigido, al servizio di una morale cristiana radicale o di un'altra «buona causa», come per i comunisti fanatici, può motivare la persona a violare i diritti dell'uomo. L'Io si pone al servizio del «buon» fine. I riformatori fanatici possono ben diventare assassini.
Come contro altre istanze interiori, si possono stabilire meccanismi di difesa dalle richieste del Super io, che le rendano temporaneamente o definitivamente inefficaci, così da far tacere il senso di colpa. L'esempio più noto è quello della formazione del soldato. In tutti gli stati che dispongono di forze armate, le reclute sono formate, sul finire dell'adolescenza, a violare, in determinate circostanze, il comandamento universale di «Non uccidere». La formazione del soldato viene fatta attraverso processi di apprendimento (disciplina, rigido addestramento) e attraverso l'identificazione con ideologie o con i loro esponenti, leader, ufficiali, e così via. La difesa dalle richieste del Super io è così efficace che la maggior parte dei soldati in quasi tutte le guerre erano (e sono) convinti di combattere per una giusta causa e uccidono i nemici senza sensi di colpa. Per gli assassini di Keraterm, è presumibile che l'indottrinamento da parte della direzione politica e militare abbia avuto un ruolo molto importante, e che la disciplina non sia stata imposta attraverso l'apprendimento e il rigido addestramento, come accade generalmente nella formazione del soldato. In questo contesto si sono rivelati, quali fattori psicologici di immediata efficacia, l'identificazione con i comandanti subalterni e la pressione di gruppo, nelle comunità cospiratrici di combattenti e criminali. Nelle bande delle cosiddette truppe paramilitari, il Super io dei membri viene ampiamente sostituito dall'identificazione con i capi e i gregari criminali, i quali, a loro volta, si difendono dalle richieste del Super io aderendo al piano criminale della direzione suprema e alla sua esasperata ideologia nazionalistica. Naturalmente la paura e la minaccia da parte dei propri camerati e capi sono molto importanti negli assassinii «barbari ed efferati». Le confessioni che talvolta vengono rese in seguito, magari dopo anni, come è accaduto, per esempio, in Argentina, da parte di ufficiali che avevano torturato, lasciano supporre che il Super-io di questi assassini era stato soltanto reso inattivo, non completamente annientato. Passata la paura, caduta la pressione di gruppo, svalutati il capo (il generale) e l'ideologia allora dominante, sembra che talvolta affiorino in alcuni assassini il senso di colpa e il bisogno di confessare ed espiare i propri crimini, secondo le richieste del Super io.
All'Io, la struttura cui la psicoanalisi attribuisce (accanto ad altre funzioni) quella di mediare tra l'Es, il Super io e il mondo esterno reale, spetta il compito principale nel determinare il rispetto o la violazione dei diritti universali dell'uomo. Come «organo» di adattamento tra esterno e interno, l'io fallisce, se tale accordo viene attuato a spese dell'adattamento alle note richieste di rispetto dei diritti universali dell'uomo. In altre parole, non le tre strutture, ma l'accordo ottimale tra esse determina il comportamento e l'atteggiamento emotivo e spirituale. Purtroppo dalle conoscenze psicoanalitiche non è possibile trarre alcun modello generale di sviluppo che porti alla formazione di un Io «buono», invece che di un Io forte, dominante; di conseguenza non esiste un modello di educazione o istruzioni pedagogiche particolari da seguire. Si arriva anzi alla paradossale constatazione che le condizioni giuste per lo sviluppo psichico sarebbero date solo se tutti gli educatori, tutto l'ambiente umano del bambino, si fossero già sviluppati in tali ipotetiche «giuste» condizioni. In realtà ogni tipo di socializzazione, o quasi, può dare inizio a una formazione psichica che porterà a un comportamento sociale accettabile. «Saremmo buoni e non malvagi/ ma all'atto pratico facciamo stragi!» (Bertolt Brecht3) .
Di tanto in tanto sono apparse personalità il cui spirito ed energia sono stati posti completamente al servizio dei diritti dell'uomo (Gandhi, Tolstoj), quasi che su di un'unica persona si fosse concentrato il compito della cultura di onorare e affermare i valori del diritto dell'uomo. Questo sembra indicare che una forma di consapevolezza dei diritti dell'uomo è presente in maniera latente anche in culture in cui essa non si è finora manifestata; nelle osservazioni etnologiche ritornerò sul problema della validità universale dei diritti dell'uomo. Sappiamo che anche gli scopi più puri ed elevati dei riformatori del mondo non offrono garanzie che questi al servizio della buona causa non commettano a loro volta dei delitti, una volta raggiunte delle posizioni politiche di potere.
Osservazioni etnologiche sul problema dei diritti universali dell'uomo
L'assunto di fondo dell'etnologia (anthropology) è che l'uomo è un essere sociale. Tutte le culture (cultures) studiate dall'etologia, per quanto si differenzino nello spazio e nel tempo, si fondano sulla capacità dell'uomo di organizzare e regolare la convivenza con i propri simili. Diverse ipotesi fanno derivare lo sviluppo del genere umano, la sua evoluzione e separazione dalle grandi scimmie (i primati) da una fase determinata dell'evoluzione: l'andatura eretta, l'uso di utensili, l'acquisizione del linguaggio, e altro ancora. A me sembra che il momento decisivo dell'evoluzione che ha portato alla formazione dell'essere umano consista nel fatto che la convivenza con i propri simili è stata determinata non dall'istinto e dalla sua configurazione (provocata da stimoli, imprinting, processi di apprendimento, etc.), bensì da tradizioni culturali, per lo più trasmesse e modificate, rispettivamente, per mezzo di sistemi simbolici, e adattate alle condizioni naturali. Naturalmente l'uomo non può produrre niente se gli manca la dotazione genetica. La molteplicità delle più diverse strutture sociali (cultures) testimonia della capacità di adattamento dell'uomo alle condizioni climatiche, geografiche, etc. D'altro canto nelle più diverse culture sviluppatesi nella storia sono documentabili modelli di comportamento (patterns of culture) analoghi o persino simili, che si possono, a mio avviso, mettere in evidenza analiticamente nella molteplicità di situazioni, compiti, istituzioni e tradizioni.
La mia tesi è che i diritti universali dell'uomo, in quanto presupposto e compito della vita nella società (gruppo), sono ubiquitari, vale a dire che essi sono presenti in nuce e documentabili ovunque. Al primo e anche al secondo sguardo non lo si supporrebbe. Al contrario. Tutte le culture che oggi conosciamo sono organizzate in maniera da assicurare gli adattamenti all'ambiente naturale e a quello umano circostante. Se così non fosse, esse sarebbero da tempo scomparse, come per esempio gli Etruschi, che hanno lasciato ricche tracce della loro cultura, o i Celti in Europa, o i Telem nella regione del Dogon (Mali), le cui tombe sono le esigue testimonianze rimaste di culture «tramontate». Ogni giorno siamo testimoni del fatto che interi popoli, con il proprio territorio, la propria lingua e le proprie specifiche istituzioni, perdono la propria natura; alcuni popoli si estinguono fisicamente, altri si disperdono in popoli più forti nella capacità di sopravvivenza, altri ancora lasciano esigue testimonianze, per esempio modificando in parte le istituzioni tradizionali dei popoli che li hanno sottomessi, assorbiti, o che sono loro subentrati. Sembra quasi che tutti quei popoli che si sono dimostrati vitali e ben delimitati, si comportino come se ignorassero i diritti universali dell'uomo, figurarsi poi se li rispettano. Tali popoli sono paragonati all'egoista che impone i propri interessi in maniera «utilitaristica» contro gli altri, senza tenere alcun conto dei propri congiunti, vicini o amici. La regola di Darwin con cui si spiega lo sviluppo evoluzionistico delle specie animali, fino alla varietà differenziata, the survival of the fittest, è stata estesa alla vita sociale, riadattata e riorganizzata nella teoria del darwinismo sociale. In questa ideologia, che riprende la teoria dell'evoluzione per lo più con la formula erroneamente tradotta della «sopravvivenza del più forte» sono riassunti spiegazioni e modelli di legittimazione che a un'osservazione superficiale mostrano una certa evidenza. Se tuttavia le istituzioni e i modelli spiegati con il darwinismo sociale si esaminano in maniera più approfondita, si nota che essi mancano di quel valore chiarificatore che ha, invece, la teoria biologica dell'evoluzione. Si ha la netta impressione che tale ideologia non abbia altro scopo che quello di legittimare i fenomeni sociali che violano i diritti universali dell'uomo. A che scopo, mi chiedo, tale dispendio di propaganda, demagogia e falsificazione, se i diritti universali dell'uomo non avessero un peso nell'organizzazione della vita sociale?
Nell'ambito di questo contributo non è possibile analizzare, sotto questo aspetto, le istituzioni di tutte le strutture sociali del presente e del passato, per stabilire se in esse sia documentabile, in maniera esplicita o implicita, l'azione dei diritti universali dell'uomo. La mia tesi potrebbe essere dimostrata solo con un'esposizione completa e sistematica. Con i seguenti esempi, non voglio dimostrare nulla, ma mostrare semplicemente delle istituzioni particolarmente evidenti, che possono essere esaminate alla luce di due opposte tendenze: una che induce al rispetto dei diritti dell'uomo, l'altra che invece li delimita, li disconosce o sopprime. Questo metodo si può definire dialettico. Bisogna accettare il fatto che gli esempi scelti saranno illustrati al di fuori del loro contesto storico o di altra natura, estrapolati per così dire dal contesto culturale, e raggruppati solo in relazione a un determinato diritto dell'uomo, valido a livello universale.
Una corrente di ricerca etnologica classifica tutte le culture conosciute secondo il rapporto che esse hanno con l'idea di giustizia. Questo procedimento può essere utile a inquadrare in un ordine sistematico tutte le culture finora descritte; tale procedimento è simile a quello che intendo seguire. Si considera un'idea immanente, l'idea di giustizia, senza esaminarne all'inizio l'origine, la formazione, lo scopo e la dinamica. Il diritto alla vita sembra essere riconosciuto in tutte le culture. Dare la morte può essere ammesso solo in condizioni particolari. Là dove si è sviluppato il diritto penale, soltanto questo ha il privilegio di dare la morte per l'espiazione di un delitto. Sigmund Freud (1913) ha fatto notare a suo tempo che la condanna capitale pronunziata da un tribunale consente di soddisfare il bisogno di vendetta della società. Nelle culture che non conoscono il diritto penale, ma la «giustizia distributiva», come ad esempio presso gli Akan, popoli dell'Africa occidentale, l'omicidio volontario o l'assassinio deve essere in qualche modo risarcito ai parenti dell'ucciso, la perdita deve essere pareggiata. L'entità del risarcimento non dipende dai motivi dell'assassinio, ma viene stabilita da coloro che hanno subito la perdita, dalla gravità che le attribuiscono, da quanto ne debbano soffrire. Gli stessi popoli Akan (e molti altri) attribuiscono ogni morte violenta, ma anche i casi di morte per vecchiaia e malattia, quasi senza eccezione, alla magia nera e a influssi immateriali negativi, che provengono dai vivi (streghe, maghi) o dagli spiriti dei defunti. Perciò le violazioni del diritto alla vita sono sottoposte a un sistema che, in linea di principio, permette delle contromisure (magia bianca, e così via).
La molteplicità delle cerimonie e procedure di purificazione in tutte, o quasi tutte, le culture mostra che coloro che hanno ucciso, per poter tornare a vivere tra i propri simili, devono essere ritrasformati in «veri e propri» membri della società. È noto che nei popoli «animistici», con sistemi magici di pensiero, ogni uccisione, anche quella delle prede, persino quella degli alberi, richiede una riparazione, una purificazione. Là dove sviluppati ordinamenti giuridici e leggi di guerra che regolano il diritto di dare la morte, sembrano rendere superfluo il principio cardine dei diritti universali dell'uomo, il diritto alla vita, resta comunque la stigmatizzazione di colui che dà la morte: si pensi ad esempio alla condizione di proscritto del boia. Tutte le religioni hanno istituzioni che hanno il compito di trattare l'ingiustizia della soppressione della vita: suppliche per ricevere il perdono o la grazia, classificazione secondo un principio superiore che dia legittimazione (crociate contro i pagani, caccia alle streghe, agli eretici, e così via) e infine i più svariati dogmi per poter attribuire l'omicidio al volere di Dio, al destino predeterminato (Kismet), alla vendetta degli dei o ad altre istanze indipendenti dall'uomo che dà la morte. Persino il rapporto più illuminato con la morte reca le tracce di una magia che deve mitigare l'oltraggio dell'uccidere. Anche tra noi è valido il detto: «De mortuis nil nisi bene». L'istituzione di duelli tra maschi è presente in molte culture tradizionali. Quali possano essere i fondamenti ideologici l'imposizione di un ordine gerarchico, il concetto di onore e di offesa all'onore essi sono, senza alcuna eccezione, rigidamente ritualizzati: dal duello cavalleresco, al duello degli stati cristiani dell'età moderna fino ai combattimenti sportivi di pugilato dei nostri tempi. L'interpretazione psicologica era che la società metteva a disposizione dell'inevitabile aggressività e rivalità dei giovani maschi della stessa cultura, ceto o subcultura, un sistema di regole che ne consentisse lo sfogo. Tutti i rituali, pur nella loro varietà, dispongono di regole «leali» che devono impedire, possibilmente, l'assassinio dell'avversario.
Sebbene non mi addentri in questo contributo nei conflitti tra stati che danno luogo al diritto internazionale o al diritto di guerra, desidero menzionare una forma di guerra fra tribù confinanti, le guerre finte, mock battles, un'istituzione delle tribù montane che vivono nelle vallate dell'altopiano della Papua Nuova Guinea. Con un ritmo determinato dai rituali si svolgono delle vere e proprie guerre concordate. I giovani vengono agghindati, armati di armi da guerra e preparati spiritualmente al combattimento. Le battaglie sono combattute con forza e astuzia. Appena però un guerriero viene ucciso o gravemente ferito, la guerra si interrompe. Entrambe le parti si ritirano e piangono lo spargimento di sangue finché non arriva il momento di combattere un'altra battaglia.
Né i conflitti per il possesso del territorio, di beni o donne, né altri conflitti di interessi, sembrano provocare le guerre finte. Si tratta piuttosto di prestigio, di autorappresentazione e dell'esercizio della forza di combattimento. In ogni caso viene garantito periodicamente lo sfogo dell'aggressività dei giovani maschi. Il rispetto della regola di risparmiare la vita, il diritto universale dell'uomo alla vita, sembra affermarsi nonostante il pieno scatenamento della combattività e del coraggio. I Jivaro, una tribù della foresta vergine dell'Amazzonia peruviana, sono «cacciatori di teste». Il loro chiuso mondo di regole magiche è così lontano per noi che non corriamo il pericolo di giudicare il loro comportamento secondo la nostra morale eurocentrica. Per diventare adulti, gli adolescenti dei Jivaro devono uccidere un uomo di un popolo confinante e portarne via la testa. Quanto più in vista e ricca di esperienza è la vittima, tanto più la sua testa giova al cacciatore che riesca nell'intento; perciò la testa di un anziano è il bersaglio più ambito di un assassino rituale. L'età adulta non può essere raggiunta in nessun modo senza il trofeo della testa cacciata. Tuttavia sono previste delle eccezioni alla regola, se all'adolescente ripugna uccidere un anziano innocente, oppure se delle considerazioni di carattere politico inducono i Jivaro a evitare provocazioni al popolo confinante con cui commerciano. L'adolescente può uccidere, invece che un anziano, un bradipo, una preda che si può cacciare senza problemi. La testa del bradipo sostituisce perfettamente il potere magico di un anziano: perché? Perché il bradipo si muove lentamente e con circospezione, come un anziano dotato di molta esperienza. Il diritto universale dell'uomo alla vita si manifesta proprio là dove una coerente, specifica istituzione considera la caccia delle teste come un elemento imprescindibile della propria cultura (cfr. Harner, 1973).
Maltrattamenti crudeli che violano il diritto all'integrità del corpo rivelano, quali possano esserne le motivazioni, l'intento di conservare o rafforzare l'integrità della propria società. Un tipo di maltrattamenti viene compiuto direttamente per assicurare in maniera drastica l'appartenenza, la coesione e la delimitazione rispetto ad altri individui che si trovano al di fuori della struttura sociale desiderata: si pensi alla circoncisione degli Ebrei e Maomettani, alle mutilazioni e produzioni di cicatrici, soprattutto nei rituali di iniziazione, per sancire la definitiva appartenenza a un determinato gruppo (tribù, etc.). Là dove la mutilazione, in quanto operazione crudele, riguarda solo la sfera sessuale delle donne e ragazze, si vuole confermare e consolidare, attraverso l'appartenenza al gruppo, un ordine sociale riconosciuto come l'unico umano e giusto (il dominio degli uomini sulle donne). La rigida regolamentazione rituale reca già in sé l'indicazione che una cosa del genere non può accadere in nessun modo al di fuori di quell'ordine umano. Nei paesi in cui gli organi di stato torturano per estorcere confessioni, ciò viene fatto sempre per impedire qualcosa di «peggio». L'intenzione di atterrire gli oppositori è destinata sempre a scontrarsi con le misure adottate per tenere nascosti o negare i misfatti più gravi. I torturatori non potranno mai liberarsi del proprio marchio di infamia, quasi siano consapevoli di aver violato un diritto fondamentale dell'uomo. Anche il politico francese Le Pen, che pure ha riscosso molti successi, non potrà mai liberarsi del marchio di infamia, per aver torturato durante la guerra in Algeria, per conto e disposizione delle forze armate francesi. La polizia turca che tortura i criminali e gli esponenti del popolo curdo, fa questo con la giustificazione che solo questo mezzo possa recare pace e sicurezza a tutto il popolo. Si tortura sempre al servizio di una «giusta causa». Ma a dispetto del grande dispiego di propaganda, menzogne, rinnegamento, i conti non tornano. Accanto a tutte le azioni raccapriccianti compiute dalla crudeltà delle istituzioni, resta pur sempre qualcosa, quasi «sapessero ciò che fanno»: nella prassi più brutale è presente la consapevolezza di aver violato un diritto fondamentale.
Devo esprimermi più concisamente e menzionerò soltanto singoli fenomeni che ho scelto arbitrariamente, in cui si rivela senz'altro il diritto dell'uomo che è alla loro base, nonostante la sua apparente violazione; il tessuto sociale è per così dire trasparente, e lascia intravedere il conflitto che si è irrigidito nella tradizione. Una parità tra uomo e donna non esiste pressoché in nessun luogo. Nell'ambito della famiglia, essa è ignorata nel modo più inaudito là dove la tradizione vuole che soltanto i genitori della ragazza decidano chi debba sposare. Nelle famiglie contadine mussulmane della Bosnia settentrionale era così fino alla seconda guerra mondiale. Dato che i matrimoni venivano combinati per lo più tra vicini dello stesso villaggio o di insediamenti vicini, la futura sposa conosceva almeno da lontano il giovane scelto dai genitori. Se il matrimonio veniva combinato tra i genitori della fidanzata e quelli del giovane, la madre lo comunicava alla ragazza, per lo più poco tempo dopo il compimento dei sedici anni. Talvolta tutto andava liscio col matrimonio e la fondazione di una nuova famiglia. Spesso accadeva però che la fidanzata soffrisse di attacchi di svenimento. Si consultava un Imam, un sacerdote islamico. Questi stabiliva che gli spiriti della famiglia del fidanzato erano ostili alla famiglia della fidanzata, ed erano entrati nella ragazza per rendere impossibile il legame. Il fidanzamento veniva sciolto, la ragazza ritornava immediatamente sana poiché gli spiriti maligni l'abbandonavano. Il processo si ripeteva a ogni successivo fidanzamento combinato dai genitori, finché si trovava il fidanzato giusto che la ragazza gradiva come compagno. Il matrimonio aveva luogo, le nozze si potevano celebrare e la famiglia fondare. Una disposizione fondata in questa cultura a stati eccezionali di isteria di giovani donne, era posta al servizio del diritto dell'uomo all'autodeterminazione.
Le limitazioni, o persino la soppressione totale, del diritto all'autodeterminazione dei popoli assoggettati militarmente, politicamente e/o economicamente, costituiscono eventi ridondanti della politica del ventesimo secolo, che ha inventato nuovi sistemi giuridici legittimandoli «scientificamente» o storicamente (per esempio con le teorie razziali), i quali, accanto agli scopi economici e «utilitaristici», sono rivolti, in tutta la varietà dei loro mezzi, contro un unico comune avversario: il diritto universale dell'uomo all'autodeterminazione. Vorrei citare un esempio famoso, quello della Turchia dell'Asia Minore, ricostruzione dell'impero ottomano ormai obsoleto: gli Armeni dovevano essere fisicamente sterminati (1915) perché restasse soltanto il popolo dei Turchi e l'autodeterminazione potesse diventare tautologia. I popoli curdi furono soppressi a livello semantico come popolo (con le proprie lingue, tradizioni, etc.) e chiamati Turchi delle montagne; attualmente essi sono sottoposti a un gran dispiego di misure, che hanno motivazioni giuridiche, militari e politiche, volte a impedire l'autodeterminazione del popolo e degli individui. Tutto ciò si può dedurre, nella maniera più immediata, da quei meccanismi di repressione che non lasciano intravedere scopi di altra natura, e dagli sforzi di portare all'estinzione la lingua (o lingue) curda. La lotta contro le lingue (dal divieto draconiano alla sciocca disputa sui segnali di località) è sempre rivolta contro un presupposto importante per l'autodeterminazione. Poiché la lingua comune serve, nella stessa misura, alla coesione di una comunità e alla sua delimitazione rispetto all'esterno, la sua estinzione sembra comportare anche l'estinzione della fastidiosa rivendicazione del diritto all'autodeterminazione. In altri luoghi l'autonomia linguistica delle parti non disturba affatto la cooperazione all'interno di un'unità statale. Nella Costa d'Avorio (Africa occidentale) il francese, la lingua dei dominatori coloniali, è stata accettata senza proteste come lingua ufficiale, senza che venisse posta una qualunque limitazione all'uso di una delle oltre cinquanta lingue «autoctone» della repubblica indipendente.
L'abolizione della schiavitù, nella forma che ha assunto nell'età moderna, è considerata a ragione una delle tappe più importanti del progresso della civiltà. Il divieto della schiavitù fu ascritto, al di là dei mutamenti economici in atto (lo sviluppo industriale), all'influsso morale dell'Illuminismo (guerra civile americana) e alla dottrina religiosa protestante in esso confluita (movimento abolizionista). Il processo dell'abolizione dello schiavismo e della tratta degli schiavi non si è ancora concluso: la liberazione degli schiavi si deve affermare nel mondo intero attraverso la pressione politica ed economica. Nei luoghi e nelle epoche in cui lo schiavismo sembrava essere un fenomeno indiscusso e naturale, bisogna tuttavia riconoscere che la schiavitù mostrava alcuni elementi del diritto all'autodeterminazione. Nelle forme così diverse della servitù della gleba (dai servi della gleba contadini in Europa e nell'impero zarista fino ai captifs dei nomadi del Sahara) sono sempre stati previsti cambiamenti di stato validi a livello giuridico (liberazione e simili) che consentono agli schiavi l'indipendenza. Là dove, cosa abbastanza frequente, lo status di servo della gleba si mescola a forme di reciproca dipendenza, sulla base del diritto di famiglia, il diritto di disporre della propria persona prevale sulla dipendenza familiare, da cui, com'è noto, ci si può liberare solo attraverso cambiamenti nell'organizzazione familiare (il matrimonio). La tratta degli schiavi per il mercato caraibico e americano si basava sulla collaborazione con i cacciatori di schiavi, e costituiva un settore economico dei popoli della costa dell'Africa occidentale, che venivano pagati per le loro consegne. Gli Ashanti e altri popoli Akan consideravano i prigionieri neri una merce, una mercanzia priva di propri diritti. Con un'unica eccezione. I prigionieri dovevano spesso attendere, nelle mani dei loro rapitori lungo la Costa d'Avorio, l'arrivo della nave successiva che li avrebbe portati, nella misura in cui sopravvivevano, ai loro compratori in America. In quel periodo i loro temporanei padroni non potevano disporre della loro forza lavoro. Gli Ashanti li avrebbero utilizzati volentieri come lavoratori nelle loro piantagioni o come schiavi domestici. Il rispetto dell'autodeterminazione al fine dell'autoconservazione ammetteva una sola possibilità di conservare l'interesse di entrambe le parti, l'autodeterminazione dello schiavo e lo schiavista come datore di lavoro. Lo schiavo/la schiava doveva essere accolto attraverso il matrimonio nell'organizzazione familiare. Se ciò accadeva, il problema era risolto per entrambe le parti del deal: liberi congiunti, imparentati dal matrimonio, mettevano senza alcuna limitazione la propria forza lavoro a disposizione dell'organizzazione familiare, che ora era divenuta la propria.
Il diritto di ogni bambino a un sano sviluppo, così come viene stabilito nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo, corrisponde perfettamente nella sua interpretazione all'attuale modello degli stati «sviluppati» (divieto del lavoro minorile, diritto all'istruzione elementare gratuita). La «pedagogia nera» è caduta in discredito solo da poco tempo nella nostra cultura, e non è scomparsa dalla prassi. Nell'oscura preistoria dei «primitivi» dai tropici agli Inuit, gli Eschimesi dell'Artico canadese non esistono etnie prive di istituzioni che definiscano questo diritto o per lo meno ne lascino intuire l'azione. Nei riti iniziatici di ogni tipo, i diritti dei bambini e le corrispondenti cure della famiglia o società, sono nettamente distinti dai diritti riconosciuti ai figli che entrano gradualmente nella condizione di adulti. In non poche culture, per esempio presso i Maya in Messico, viene stabilito il diritto del bambino ancor prima della nascita, attraverso una serie di norme, stabilite da specifici rituali della vita quotidiana delle gestanti; dopo la nascita è prevista la, pausa per l'allattamento e per le cure che la madre deve prestare al lattante. Nel moderno stato del Messico l'insegnamento elementare non è affatto accessibile a tutti i bambini; i bambini maya che vivono nelle zone della foresta tropicale crescono, per la maggior parte, senza una formazione scolastica. Dato che i bambini non sono in grado di costituire un pressure group e la società avverte solo in maniera indiretta gli effetti della scarsa considerazione dei loro diritti, bisogna supporre che il diritto universale del bambino si affermi là dove gli «illuminati» diritti dell'uomo non sono affatto conosciuti. (In Svizzera non è stata ancora introdotta, per motivi politici ed economici, una assicurazione per la maternità).
Infine nella mia enumerazione tratterò dei diritti dell'uomo che sono al centro del dibattito politico degli stati europei occidentali e degli Usa: la maniera di accogliere lo «straniero», l'ospite, il profugo, l'immigrato, uomini che per la loro origine «non fanno parte del paese», è prevista nel diritto universale dell'uomo. Non conosco nessun popolo che non sappia distinguere tra stranieri e propri membri. Diversi popoli denominano i propri membri con la parola che significa persona (lingue bantu) o uomo (inglese). Ciò non significa affatto che gli altri siano considerati a priori nemici, esseri inumani o non umani. Esistono infine varianti di modelli culturali che stabiliscono da una parte il diritto dello straniero all'ospitalità e dall'altra le regole per poter accogliere, «integrare» gli stranieri nella comunità. Le regole morali che dovremmo seguire secondo la Dichiarazione dei diritti dell'uomo, ci giungono, per così dire, troppo tardi storicamente, sono state superate in termini utilitaristici. Lo straniero pacifico viene rispettato perché è un ospite (diritto di ospitalità), contro l'interesse economico. (In Svizzera l'industria del turismo ha assorbito e scalzato l'istituto dell'ospitalità che si era sviluppato per tradizione nelle zone alpine, come in tutte le regioni particolarmente inospitali). Il diritto d'asilo, nella prassi, è presente in nuce presso molti popoli, anche quando si espongono in tal modo a dei pericoli o ne ricavano svantaggi. Molto prima della fondazione degli stati nazionali, quando si ignoravano del tutto i concetti del diritto internazionale di sovranità e di trattato internazionale, sono sorte istituzioni che garantivano una pacifica convivenza con i vicini. I Dogon, un popolo di agricoltori, sono legati al popolo di pescatori dei Bozo, sul Niger, da una durevole amicizia attraverso la nota «parentela per scherzo» (parenté à plaisanterie). Anche altri popoli dell'Africa occidentale hanno simili istituzioni. I Trobriander, i famosi «Argonauti del Pacifico», hanno una pace duratura con i popoli insulari limitrofi grazie al Kula, un rituale di baratto descritto da Malinowski, e sono attualmente sul punto di sostituire in parte questo rituale con una sorta di campionato di calcio (cfr. Maier, 1996).
La discussione sfiora a questo punto problemi di diritto internazionale, il quale può basarsi solo sul diritto universale degli individui, allo stesso modo che questo può essere rispettato solo attraverso l'adozione del diritto internazionale. Nonostante siano strettamente connessi, non posso addentrarmi nei problemi del diritto internazionale. Essi sono troppo distanti dal punto di vista dell'etnologia, e devono essere analizzati piuttosto dal punto di vista delle scienze politiche e della filosofia del diritto.
Cerco di riassumere i concetti che emergono allorché si considerano l'analisi psicoanalitica e quella etnologica. Si devono menzionare allora quelle forze che sono indirizzate contro il rispetto dei diritti universali dell'uomo, che ne impediscono o ne ostacolano il rispetto o anche solo la percezione, che ne determinano la scomparsa in maniera così notevole che si può parlare della invisibility dei diritti dell'uomo analogamente all'espressione invisibility of women, con cui viene definita la scomparsa delle donne dalla ricerca etnologica. La II Dichiarazione dei diritti dell'uomo (1793) dei Giacobini che prometteva «uguaglianza, libertà, sicurezza e proprietà», ebbe per molto tempo una cattiva fama. Secondo questa, il principio egualitario, l'uguaglianza prima della libertà, avrebbe tradito una concezione etico volontaristica che recava in sé la minaccia di un governo del terrore. In seguito il diritto dell'uomo si sarebbe trasformato col bolscevismo in necessità rivoluzionaria. Recentemente gli storici hanno dimostrato che si era inteso non un egualitarismo livellatore, bensì la parità di diritti di tutti i cittadini e cittadine (cfr. Gross, 1997). L'errore storico è stato da tempo corretto. La stessa libertà, gli stessi diritti per tutti significherebbero soltanto che i diritti dell'«altro» devono essere considerati alla stessa stregua dei propri. Con questa indispensabile, realistica limitazione, i diritti dell'uomo avrebbero dovuto rivendicare una valenza universale. La loro fama tuttavia non migliorò, ma divenne qualcosa di diverso: i diritti dell'uomo sarebbero espressione di un pensiero ingenuo, irrealistico utopistico.
Può sembrare ingenuo anche il mio tentativo di dimostrare, partendo da un procedimento analitico, scelto in maniera arbitraria, i valori del diritto universale dell'uomo là dove, a una visione distaccata, sembrano essere assenti. Il «sano buon senso» può senz'altro accettare i diritti dell'uomo come un'esigenza morale e troverà degni di ascolto la Carta delle Nazioni Unite e i principi del Consiglio Europeo. Resta però un mistero chi e in che modo possa imporre e garantire l'osservanza dei diritti universali dell'uomo. Al contrario è possibilissimo menzionare quelle forze che in ogni struttura sociale, in pace come in guerra, si oppongono all'applicazione dei «bei» principi. Intendo le istanze che determinano ogni tipo di convivenza, non solo la forma particolare di organizzazione e le costituzioni statali. Sono interessi di potere, spesso dotati del monopolio delle forze militari, di polizia e di altro tipo ancora. Essi sono spesso al servizio di interessi economici, quando non coincidono completamente con essi. Dato che l'economia di regola non dispone di un proprio apparato di potere, può procedere senza scrupoli, dunque in maniera «immorale», essendo intrinsecamente connessa al potere statale. Nell'economia del «libero mercato» l'applicazione dei principi del Fondo Monetario Internazionale è garantita fino a quando la polizia e le forze militari degli stati che si fanno «risanare» l'economia, domano la popolazione insoddisfatta c/o sofferente. Un'azione materialmente non così evidente, ma senz'altro rilevante contro l'applicazione dei diritti dell'uomo, è esercitata da quelle idee che determinano il comportamento politico e sociale dei membri di una nazione o di un'altra comunità. Sono ideologie nazionalistiche e religiose, soprattutto quelle che vengono diffuse da una religione di stato o da una chiesa, così da conseguire il consenso della maggioranza. Confluiscono entrambe le une nelle altre, non solo in uno stato teocratico. Le convinzioni nazionalistiche e religiose sono inseparabili quando si parla di popoli eletti, di grande nazione, dei Tedeschi dello stato hitleriano, degli Ebrei, degli Sciiti iraniani, o delle nazioni che hanno elaborato per sé la pretesa della santità e dunque una innata superiorità sugli altri popoli (Serbi).
Interessi di potere, interessi economici, ideologie nazionali e religiose, li riassumo col termine di «forze», a significare che il loro influsso contro il rispetto dei diritti universali dell'uomo e la loro applicazione, è chiaramente documentabile. In tempo di pace si formano sempre movimenti che si oppongono alle «forze» tradizionali, organizzate nelle istituzioni. Alcuni sono orientati in senso transnazionale, come i movimenti di emancipazione femminile contro l'ideologia e l'istituzionalizzazione del patriarcato, altri lottano per un cambiamento all'interno di determinate istituzioni: il movimento per l'apertura della chiesa cattolica come chiesa del popolo o le correnti tolleranti dell'Islam; e naturalmente tutte le diverse aspirazioni socialiste, che si adoperano per il miglioramento dell'ordine economico capitalistico, per esempio per un'economia sociale di mercato, a prescindere da coloro che vogliono invece sostituire nella lotta di classe l'ordine capitalistico, (o monetario) con un altro, del tutto diverso. Poiché tutti questi movimenti possono tutt'al più avere successo solo a lunga scadenza, ci si dovrebbe attendere che in tempo di guerra, quando cioè sono note violazioni gravissime dei diritti dell'uomo, si verifichino progressi più rapidi e significativi nell'applicazione dei diritti dell'uomo. Com'è noto, l'invocazione dei diritti dell'uomo è certamente più forte, viene udita nel lager di Keraterm, l'effetto, tuttavia, è modesto. Un solo esempio: nell'agosto del 1997, sei anni dopo l'inizio della guerra di aggressione e annientamento nell'ex Jugoslavia, la stimata società Human Rights Watch ritiene che sarebbe un progresso per i diritti umani, se i peggiori criminali conosciuti fossero deferiti a un tribunale, e vede in ciò «un'opportunità per fondare un sistema giuridico internazionale in grado di dissuadere coloro che in futuro potrebbero commettere crimini di guerra contro l'umanità» (Human Rights Watch, 1997). Tutto ciò non sembra essere una dichiarazione autorevole, né una promessa di una rapida svolta.
Non è stato ancora dimostrato che la minaccia di punizioni abbia dissuaso dei potenziali criminali dalle loro azioni. Si dovrebbe forse imputare alla Human Rights Watch la responsabilità di aver contribuito a «produrre una falsa coscienza nelle masse» (Erdheim, 1984)? Produrre una falsa coscienza nelle «masse» è considerato uno degli strumenti più importanti del potere per stabilire e consolidare ideologie utili a conservare il potere. La richiesta di pene per i criminali di guerra, la loro condanna e pena, ha lo scopo però di rafforzare la coscienza di quanto sia ingiusta la violazione dei diritti universali dell'uomo. Dato che, secondo la nostra analisi, tali elementi sono contenuti come antitesi in tutte le istituzioni e ideologie, dato inoltre che la psicoanalisi attribuisce alla formazione dell'Io e al Super io le funzioni che promuovono, eventualmente, il rispetto dei diritti universali dell'uomo, anche se soltanto nel corso di un lungo sviluppo, tali dichiarazioni non sono affatto a priori inutili o inefficaci. Per questa ragione ho deciso di prendere parte anch'io al dibattito con Muhidin Saric. In molti stati si levano le proteste di singoli individui o si formano gruppi di cittadini e cittadine che si adoperano per i diritti dell'uomo. Dipende dalla condizione attuale e dalla struttura più o meno autoritaria e chiusa, se questi rappresentanti dei diritti dell'uomo sono discriminati come dissidenti, perseguitati o tollerati. Negli stati democratici liberali sono investiti ufficialmente del compito di difendere i diritti dell'uomo, ed eventualmente sostenuti da istituzioni giuridiche. Essi devono prepararsi, a ogni modo, a una lunga lotta, e potranno vantare solo pochi successi, in casi particolari. Le istituzioni tradizionali che agiscono contro i diritti dell'uomo, opporranno resistenza, sebbene, a nostro avviso, contengano anch'esse, in forma di compromesso, delle norme del diritto dell'uomo.
Le «grandi» religioni sostengono un'etica che è concepita essenzialmente in modo tale da farla coincidere con i diritti universali dell'uomo, sicché una difesa di essi risulterebbe superflua, se solo tale morale fosse rispettata da tutti i membri della chiesa. Tuttavia le violazioni dei diritti dell'uomo più vaste e più gravi sono accadute proprio nel nome di una religione, per lo più riconoscendo i diritti dell'uomo solo agli «ortodossi», e negando agli altri (atei, eretici, pagani, etc.) lo status di essere umano e dunque la rivendicazione di tali diritti. La tolleranza viene forse predicata, ma a stento praticata. I dogmi impongono dei limiti. Anche in tempo di pace la libertà religiosa si imbatte nei tabù (si pensi ai crocifissi nelle scuole bavaresi) e contesta il diritto di disporre del proprio corpo, a favore di una pretesa di potere, ammantata di ideologia (l'interruzione di gravidanza viene definita un delitto). In ciò le religioni non sono più liberali di quelle ideologie totalitarie che, richiamandosi alla storia, alla tradizione o ad altre idee, considerate valide in maniera assoluta, erigono a dogma i propri ordinamenti nazionalistici o socialistico egualitari. I diritti universali dell'uomo non sono affatto dei sistemi di valori sviluppatisi in determinate tradizioni, né si possono equiparare all'amore cristiano del prossimo, alla tolleranza buddista, o alla giustizia di una teocrazia; sono anche al di là degli ordinamenti «razionalistici» di una società. È necessario liberarli da quelle forme complesse di compromesso in cui sono finiti, e ricondurli nell'ambito dello sviluppo psichico degli individui, perché siano validi. Non c'è alcun ordinamento sociale, che abbia motivazioni religiose o altrimenti ideologiche, in cui si sia obbligati ad accettare la violazione dei diritti dell'uomo, perché così è l'usanza.
La libertà religiosa comprende certo l'esercizio di determinati rituali. Donne e ragazze di fede islamica portano il velo in molte, ma non in tutte le comunità musulmane. Se si mettono in atto punizioni corporali crudeli, in conformità alla Sharia, bisogna esigere che venga abolito il dogma che è alla base della Sharia. Recentemente mi è stato posto il seguente quesito, se sia lecito abolire l'escissione delle ragazze, nei popoli africani, e se ciò non equivalga all'annullamento della loro cultura una prosecuzione del potere coloniale. Tanto più che la maggior parte delle ragazze e donne rispettivamente desidera e approva la dolorosa mutilazione. Rispetto a quest'ultima osservazione desidero ricordare che le punizioni crudeli dei bambini (bastonature, birching, spanking, ceffoni) nell'ambito della pedagogia nera, sono elementi apparentemente indispensabili della nostra cultura, nella scuola e nella famiglia. Conosco personalmente diversi esponenti dei nostri stati occidentali, che vivono nella tradizione cattolica e protestante, che rammentano con «gratitudine» questi maltrattamenti e non esitano a infliggerli ai propri bambini. Queste crudeltà sono generalmente scomparse dalle scuole e dall'organizzazione familiare. Le condizioni culturali non hanno sofferto di questo rinnovamento. I Tedeschi non sono cambiati dal punto di vista culturale, né dal punto di vista morale, da quando il bastone è stato bandito dalla scuola e dalla famiglia. Quando si parla dei diritti universali dell'uomo, e si dà alle organizzazioni internazionali l'incarico di tutelarli, si ha non solo il diritto, ma anche il dovere di intervenire dinanzi a delitti così crudeli, e di così vasta portata, come quello dell'escissione del clitoride. Dipende da fattori politici, dai rapporti di potere se questo è possibile o attuabile.
«Cosa sono in realtà i diritti dell'uomo?» è necessario chiedersi. La risposta è di volta in volta diversa, a seconda della persona cui questa domanda viene rivolta. Per i redattori della Carta dell'ONU essi sono una legge, o meglio un progetto di legge, che sperano possa acquisire un giorno una validità universale. Per i rappresentanti dei diritti dell'uomo, dissidenti o funzionari nominati dallo stato, essi sono un postulato, un'esigenza imprescindibile per la dignità dell'uomo. Per i media e altri creatori di opinione, sono uno slogan di grande prestigio, che può essere utilizzato in modo moralistico, demagogico, razionale, etc. Per i prigionieri di Keraterm i diritti dell'uomo sono menzogne che tutti ripetono pappagallescamente, a cui nessuno crede e che possono nascondere realtà orribili.
In base all'analisi etnologica si può affermare che i diritti dell'uomo sono parte costitutiva di tutte (o quasi tutte) le istituzioni delle varie culture, e che, in linea di principio, non esistono impedimenti per richiederne il rispetto, in culture in cui essi sembrano mancare in parte o del tutto. Non si apporta, cioè, nulla di nuovo, di estraneo dal punto di vista culturale, ma si cerca di favorire il riconoscimento e la manifestazione di una tendenza alla quale si oppongono «forze più potenti». Parlo dei diritti universali dell'uomo, senza stabilire se li consideri «innati» o «acquisiti», risultato cioè di un processo di incivilimento. Il fatto che i diritti dell'uomo siano documentabili in tutte le culture farebbe ritenere che sono «innati»; il fatto che siano indispensabili dei processi educativi perché diventino efficaci, farebbe pensare che sono «acquisiti». La questione «innati» o «acquisiti» non apporta grandi risultati. Paragono i diritti universali dell'uomo all'evoluzione del linguaggio, a proposito del quale Sigmund Freud (1933, p. 241) sostiene: «È il patrimonio universale dell'umanità ( … ), familiare a tutti i bambini ( … ) e suona uguale in tutti i popoli a dispetto delle diversità di lingua4». Per la definizione dei diritti universali dell'uomo, mi servirò delle «analogie». Nonostante la diversità delle formazioni sociali, i diritti universali dell'uomo si presentano ovunque, devono tuttavia essere acquisiti attraverso uno sviluppo sociale e individuale perché diventino efficaci.
La psicoanalisi non mostra soltanto che l'uomo è in grado di rispettare e insieme di negare i diritti dell'uomo, e perché. Sa che l'uomo è modificabile e che sono modificabili anche le forme della convivenza umana e la costituzione degli stati, tuttavia sa anche che sono necessari tempi lunghi, molte generazioni e sforzi incredibili, perché si producano tali auspicabili cambiamenti. Sollecitato da Albert Einstein a dare il proprio parere sulla «natura dell'uomo», Sigmund Freud si mostrò alquanto scettico. Egli ammise che i cambiamenti sono possibili ma aggiunse: «È triste pensare a mulini che macinano talmente adagio che la gente muore di fame prima di ricevere la farina5».
Riassunto. L'Autore, dopo una serie di considerazioni generali sul tema inerente i diritti dell'uomo, si sofferma sull'analisi di problemi messi in luce da due scienze, quali la psicoanalisi e l'etnologia. Mentre il punto di vista psicoanalitico aiuta a comprendere quali sono i fenomeni psichici che inducono al rispetto o alla violazione del diritto umanitario, quello etnologico, mettendo a confronto diverse culture, permette di rispondere a quesiti riguardanti la diversità dei diritti dell'uomo nelle varie strutture sociali, la loro validità comune a più popoli, l'eventuale imposizione o condizionamento, tramite anche l'uso della forza, di diritti differenti a quelli di una precisa situazione culturale. Parlandone e discutendone con Muhidin Saric, l'Autore cerca di dare una spiegazione a fatti ancora troppo poco chiari.
Summary. After a number of general considerations regarding the subject ofhuman rights, the author lingers ori the analysis of the questions focused by two different disciplines: psychoanalysis and ethnology. While the psychoanalytic perspective contributes io the understanding of the psychic phenomena ai the basis of the respect or of the violation of the humanitarian right, the ethnological one, through a confrontation of different cultures, allows us io answer the questions connected with the diversity of human rights among the different social structures, their validity for many peoples, the possible imposition or conditioning, after the use of violence, of rights different than those typical of a particular situation. In his conversations with Muhidin Saric, the author tries io give an explanation to some facts which are still unclear.
Erdheim, M. (1984), Die gesellschaftliche Produktion von Unbewusstheit. Frankfurt a. M.: Suhrkamp.
Fisch, J. (1996), Darf man Menschenrechte mit Gewalt durchsetzen? In, Kursbucb, Heft 126, Dezember 1996.
Freud, S. (1913), Totem e tabù. OSF, vol. 7. Torino: Boringhieri, 1975.
Freud, S. (1927), L'avvenire di un'illusione. OSF, vol. 10. Torino: Boringhieri, 1978.
Freud, S. (1930), Il disagio della civiltà. OSF, vol. 10. Torino: Boringhieri, 1978.
Freud, S. (1933), L'Uomo Mosé e la religione monoteista. OSF, vol. 11. Torino: Boringhieri, 1979.
Gross, J.P. (1997), Der egalitäre Liberalismus der jakobiner. In Le Monde diplomatique/taz/woz, September 1997.
Harner, Mj. (1973), The Jivaro. Garden City, New York: Anchor Press Doubleday.
Human Rights Watch (1997), Arrest now! Brüssel.
Lukes, S. (1996), Fünf Fabeln übers Menschenrechte, In, Shute, S., Hurley, S. (a cura di) Die Idee der Menschenrechte. Frankfurt a. M.: Fischer.
Maier, C. (1996), Das Leuchten der Papaya. Ein Berick von den Trobriandern in Melanesien. Hamburg: Eva.
Saric, M. (1994), Keraterm. Erinnerungen aus einem serbischen Lager, übers. Von K. D. Olof. Klagenfurt: Drava Verlag.
United Nations (1985), The International Bill of Rights. New York.
Note
l. Iniziale di Juden, Ebreo. (N.d.T.).
2. Sembra che attualmente, per le proteste sollevatesi all'estero e all'interno del paese, la «R» non venga più apposta nei documenti.
3. 1 versi sono tratti da Die Dreigroschenoper, GW., St. 2, S. 432, Frankfurt a. M.: Suhrkampf, 1967. Trad. it., L'Opera da tre soldi. Torino: Einaudi, 1963, trad. di E. Castellani (N.d.T.).
4. La citazione è tratta da Der Mann Moses und die monotheistische Religion, GW., Bd. XVI, S. 577. Trad. it., L'uomo Mosé e la religione monoteistica. In OSF, Torino: Boringhieri, 1979, vol. 11, pp. 448 449, trad. di P.C. Bori, G. Contri, E. Sagittario (N.d.T.).
5. La citazione è tratta da Warum Krieg?, GW., Bd. IX, S. 284. Trad. it, Perché la guerra?. In OSF, Torino: Boringhieri, 1979, vol. 11, p. 301, trad. di S. Candreva, E. Sagittario (N.d.T.).
0 commenti