Riassunto L'Autore, partendo dal presupposto che il processo di formazione psicoanalitica deve essere un processo di autorischiaramento, confuta la posizione teorica e pratica di Freud secondo la quale l'analisi didattica è intesa come strumento centrale dell'autorischiaramento e come premessa per il lavoro dell'analista nel campo del transfert e del controtransfert. Infatti, in base al principio della «formazione chiusa», il corso di formazione è sottoposto completamente alla gerarchia della IPA, tramite il processo di selezione per l'ammissione all'analisi didattica e tramite l'analisi didattica obbligatoria. Il silenzio dei candidati sui difetti della formazione, l'accettazione passiva di misure costrittive e di regolamenti selettivi, la mancanza percettiva delle strutture di potere sono, secondo l'Autore, i limiti dell'autorischiaramento nella IPA. Affinché la formazione psicoanalitica risulti qualcosa di più di una preparazione professionale scolastica, è necessario riflettere sulle possibilità di realizzazione di un sistema formativo che risolva la contraddizione tra prassi formativa e autorischiaramento.
«Se organizziamo la formazione psicoanalitica dobbiamo organizzarla psicoanaliticamente» (Cremerius, 1978).
«Non dovrebbe la psicoanalisi, in quanto metodo di scoperta della verità tramite la demistificazione della copertura soggettiva, suscitare un'ambizione senza limiti a applicare i propri principi a se stessa come corporazione, sia in base all'idea che gli analisti si fanno del loro ruolo nei confronti dei pazienti o della loro posizione nell'universo culturale, sia in base al loro rapporto con loro stessi o ai loro compiti didattici?» (Lacan, 1975).
La massima della formazione psicoanalitica è: autorischiaramento. Essa venne limitata nel momento in cui la formazione si organizzò in una struttura gerarchico – autoritaria, perché gli interessi della gerarchia del training istituzionalizzato sono diversi dai compiti che Freud ha indicato per la formazione analitica. Le organizzazioni intendono preservare quelle idee per la cui difesa e promozione furono fondate. Esse si sentono obbligate nei confronti del padre fondatore, che venerano come creatore dell'idea (cfr. il regolamento della IPA, che lo stabilisce esplicitamente). Nel corso della sua storia, il potere dell'organizzazione supera quello delle massime su cui si fonda. Già nel 1939 Hanns Sachs registrava preoccupato che: «È evidente che un'organizzazione si sviluppi in maniera sempre più conservatrice ponendosi fini pratici e obiettivi di autoconservazione» (1939, p. 462). Alla fine, e questo è il destino di tutte le organizzazioni, le idee religiose diventano chiese (Martin Lutero: «Chiesa, la peccatrice più grande») e quelle politiche diventano partiti. Nel caso più favorevole diventano meri depositi di idee. Le organizzazioni devono prestare un'attenzione costante a mantenere il controllo e la vigilanza sulle idee, a causa del pericolo, sempre presente, che ridiventino vive e si riaccendano. Come recita l'aforisma di Kierkegaard: «La cosa peggiore che può accadere a una famiglia è che uno dei suoi membri diventi cristiano La pericolosità delle idee si accende per un breve attimo durante le grandi rivoluzioni. Poi le idee finiscono col cedere il passo alle forze che riaffermano i principi che si credevano soppressi in nome della libertà.
Nella storia della psicoanalisi, il momento in cui il principio dell'autorischiaramento nella formazione viene incatenato si verifica nel 1925. Nel Congresso psicoanalitico di Bad Homburg l'organizzazione stabili la prima Commissione internazionale sul training, col compito di dare una struttura obbligatoria alle direttive per la formazione, rimaste fino ad allora aperte. Alla base di questa commissione non stavano né le riflessioni humboldtiane sulla libertà di apprendimento e di insegnamento, e nemmeno la massima di Freud secondo la quale il processo di formazione deve essere un processo di autorischiaramento (solo se questo scopo fosse stato raggiunto, pensava Freud, il futuro analista avrebbe potuto rappresentare la psicoanalisi come la psicoanalisi doveva essere, ovvero una scienza illuminata ed emancipatrice). Alla base della commissione stava invece l'idea della formazione in un «sistema chiuso», idea che era indiscutibile fin dall'inizio, fissa come qualcosa di ovvio e naturale. Il Comitato non si è mai posto la domanda su quali fossero le condizioni ambientali più adatte per strutturare al meglio la formazione psicoanalitica. Un'analisi del movimento psicoanalitico fino al 1925 spiega che la formazione come sistema chiuso venne fissata senza rifletterci troppo sopra, ma spiega anche che il Comitato non pensò a nulla al di fuori di questo binario. «Sistema chiuso» nella formazione psicoanalitica significa che la gerarchia che presiede alla formazione si sente responsabile della stessa, dall'ammissione fino alla conclusione. Essa fissa il procedimento di training in maniera specifica per ogni scuola e stabilisce quali sono le persone che possono insegnare e condurre analisi didattiche. Sia i candidati alla formazione che i docenti vengono poi osservati, per stabilire se si mantengono nella cornice data e se imparano e insegnano regolarmente ciò che vale come «dottrina» accettata in quella scuola. Esiste un corpus di scritti che devono essere studiati, come esistono testi indiziati. Scopo della formazione non è creare un conoscitore di ampio respiro della scienza psicoanalitica, quindi uno scienziato per il quale le teorie sono solo proposte di modi possibili di guardare alle cose; non è creare un ricercatore che nella sua ricerca della verità va a caccia esattamente di ciò che contraddice l'ordine trovato fino a quel momento (Karl Jaspers).
Lo scopo è che chi conclude la formazione diventi alla fine membro della IPA. Per raggiungere questo obiettivo venne creata a Bad Homburg l'«appartenenza forzata»: alla fine della formazione il candidato non ottiene un certificato o un attestato di capacità, bensì l'iscrizione alla IPA (Wittenberger, 1987). Poiché allora si poteva chiamare psicoanalista solo chi era membro della IPA, il rifiuto di iscriversi corrispondeva alla perdita di un titolo professionale.
Se si percorre all'indietro la traccia che condusse a questo sistema chiuso, si vede che essa porta a quel giorno del marzo 1910 in cui venne fondato a Norimberga il «movimento psicoanalitico». Non fu una giornata gloriosa, dal momento che, già nelle sue prime ore, la «organizzazione» stabilì le massime sopra citate della psicoanalisi. Ferenczi richiese una struttura autoritario-gerarchica dell'organizzazione, fondandola sulla necessità di mantenere pura la psicoanalisi. L'istanza superiore di controllo doveva essere il presidente della IPA, che doveva possedere «un potere straordinario», compresa la nomina e la destituzione degli analisti e l'approvazione di tutti gli scritti di argomento psicoanalitico dei membri prima della pubblicazione. Freud praticava questo controllo ancora nel 1932. Dopo aver sentito il testo della relazione che Ferenczi voleva tenere a Wiesbaden nel 1932, Freud pretese di trattenere tutte le sue pubblicazioni finché egli non fosse retrocesso dalle posizioni contenute in questo scritto. Dal momento che Ferenczi non era disposto a farlo, Jones e Freud ne modificano il testo con un infame imbroglio (Cremerius, 1983).
«Il presidente è il padre, le sue posizioni sono insindacabili, la sua autorità è sacra e inviolabile» (Ferenczi, 1911, p. 148). Nel 1914, con uno sguardo retrospettivo alla fondazione della IPA a Norimberga, Freud affermò con lo stesso tono: «Ritenevo… che un capo dovesse esserci… un'autorità disposta a istruire e ammonire» (Freud, 1914, p. 416), un comitato «che difenda la causa contro persone ed eventi quando io non ci sarò più» Jones, II, pp. 197 sg.). Perché essi potessero durare, Freud stabili delle «regole sacre», degli «scìbbolet» 1: «Chi non sappia accettarli tutti non dovrebbe annoverarsi tra gli psicoanalisti», ammoni (Freud, 1922, p. 451).
L'uso del vocabolo «scìbbolet» per le sue assunzioni fondamentali rende chiara la situazione nella quale Freud si trovava in quel momento. Vedendo sé e la sua opera circondati da nemici, pensò di poterla rendere sicura solo tramite una «autoghettizzazione». Gli «scìbbolet» sono parole di riconoscimento, parole d'ordine grazie alle quali il rabbino può riconoscere l'amico dall'avversario. Questa dichiarazione, cui i membri devono «prestare giuramento», ricorda la dichiarazione che il futuro libero docente deve pronunciare nel corso del procedimento per ottenere la libera docenza alla Facoltà teologica evangelica di Göttingen: «Mi impegno a portare avanti in maniera corretta, chiara e precisa le scienze teologiche in accordo con i principi fondamentali della chiesa evangelica alla quale appartengo».
Chi vuole proteggere la sua opera dalla caducità (Cremerius, 1988) deve trovare un sistema che garantisca che gli alunni diventino degli aderenti fedeli. Freud lo trovò nell'analisi dei futuri analisti, chiamata in seguito, a partire dal 1925, analisi didattica. Egli richiese che tutti i «dirigenti dei gruppi locali» in tutto il mondo dovessero venire analizzati da lui personalmente, affinché potessero trasmettere correttamente la sua dottrina da bravi «colonialisti». Secondo Freud l'analisi didattica da una parte doveva legare a lui l'analizzando, tramite una «relazione spirituale permanente con colui che lo introduceva alla psicoanalisi», dall'altra doveva condurre, grazie a un'ampia omogeneizzazione dell'«equazione personale» dell'analizzando, al fatto che un giorno si potesse raggiungere un accordo soddisfacente tra gli analisti (Freud, 1926, p. 387). L'analisi didattica non ha perso del tutto questi tratti di indottrinamento: quando Otto Rank, nel 1925, tornò pentito dal suo viaggio ribelle negli Stati Uniti, pregò Freud di fare un'analisi con lui. Freud collegò questa richiesta alla condizione che Rank dovesse sottoporre in futuro tutte le sue pubblicazioni al comitato, cioè ne accettasse la censura. Il contesto di questa storia rende esplicito il fatto che era richiesta sottomissione (Cremerius, 1996). La seguente storia mostra chiaramente come qui l'analisi venisse intesa come strumento di potere politico e usata nella lotta contro dissidenza e eresia. Quando nel gruppo di Berlino sorsero dei dissapori tra i membri, Karl Abraham chiamò Hanns Sachs a far parte dell'Istituto (Bpi) come analista didatta «allo scopo di sanare i gravi conflitti», per ricondurre, con l'aiuto dell'analisi, «sui binari normali» coloro che deviavano (Brecht et al., 1985, p. 57). Il nesso tra organizzazione e scienza era, ed è ancora oggi, disastroso per lo sviluppo della psicoanalisi in direzione della libertà della teoria, dell'apertura a tutti gli interessati e nei confronti del collegamento con le altre scienze dell'uomo. Freud vi si impuntò perché non riusciva a immaginare la psicoanalisi senza la protezione dell'«Internazionale psicoanalitica». Su questo punto egli ruppe i rapporti con Eugen Bleuler, il quale era disposto ad accettare la società solo se questa fosse stata completamente aperta, come nel caso di altre discipline, alla comunità di discussione e di lavoro. Bleuler richiedeva che dovessero esservi benvenuti tanto i seguaci quanto gli avversari della psicoanalisi. Dal momento che Freud era di opinione contraria, Bleuler nel 1910 uscì dalla società: «Per me – scrisse a Freud motivando il suo ritiro – la Sua teoria è solo una nuova verità tra altre verità». Secondo Bleuler il principio freudiano del «tutto o nulla» è necessario per sette religiose e partiti politici ma dannoso per la scienza (Alexander e Selesnik, 1965, p. 6). L'occasione di questo dissenso nacque dal fatto che alcuni medici della clinica di Bleuler, soprattutto il primario di allora e successivo direttore, professor H.W. Maier, non dovevano più essere tollerati come membri della società a causa di divergenze di opinione con alcuni allievi di Freud. Ancora oggi altri rappresentanti delle scienze umane sollevano questo rimprovero di Bleuler contro l'organizzazione psicoanalitica, accusata di non aprirsi a un dialogo con le altre scienze. Quel nesso tra organizzazione e scienza ha ostacolato lo sviluppo di un movimento scientifico persino all'interno dell'organizzazione psicoanalitica. Essa per esempio non ha adempiuto finora il desiderio di Freud del 1926, che gli istituti psicoanalitici divenissero istituti di ricerca scientifica. Anche l'istituto a tempo pieno auspicato da Anna Freud (1960) non è mai stato realizzato.
A questo punto occorre chiarire alcune cose allo scopo di evitare equivoci. Fino a questo momento ho presentato solo la posizione freudiana dell'analisi didattica all'interno di una politica di potere. Devo ora mostrare la sua posizione teorica e pratica, nella quale Freud intende l'analisi didattica come strumento centrale dell'autorischiaramento e come premessa per la prassi lavorativa dell'analista nel campo del transfert e del controtransfert (assistiamo qui alla contraddizione tra il Freud fondatore di un movimento e il Freud scopritore di una teoria e di una prassi al servizio dell'Aufklärung). Mostrerò ora nei particolari in che modo il sistema della formazione limita l'autorischiaramento. In base al principio della «formazione chiusa» la gerarchia della formazione prese due decisioni che sottopongono completamente il corso della formazione alla sua responsabilità: a) il processo di selezione per l'ammissione all'analisi didattica; e b) l'analisi didattica obbligatoria. Comincio col processo di selezione.
Già la prima decisione della gerarchia della formazione istituzionalizzata in merito al processo di selezione – un'apertura con trombe e fanfare – rivelò la tendenza ad assoggettare la formazione psicoanalitica ai suoi interessi di potere politico: dovevano esservi ammessi, contro l'appassionata apertura di Freud per l'analisi laica, solo i medici. Quanto grande fosse allora la disponibilità lo mostra la decisione del 4 febbraio 1925 della Società psicoanalitica di Vienna di costituire, sull'esempio delle associazioni di Londra e New York, due tipi di affiliazione: quella straordinaria per non medici e quella ordinaria per medici (Leupold-Löwental, 1984, p. 101). Al Congresso di Innsbruck del 1927 si delineò la soluzione proposta da Freud di accettare gli analisti laici: gli istituti europei, a denti stretti, la seguirono, mentre l'Associazione psicoanalitica americana la respinse, e da allora, fino a pochi anni fa, concesse solo ai medici di intraprendere la formazione analitica. Freud fu costretto a piegarsi nei loro confronti, dietro la minaccia di Brill che gli americani uscissero dalla IPA (Jones 1953, 111, p. 354). Una volta abbandonata per l'Europa la strada del monopolio dei medici, gli istituti europei aderenti all'IPA avrebbero dovuto seguire l'elaborazione di linee direttive per la formazione. Ma non se ne fece nulla. Il Comitato didattico decise autonomamente volta per volta a sua discrezione. I membri dell'istituto non furono sentiti: non avevano diritto di parola. L'Istituto di Berlino formulò la direttiva in questi termini: «L'ammissione o il rifiuto di un candidato, entrambi inderogabili (!), dipendono dall'impressione (!) ricevuta dai tre intervistatori» (Bernfeld, 1952, p. 444).
La situazione rimase così per vent'anni. Balint (1947) notò che fino alla seconda guerra mondiale non esisteva alcuna pubblicazione che si occupasse della qualificazione personale del candidato per la formazione psicoanalitica. Ma trarne la conclusione che non esistevano criteri di nessun genere sarebbe falso. Sappiamo dai testi successivi di Anna Freud e di Hanns Sachs che esistevano eccome. Sachs (1947) criticava il fatto che venissero ammesse preferibilmente persone ben integrate, libere da sintomi nevrotici, che avevano rimosso completamente i loro conflitti psichici con l'aiuto di forti difese narcisistiche. Si chiedeva quindi che senso avesse ammettere dei candidati che, proprio a causa di queste difese, erano incapaci di raggiungere l'inconscio e comprendere le sue espressioni (p. 157). Anna Freud (1972) era giunta a criteri di ammissione simili: vengono preferiti candidati psichicamente stabili, non eccentrici, fortunati all'università e al lavoro, ben integrati, piuttosto attaccati alla realtà, che non candidati di ampie vedute, creativi e pieni di iniziative (p. 21). Dal momento che l'intervista non è mai stata formalizzata non fino ad oggi – l'intervistatore è libero di chiedere quel che vuole come vuole. Poiché nemmeno i criteri interni di giudizio sono mai stati fissati, ogni intervistatore procede a suo piacimento. Bernfeld (1952) nota che vengono applicati criteri «fisiognomici primitivi» (pp. 450 sgg.). Ne consegue che il corso dell'intervista dipende da fattori casuali; in casi sfavorevoli, addirittura dall'arbitrio dell'intervistatore. Il candidato si trova in una situazione in cui è costretto a sottomettersi al procedimento di ammissione perché è l'unica via di accesso alla formazione professionale desiderata. Se durante l'intervista insorgono situazioni nelle quali non vuole rispondere ad alcune domande o in cui si sente trattato senza la dovuta delicatezza, avrà paura che il suo silenzio o le sue obiezioni possano influenzare negativamente l'esito dell'intervista medesima. Balint (1947) definisce questo procedimento di ammissione un rito di iniziazione al quale il candidato si deve sottoporre, mentre a Kernberg (1984) viene in mente il confronto con la formazione in seminario (p. 62). Anche Freud riconobbe gli effetti negativi di questo tipo di selezione: «I diligenti (che rimangono) non valgono nulla, gli impertinenti se ne vanno» (Roazen, 1976, p. 301).
Questo procedimento di ammissione, nonostante le critiche vivaci, è sopravvissuto per decenni: non sono riusciti a modificarlo né la constatazione che esso di fatto manda avanti persone «non analizzabili» (Gitelson, 1954), «normopati» (Bird, 1968), «candidati d'imitazione» (Gaddini, 1984) e «dull normal people» (Kernberg, 1984), né il rimprovero di Anna Freud (1966) che esso non si concilii col rispetto della personalità del candidato (p. 277). «Si preferiscono le persone sottomesse, noiose, integrate, secondo il principio: almeno non combineranno niente di male» (Smirnoff, 1980, p. 19). Lo stesso vale per le critiche nei confronti dell'efficienza. I richiami di Anna Freud al fatto che l'interrogatorio non può rispondere proprio alle domande più importanti, cioè se il candidato può venire analizzato con successo o se può diventare un buon analista, non vennero ascoltati. Quale sia la potenza dei motivi di ordine politico nel determinare la discussione e il procedimento di ammissione lo si vede dal fatto che qui per la prima volta, credo, nella storia della glorificazione di Freud, le sue posizioni non sono state considerate. Sia quelle sul valore della prima intervista («compriamo la merce prima di averla vista»), sia quelle sull'ammissione dei laici alla formazione psicoanalitica. Domina un clima di «non vogliamo saperlo». Questo spiega anche perché fino ad oggi, dopo circa settant'anni quindi, non esistano ricerche che attestino l'efficienza qualificata del processo di selezione (Cremerius, 1986, pp. 1082/83). Le ricerche di Lewin e Ross (1960) e di Console (1963) non contengono dati numerici. Console parla di difficoltà nella raccolta dei dati delle interviste e delle osservazioni conclusive dell'ammissione degli istituti.
Giungo ora alla cosiddetta analisi didattica. La gerarchia della formazione istituzionalizzata, per esempio nell'Istituto psicoanalitico di Berlino, si accorse rapidamente che nella formazione l'analisi didattica è lo strumento migliore per raggiungere i suoi propri obiettivi, consistenti nel portare gli «analisti in formazione» a diventare membri integrati della società e a identificarsi coi suoi interessi. Così essa deliberò nel 1925 che si istituzionalizzasse l'analisi didattica, inserendola come parte obbligatoria della formazione, nonché creando una «élite»: quella degli analisti didatti; che si formasse un Comitato di training libero di disporre senza ascoltare il parere degli altri membri dell'istituto; che fosse il Comitato di training a stabilire l'analista didatta per l'analizzando2; che il Comitato determinasse l'andamento e la fine dell'analisi del singolo candidato fissando la frequenza delle ore settimanali e l'intera durata della stessa (Cremerius, 1989, p. 133). La maggior parte degli istituti psicoanalitici, a eccezione delle Associazioni psicoanalitiche francese, canadese e svizzera, hanno mantenuto fino ad oggi il regolamento berlinese. Ne esistono alcune variazioni nelle società ramificate in relazione al dovere dell'analista didatta di presentarsi al Comitato di training e in rapporto alla libera scelta dell'analista.
L'analisi didattica, pensata da Freud come metodo di apprendimento e insegnamento nel quale il candidato dovrebbe sperimentare tra l'altro sulla propria pelle la realtà del complesso di Edipo e, se possibile, la sua elaborazione, era degenerata, notava Anna Freud già nel 1937, in accordo, lo sottolineo, col padre, in una, come la chiamò in seguito, «analisi selvaggia» (A. Freud, 1976, p. 2805: «L'analista didatta ripercorre di fatto ogni singolo errore che noi nell'ambito di una analisi terapeutica definiremmo un errore grave»; A. Freud, 1950/1968). Anche in questo caso emerse il fenomeno del «non vogliamo saperlo»: questa relazione di Anna Freud, tenuta a Parigi nel 1937, fu pubblicata dodici anni dopo, nel 1950, in una piccola rivista israeliana difficilmente reperibile. Solo nel 1970 essa divenne nota al lettore tedesco dopo la pubblicazione in Psyche. In quanto analisi «didattica», ovvero in quanto parte della formazione, potrebbe addirittura non raggiungere lo scopo centrale per il quale è stata pensata, cioè la risoluzione della fissazione infantile alle figure dei genitori, portando esattamente al contrario, ossia alla fissazione dell'analizzando al suo analista didatta. Molti critici concordarono a partire dal 1937 con Anna Freud nel constatare che l'analisi didattica, invece che uno sviluppo della personalità libero e indipendente, produce «proseliti entusiasti» (Balint, 1947, p. 317) e «analisti credenti». Klauber (1980) nota che «la formazione dell'identità dell'analista segue il modello della conversione». Secondo Balint (1947) l'analisi didattica porta a un dilemma carico di conseguenze (p. 317). Oggi diremmo che conduce a una double bind situation: da una parte l'analisi didattica dovrebbe liberare il candidato – così recita la dichiarazione ufficiale – dai legami infantili, procurandogli un lo forte e libero; dall'altra – così ritiene di fatto la tendenza inespressa – dovrebbe portarlo a identificarsi col clan in un rito di iniziazione. Anche l'analista didatta si trova in una double bind situation, perché deve fare allo stesso tempo il bene del paziente-candidato e il bene dell'istituzione. Molti analisti, soprattutto dell'Istituto londinese, ma persino lo stesso Freud, ponevano il bene dell'istituzione davanti a quello dell'analista in formazione. Da una lettera di Freud a Paul Federn dell'11 ottobre del 1924 si legge che nel caso in cui l'analista didatta si accorgesse durante l'analisi che il candidato ha un «difetto inguaribile», che «rende sconsigliabile la sua ammissione nella Associazione, allora il dovere di discrezione (nei confronti del candidato) deve retrocedere davanti al dovere di non danneggiare la cosa (cioè l'Associazione)» (E. Federn, 1972, p. 29). Che cosa vuol dire «difetto inguaribile»? Non è forse un criterio estremamente soggettivo? L'Istituto viennese di psicoanalisi respinse Margaret Mahler dalla formazione perché aveva un «difetto inguaribile»? Si confronti anche il testo nel quale McLaughling (1973) rende noto che anch'egli, come Freud, trovandosi in una situazione analoga, si sentirebbe obbligato a denunciare all'istituto le sue difficoltà con l'analizzando (p.708). Questa richiesta di identificazione, scrive Balint (1947), conduce esattamente alla conseguenza opposta di quella ufficialmente auspicata, ovvero a un Io debole e bisognoso di appoggio, che preferirà credere piuttosto che porre delle domande critiche. Balint si accorge che l'identificazione col clan, come conseguenza del rito di iniziazione agli istituti di formazione psicoanalitica, è endemica intorno agli analisti didatti si raccoglierà una schiera di precedenti analizzandi che si schiereranno contro altri clan.
Questa situazione è stata peggiorata, piuttosto che migliorata, dall'estensione dell'analisi didattica a mille e più ore. Un'analisi di sette e più anni rafforza il legame dell'analizzando con l'analista didatta e il suo bisogno di dipendenza. Essa rende allo stesso tempo più difficile la formazione analitica parallela perché un'analisi didattica occupa almeno da un minimo di otto a un massimo di dodici ore alla settimana, senza calcolare i tempi di spostamento, concentrando l'attenzione più sui processi interiori che sullo studio delle teorie. Quando l'analisi si conclude, dopo molto tempo, gli anni migliori della vita per il lavoro scientifico come per la ricerca impegnata sono di regola trascorsi. Inoltre i candidati in formazione si trovano in un periodo della loro vita (mediamente a questo punto sono intorno ai 40 anni) in cui sono altri fattori ad avere la precedenza, come, tra gli altri, la costruzione di una vita professionale.
È indubbio che un'analisi che si conclude con bisogni di devozione e di dipendenza ostacoli l'ingresso nella scienza. Il complesso di Edipo non risolto e la permanenza di legami incestuosi limitano l'interesse conoscitivo e ostacolano il lavoro di «autorischiaramento». Fu Anna Freud a scoprire, già nel 1937, il legame tra queste relazioni non risolte all'interno dell'analisi didattica e la mancanza di interesse dei candidati per le questioni scientifiche. I decenni che seguirono questa osservazione confermarono la correlazione.
Già nel 1969 Greenson notava la mancanza nella IPA di qualsiasi sviluppo creativo scientifico (1969), e in seguito Kohut (1969): la commissione installata dalla IPA col compito di chiarire «come mai il nucleo centrale del sapere analitico mancasse di nuove conoscenze psicoanalitiche» si concluse senza successo. Da queste analisi non è venuto alcun impulso scientifico in più, nessuno stimolo alla libertà della teoria e all'apertura degli istituti alle discipline affini, quanto piuttosto una ristrettezza ancora maggiore. Nel 1991 Wallerstein affronta ancora il tema: nonostante l'impegno intenso di analisti rinomati, negli ultimi decenni non è sorto alcun movimento diretto allo sviluppo scientifico (1991). Nello stesso anno Wallerstein aveva istituito, nella IPA-Newsletter, una rubrica di ricerca con l'intenzione di mettere in movimento un dialogo tra ricercatori psicoanalitici e studiosi interessati alla ricerca psicoanalitica; nel 1995 dovette constatare con rassegnazione che la rubrica aveva avuto risultati assai limitati (1995). Rimando, su questo argomento, alla mancanza di una ricerca terapeutica e alla discutibilità della convalida dei risultati. Sovente essa si verifica con «Ho avuto un caso di … »o con la formazione di seguaci. La mancanza di apertura di cui si lamenta Kohut è la conseguenza diretta dell'«analisi selvaggia». Oltre alla formazione di clan essa tiene in piedi infatti la tendenza della IPA all'autoghettizzazione. Nella chiusura degli istituti di formazione psicoanalitica alle altre scienze umane non ritroviamo proprio quella che è la premessa pura e semplice della scienza, ovvero un'«opinione pubblica che ragiona» (Kant). Tuttavia un luogo dove il candidato alla formazione possa sentire anche voci critiche è indispensabile per uno sviluppo scientifico. A questo proposito Kernberg (1993) scrive: «La scienza psicoanalitica viene bloccata dalla limitazione del lavoro scientifico da parte delle strutture organizzative degli istituti psicoanalitici».
La gerarchia della formazione istituzionalizzata difende un sistema creato e mantenuto ampiamente invariato da settant'anni, ormai resistente alle critiche. Il caso seguente mostra la sua stretta difesa contro ogni cambiamento. Nel 1978 la Società psicoanalitica di Parigi fece domanda per ottenere un corso-B. La novità nei confronti del corso-A doveva consistere nella sostituzione dell'analisi didattica da parte di un'analisi personale da farsi prima dell'inizio della formazione, nonché nella trasformazione dello status dell'analista docente nella funzione dello stesso. La IPA non diede l'autorizzazione al corso (Barande, 1987). La stessa cosa successe al circolo di Bernfeld in Germania. Essa non reagisce alle domande di rinomati analisti «per quali motivi dobbiamo attenerci così ostinatamente a un modello che reputiamo non analitico» (McLaughlin, 1967), né reagisce alle critiche di uno dei suoi presidenti: « … dal momento che sono convinto che prendendo qualcuno nella cosiddetta analisi didattica esercitiamo un'aggressione distruttiva verso il setting, senza pensare poi che creiamo problemi di transfert e controtransfert, non faccio parte di coloro che considerano l'analisi didattica indistinguibile dalle normali terapie» (Limentani, 1986). Persino la constatazione del congresso degli analisti docenti a Buenos Aires nel 1991 non scalfisce la gerarchia della formazione: «Tutti i partecipanti condividono il disagio verso aspetti della conduzione dell'attuale struttura tripartita della formazione, ereditata dalla IPA dalla Bpi» (Wallerstein, 1993). Nessuna di queste critiche è riuscita ad avviare una trasformazione del sistema della formazione. Essenzialmente tutto è rimasto com'era. È significativo che anche là dove si verificarono cambiamenti, come nella creazione di nuovi gruppi e scuole che finirono per staccarsi dalla corrente principale, il sistema della formazione rimase immune da qualsiasi trasformazione. Solo due gruppi che seguirono le loro strade senza staccarsi da essa, il gruppo di Lacan e il Seminario psicoanalitico di Zurigo, modificarono in larga misura la formazione. La IPA reagì con l'allontanamento di entrambi.
Si può vedere in questo contesto come la IPA reagisce diversamente ai cambiamenti in questo settore rispetto ai cambiamenti nel settore della teoria; non sono stati allontanati infatti né la teoria di Melanie Klein, già definita da Freud nel 1927 come deviante rispetto alla psicoanalisi, e neppure la teoria di Kohut, che esclude quelli che Freud indicava come i «pilastri» della psicoanalisi (per esempio la teoria delle pulsioni e il complesso di Edipo cfr. Cremerius, 1990); né le interpretazioni devianti della psicoanalisi proposte da George S. Klein, Peterfreund e altri hanno finora spinto la IPA alla riflessione di escluderli (senza considerare la richiesta di Anna Freud e dei suoi amici, nel 1945, di escludere dalla IPA i piccoli gruppi). Al contrario, Wallerstein (1988), in qualità di presidente della IPA, si pronunciò nel 1988 per l'opinione che tutti facessero parte della stessa psicoanalisi freudiana. Chi si rifiuta di sapere non svolge nemmeno ricerche empiriche sull'efficienza dell'analisi didattica. L'organizzazione tollera tranquillamente che sussistano dubbi su di essa (A. Freud, 1937). Vengono considerate critiche malevole le osservazioni come quella che persino le moderne analisi didattiche di tipo «mammuth» – superanalisi di 1.000 e più ore condotte da superanalisti, cioè analisti didatti, su superanalizzandi, ovvero persone che hanno il tempo e il denaro sufficienti a sostenere tali analisi – non portano a risultati migliori delle analisi terapeutiche. Se sessant'anni di tentativi per cambiare il sistema, contati a partire dalla relazione tenuta da Anna Freud a Parigi nel 1937, non hanno dato alcun risultato, si deve supporre che l'istituzione non voglia permettere cambiamenti e che tutte le attività per modificarlo siano solo apparenti e funzionino secondo il motto di Tomasi di Lampedusa: «Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi.»
Dobbiamo mettere fine alla strada intrapresa dal «movimento psicoanalitico» nel 1910, ovvero al sentiero che porta a una comunità fideistica. Il nostro compito deve essere quello di revocare questa decisione. Se la formazione psicoanalitica deve essere qualcosa di più di una preparazione professionale di tipo scolastico, dobbiamo riflettere sulle possibilità di realizzazione di un sistema formativo che risolva la contraddizione tra la prassi formativa e la massima dell'autorischiaramento.
Le limitazioni dell'autorischiaramento nella IPA si vedono:
a) Nel silenzio dei candidati sui difetti della formazione: nei suoi settant'anni di esistenza non ci sono state praticamente proteste da parte dei candidati in formazione. Esistono a mia conoscenza solo tre pubblicazioni sull'argomento: Speier (1983), Buzzone et al. (1985) e Blaya-Perez (1986). Questo è tanto più stupefacente quanto più l'altissimo numero di coloro che dopo l'analisi didattica (o «pseudoanalisi» come la chiamava A. Freud, 1976) rifanno una seconda analisi (Blaya-Perez, 1986) dimostra l'insoddisfazione. L'analisi didattica viene elaborata come subita in quanto non trasmette al candidato quel grado di autorischiaramento che sarebbe una premessa per la protesta. Il seguente episodio mette in evidenza il comportamento timoroso dei candidati nei confronti dell'istituzione: nel 1986 molti candidati della DPV aderirono al «gruppo Bernfeld», il cui scopo era di migliorare le condizioni della formazione. Il 1° maggio 1986 esso presentò una presa di posizione unanime al cui centro si trovava la richiesta di un cambiamento delle modalità della formazione. Dopo la fine del «gruppo Bernfeld», quando questo non poteva ormai offrire più alcuna protezione, la protesta dei candidati rientrò e le modalità della formazione rimasero immutate. Anche il silenzio dei candidati nella DPV fa parte del fatto che essi devono guadagnare, nei loro studi, con qualcosa (psicoterapie analitiche di bassa frequenza e di breve durata, secondo le direttive della cassa mutua) che non hanno mai imparato durante la loro formazione, e che invece non possono applicare, negli stessi ambulatori mutualistici che garantiscono il loro sostentamento, quello che di fatto hanno imparato (l'analisi di lunga durata e di alta frequenza). Si trovano così costretti, a conclusione della formazione, a procurarsi da qualche parte le competenze necessarie.
b) Nell'accettazione silenziosa di misure costrittive e di regolamenti selettivi. Questo sosteneva il documento di Altenburg dei didatti della DPV del 1985: gli analisti che mostrino segni di deviazioni significative dalla teoria e dalla prassi psicoanalitica devono presentarsi di persona, o essere segnalati da altre parti, in modo da poter venire sollevati dalla loro attività3 (vedi a questo proposito la delibera del comitato per la formazione dell'Istituto londinese per la psicoanalisi dell'anno 1943, cui fecero seguito le dimissioni di Anna Freud e Edward Glover dallo stesso comitato, che recita in sintesi: nessuna persona con vedute estreme può diventare analista didatta -cit. da P. Israel, 1994, p. 40). Accanto all'intimazione di denuncia si presuppone qui anche la posizione per cui esistono solo una teoria e una prassi della psicoanalisi, sulla base della quale si possono stabilire le deviazioni. Questa posizione si oppone alle esperienze dei candidati alla formazione. Le deviazioni rispetto alla teoria e alla prassi della psicoanalisi di Ferenczi M. Klein, Franz Alexander, Bowlby, dei seguaci di Kohut, di George S. Klein, di Peterfreund e altri, che essi conoscono, sono così grandi che sembra loro quasi impossibile parlare di una dottrina psicoanalitica unitaria. Si tratta inoltre della «clausola di incompatibilità»: «Non è compatibile con gli scopi della DPV la contemporanea partecipazione a differenti percorsi formativi come supplemento alla formazione psicoanalitica» (Delibera dell'assemblea generale della DPV, 19864). Anche il fatto che analisti famosi giudichino criticamente il comportamento della IPA, come Kernberg (1994) quando dice che la IPA si comporta più come un «cane da guardia» che come un «aiuto promozionale», non riesce a incoraggiare alla protesta la massa dei membri.
In questo punto si inserisce anche la seguente direttiva: il consiglio della Federazione psicoanalitica europea decise nel 1989 che quando un analista viene invitato dalla Società psicoterapeutica-psicoanalitica di un altro paese europeo la quale non fa parte della IPA, deve informare dell'invito il gruppo locale della IPA e deve procrastinare l'accordo definitivo con la società che invita, non appartenente alla IPA, fino a quando non riceva un invito anche dalla società nazionale della IPA (Consiglio della Federazione europea di psicoanalisi. Invito a conferenze). Anche il pregiudizio nei confronti dei non medici fa parte del tema. Scelgo come esempio il «caso» di Anna Freud. Dopo che ebbe presentato nei paesi anglosassoni la psicoanalisi come una scienza ausiliaria della medicina, le fu ancora concesso di pubblicare e ricercare e lavorare sull'analisi infantile, ma la formazione da lei offerta a Londra non venne riconosciuta dalla Società psicoanalitica britannica come formazione psicoanalitica; al congresso psicoanalitico di Stoccolma del 1963 le venne proibito di riferire in pubblico su un tema a sua scelta e dovette limitarsi ai temi dell'analisi infantile (Parin, 1978, pp. 391-392).
c) Nel deficit percettivo delle strutture di potere: per decenni i membri della IPA di sesso femminile non si sono accorti della predominanza dei membri di sesso maschile: i vertici delle istituzioni nazionali e sovranazionali sono ricoperti prevalentemente da maschi. Solo una volta, negli ottant'anni di storia della IPA, una donna ne fu presidente, Phillis Greenacre, nel 1965, e solo per breve tempo in veste di supplente; nelle più di quaranta associazioni psicoanalitiche nazionali e locali presentate nel Roster, solo poche erano dirette da donne; nel 1986 nessuno degli istituti di formazione e insegnamento della DPV era diretto da una donna. Mentre il rapporto uomo/donna ammonta tra gli ammessi alla formazione a circa il 50:50, tale rapporto si sposta nella classe dei membri ordinari a favore dei maschi, per dimostrare, nella classe degli analisti docenti, un drastico prevalere dei maschi. Quando finalmente ci se ne accorse, dopo che le cifre stavano sul tavolo, non successe niente (Cremerius, 1989, p. 202). I membri di sesso femminile non avanzarono pretese di perequazione. Ciò significa che la formazione analitica non le aveva portate a quel grado di autorischiaramento di cui dispongono oggi le donne nei paesi occidentali; mentre i candidati alla formazione vengono sottoposti a esami severi (interviste di ammissione, esame di ammissione alla parte pratica della formazione, ammissione al colloquio, osservazione del loro comportamento sociale, ecc.), la nomina a analista didatta viene concessa senza esami di qualificazione. Essi ottengono lo status di analisti didatti più tramite legittimazione che tramite competenza. A favore di questo gioca il fatto che nel 1988 l'83% dei membri ordinari della DPV avevano lo status di analisti didatti (cfr. Roster, 1988). Ma tale status, come mostrano gli esempi, non è quasi neppure riconosciuto. L'appello del Documento di Altenburg come pure l'accordo dell'attività dell'analisi didattica in base a determinate regole (limitazione del numero degli analizzandi a una cifra prestabilita e stabilimento di un limite di età al di sopra del quale non si può più iniziare un'analisi didattica) rimasero vani. Kernberg (1984) si pronunciò così sull'argomento: «La trasparenza totale richiesta alla personalità dei novizi di fronte all'oscurità della personalità del maestro è un segno di educazione religiosa» (p. 61). Anche questo indica un difetto: o nella percezione delle strutture di potere, o della libertà interna.
1. Il termine scìbbolet, che significa «spiga», viene citato nella Bibbia (Giudici, 12:6) a proposito dello stratagemma usato dai Gabaditi per smascherare gli Efraimiti in fuga: i vincitori aspettavano i fuggiaschi ai guadi del Giordano e per riconoscere nella persona che si avvicinava il nemico le facevano dire «scìbbolet», parola che gli Efraimiti pronunciavano erroneamente «sibbolet». [N.d.C.]
2. Così era la situazione per esempio a New York nel 1950, allorché vi volevo proseguire la mia formazione analitica. Ancora nel 1994 il Consiglio europeo discuteva di questioni sulla didattica, per esempio se il docente analista doveva presentare o no un resoconto. La libera scelta dell'analista non è sempre assicurata nemmeno nei posti che la garantiscono, in momenti in cui la richiesta di posti è più alta dell'offerta, o in piccoli istituti con pochi analisti docenti. Per non prolungare il periodo della formazione, i candidati scelgono alla fine il primo analista che offre loro un posto libero.
3. La carta rivela che l'«élite» degli analisti deve essere eliminata nel caso conduca ricerche psicoanalitiche mirate. Dunque il fare ricerche, uno dei compiti degli analisti, è considerata una deviazione punibile.
4. Solo una volta – a mia conoscenza – un analista venne punito per aver partecipato a un tale procedimento di formazione; quando nel 1982 Benedetti fece domanda per entrare come membro ordinario nella Società svizzera di psicoanalisi, il suo presidente di allora, De Saussure, la respinse, per il motivo che Benedetti aveva fondato a Milano un movimento indipendente dalla società. lo stesso, che avevo collaborato alla fondazione dell'istituto, non venni colpito dall'anatema da parte della DPV.
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