Ma mentre l’Italia restituisce libertà e diritti togliendo l’etichetta di matto a chi soffre di un disturbo mentale, c’è chi fa di tutto per riprendersi quell’etichetta. E così, il 1978, l’anno della legge 180, quello della chiusura dei manicomi, è anche l’anno orribile della psichiatria italiana.
Quando capiscono che soffia il vento della tutela dei pazienti psichiatrici, i mafiosi giocano la carta della follia per guarire dalla loro malattia professionale: il carcere.
Il 3 febbraio 1978, inizia il processo che condannerà il Ministero di Grazia e Giustizia a un risarcimento danni: è responsabile di non aver sorvegliato una struttura sotto il suo controllo.
La struttura è l’Ospedale psichiatrico giudiziario (OPG) di Aversa, reo dei privilegi accordati ai camorristi che vivono in un albergo a 5 stelle e ricevono amici e consiglieri. Il direttore, Domenico Ragozzino, non regge agli scandali e, pur assolto in Appello, si toglie la vita il 3 novembre. Stessa sorte tocca, pochi anni prima, al direttore del manicomio criminale di Napoli. Anche lui travolto dallo scandalo, anche lui assolto, anche lui suicida. Nel suo caso, le sentenze stabiliscono che le telefonate che partono dalla struttura verso Lima, sull’asse della droga Napoli/Perù, sono fatte dagli internati per ragioni riabilitative.
Nel 1978, Raffaele Cutolo, lui la racconta così, ha qualche affare da sbrigare e si allontana un po’ rumorosamente dall’OPG di Aversa. È lì per l’ennesima perizia falsa. Sega le sbarre del padiglione in cui è ricoverato, mentre i complici fanno cadere un muro di cinta con una carica di tritolo.
A ridosso dell’estate, la banda della Magliana incontra Aldo Semerari nella sua villa di Poggio Mirteto. Semerari è uno psichiatra eccellente e un’eminenza neofascista. Massone, piduista, coinvolto nei grandi scandali della coscienza sporca dell’Italia. Il professore e i capi della Magliana stabiliscono un patto di mutuo soccorso: perizie compiacenti in cambio di soldi.
Oggi i boss non dicono di essere Napoleone o capitani di vascello, come Nino e Pino Marchese, bracci destri di Totò Riina. E nemmeno sostengono di parlare con i muli, come Umberto Ammaturo che, contestualmente, combatte la guerra contro Cutolo ed è consulente finanziario di tre cliniche private. Raptus, sdoppiamenti di personalità e altre pantomime da operetta non sono più credibili, i sistemi di simulazione hanno fatto un salto di qualità.
I killer assumono cocaina prima di sparare per ridurre l’ansia, ma anche perché i sintomi dell’intossicazione possono essere spacciati per deliri o fasi maniacali di un disturbo bipolare. I boss non mangiano, assumono diuretici, lassativi e altre sostanze dimagranti. Così i medici fanno passare i deprimenti procurati per anoressie. Oppure si fanno ricoverare in trattamento sanitario obbligatorio. Siccome quel tipo d’intervento si attiva quando non c’è accordo sulle necessità di cure tra medico e paziente, è più difficile dimostrare connivenze: è la variante sanitaria di un vecchio stratagemma, la deresponsabilizzazione dei complici.
Le difese forzano le diagnosi di disturbo della personalità, che dal 2005 possono essere causa d’infermità o di semi-infermità: si tratta di condizioni che riguardano il modo di essere delle persone, difficili da diagnosticare. Oppure, in nome di un revival lombrosiano, chiedono TAC, Risonanze magnetiche o indagini genetiche sperando di trovare qualche alterazione cerebrale o del DNA associata all’aumento del rischio di comportamenti aggressivi per sostenere: non è colpa dell’imputato, è colpa dei suoi geni o del suo cervello. Senza che quest’associazione sia mai stata trovata secondo un rapporto di causa-effetto.
Mentre la psichiatria ufficiale sta compiendo la sua rivoluzione contro il pregiudizio nei confronti dei pazienti, a poche ore di distanza sono trovati i corpi di Peppino Impastato e di Aldo Moro. È il 9 maggio 1978.
Si tratta del suicidio di un pazzo, si dice mentre il cadavere di Impastato è ancora a caldo. E inizia il depistaggio: viene fuori una vecchia lettera in cui Peppino sfoga l’amarezza di attivista politico e riversa il travaglio di militante in crisi. Anzi no: è il suicidio di un mitomane, di uno che, sulla via del declino, sceglie di morire in un modo che più teatrale non si può. In troppi si guardano dal dire che Impastato sia vittima di mafia.
Anche nei 55 giorni del sequestro Moro, la psichiatria presta il fianco a strumentalizzazioni. Stavolta politiche. A poche ore dall’agguato di via Fani, Francesco Cossiga convoca un Comitato di esperti in cui psichiatri e criminologi si occupano della rilettura scientifica degli eventi. Al Presidente è diagnosticata la sindrome di Stoccolma, si dice che Moro non è più Moro, che scrive come un malato pieno di psicofarmaci. Nel caso sopravviva, andrà attivato il piano Victor, dove V sta per vivo: ricovero al Gemelli e cure specialistiche immediate. Tutto serve a svuotare di significato eventuali affermazioni imbarazzanti e sostenere: il Presidente ha detto cose indicibili perché era fuori di senno.
Il 9 maggio 1978 è il giorno simbolo della delegittimazione per mezzo di follia, l’ennesima frontiera dell’uso perverso della malattia mentale.
Quattro giorni dopo, sarebbe diventata legge la riforma psichiatrica.
Articolo pubblicato sui quotidiani del gruppo GEDI il 10 maggio 2018
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