Abstract (italiano): questo scritto è un parziale risultato dell’ascolto (per ragioni di ricerca) di soggetti detenuti in un penitenziario italiano. In generale noi abbiamo notato l’importanza del riconoscimento sociale per questi soggetti. Il riconoscimento sociale è fondamentale per qualsiasi soggetto, in particolare per quelli detenuti e criminali. Secondo la teoria sociologica, infatti, la legge criminale interna (super-io) può essere mediata dall’incontro con la legge sociale del riconoscimento. In questo senso l’ascolto psicoanalitico può essere un antidoto alla segregazione sociale del soggetto e avere effetti di riconoscimento sociale.
Commentando il testo di Schreber, nel terzo seminario, Lacan si chiede «di che si tratta in queste testimonianze dei deliranti?»[1]. Egli pone la questione che sta al fondamento stesso del dire dello psicotico Schreber. Questi parla, delira, rivolgendo il proprio discorso a qualcuno. Nel caso del delirio di Schreber l’Altro è prima il dottor Flechsig poi Dio, mentre i destinatari delle sue memorie sono tutti coloro che vorranno leggerli, che vorranno accogliere tali testimonianze: la comunità degli scienziati e in ultima analisi gli psicoanalisti.
Non diciamo che il folle è qualcuno che non si cura del riconoscimento dell’altro. Se Schreber scrive questa enorme opera, è proprio perché nessuno ignori ciò che egli ha provato, e anche perché all’occorrenza gli scienziati vengano a verificare sul suo corpo la presenza di quei nervi femminili da cui è stato progressivamente penetrato […]. Tutto ciò si presenta come uno sforzo per essere riconosciuto. Trattandosi di un discorso pubblicato, si pone l’interrogativo di ciò che può voler dire, in un personaggio tanto isolato in virtù della sua esperienza qual è il folle, il bisogno di riconoscimento.[2]
Successivamente Lacan fa notare che il mondo di Schreber è popolato da «ombres d’hommes baclées à la six-quatre-deux», cioè «ombre d’uomini raffazzonati alla belle meglio»[3]. L’altro dell’esperienza psicotica è connotato da questo scadimento, è l’altro immaginario sul quale non si può riporre la propria fiducia, presso il quale il soggetto non reperisce né chiede riconoscimento.
Da questo punto di vista il dire di un soggetto detenuto presso l’istituzione carceraria mostra una posizione di enunciazione comparabile a quella schreberiana. Egli racconta spesso della sua sfiducia nel poter discutere con altri detenuti del proprio malessere (psichico o fisico), né tantomeno con le guardie o con gli altri operatori (le insegnanti) che non sono disponibili ad ascoltarlo, a prenderlo sul serio. Il rischio sarebbe infatti quello di essere «frainteso», perché le altre persone «non sono giunte ad una consapevolezza da poter capire certe cose». Ciò lo spinge a porre una domanda di ascolto e di aiuto direttamente agli psicologi. Di cercare cioè un luogo in cui la propria parola venga accolta e non ritradotta nel linguaggio repressivo e contenitivo del carcere, nel discorso “performativo” dei detenuti. Il soggetto detenuto opera quindi una domanda di riconoscimento in quei luoghi ove è possibile reperire un tipo di ascolto che sia scevro da pregiudizi e da proiezioni di significato. Nel caso di questo detenuto, dal funzionamento psicotico, la domanda di riconoscimento si veicola verso lo psicologo o lo psichiatra, i quali sono gli unici «in grado» di ascoltare, gli unici con cui potersi «confrontare».
L’istituzione sembra assume per questi soggetti un doppio volto, uno di repressione e contenimento sociale[4], l’altro di riconoscimento simbolico, il quale a sua volta procede in due momenti: il primo, come si avrà modo di vedere successivamente, è quello della “assegnazione” della pena; il secondo è veicolato per mezzo di quelle esperienze “rieducative” o “riabilitative” che il soggetto incontra in carcere e tra le quali rientra, se richiesto, l’“ascolto psicologico”. In tale secondo ordine di esperienza è spesso il soggetto a chiedere di essere ascoltato, ma non tanto perché mosso da una domanda soggettiva, possibilmente da un pentimento, quanto piuttosto da un mero bisogno di ascolto e riconoscimento. Qui egli chiede che venga riconosciuto nella sua esperienza, nella sua sofferenza, nella sua soggettività[5]. L’opera dello psicologo orientato alla psicoanalisi qui è volta innanzitutto ad accogliere la domanda del soggetto ponendosi in una posizione alternativa ed antisegregativa[6] rispetto alle tendenze tipiche dell’istituzione (soprattutto se si tratta di carcere di alta sicurezza). Qui il soggetto pone una domanda di riconoscimento che lo individui nella sua particolarità, che operi una discontinuità da quelle pervasive pratiche indifferenziate e divieti che dominano ogni aspetto della sua vita nel carcere con continue e ripetitive scansioni.
L’inconscio criminale
Un altro soggetto racconta che i suoi brutti sogni «si realizzano sempre». Gli è capitato infatti diverse volte, nella vita, di sognare di essere arrestato. Quando faceva questo sogno, a suo dire, le forze dell’ordine venivano poi realmente ad arrestarlo. Oltre la dimensione di credenza superstiziosa da parte del soggetto riguardo il sogno, il fenomeno può essere letto come un ricordo ricostruito posteriori che esprime una fantasia inconscia[7]. Una fantasia che precede l’evento stesso. In altre parole si tratta di una dinamica simile a quella che Freud spiega, per esempio, nel caso del pittore Haitzmann. In Un caso di nevrosi demoniaca nel XVII secolo egli nota come la sovrapposizione tra Verschreiben (errore di scrittura) e Verschreibung (patto scritto) definisce l’effettivo statuto di errore nella ricostruzione a posteriori, cioè di finzione, di fantasia, della stipulazione del patto col demonio da parte del pittore[8]. In questo senso il sogno non sarebbe altro che una fantasia inconscia del soggetto che esprime qualcosa dell’ordine del senso di colpa di carattere fantasmatico: un arresto fantasticato che precede l’arresto reale. Ciò alla stessa maniera di come nel delinquente per senso di colpa[9] il senso di colpa precede il delitto che viene realizzato, quasi con l’intento di dargli forma ricevendo la punizione. In questo senso la pena si offre come riconoscimento simbolico per il soggetto da parte del terzo della Legge[10] , qui egli dà un nome a quell’impulso irrefrenabile che lo spinge compulsivamente ad agire, a commettere un atto fuori-legge: «[…] l’aumento considerevole del versante compulsivo dell’agire del soggetto, cioè del versante che porta il soggetto a compiere degli agiti o dei passaggi all’atto, quindi delle risposte, per esempio, a una situazione di disagio che possono andare nella direzione di una azione sconsiderata non regolata dalla legge»[11].
Qui l’atto criminale sarebbe in altri termini anch’esso un veicolo di una domanda di riconoscimento, in questo caso agita. Nell’atto si agisce un bisogno di riconoscimento simbolico che dia consistenza alla fantasia inconscia. Come racconta un educatore con esperienza pluridecennale nell’istituzione carceraria: «loro per lo più sanno che prima o poi andranno in carcere», «loro sanno che saranno presi per ciò che fanno, per la vita che conducono». Si tratta di ciò che Lacan affermava quando diceva che vi è una responsabilità fondamentale al cuore della soggettività[12].
L’ascolto psicoanalitico permette quindi di riconoscere tale responsabilità soggettiva in quella differenza assoluta che è il soggetto che agisce l’impulso nell’azione delittuosa. La Legge interiore del Super-Io qui predomina sulla legge sociale dell’eticità hegeliana che «costituita da pratiche di interazione che devono poter garantire contemporaneamente l’autorealizzazione individuale, il reciproco riconoscimento e i corrispondenti processi di formazione»»[13]. Nel passaggio all’azione il soggetto riesce a dare forma alla propria angoscia, si tratta di un atto che risponde alla Legge della pulsione che il soggetto non è riuscito ad articolare e mettere in parola: «in altri termini l’esigenza della pulsione si presenta come una legge con le stesse caratteristiche della legge morale»[14]. Di contro a tale Legge dell’imperativo interiore la legge sociale svolge una funzione di mediazione, per mezzo delle istituzioni e del riconoscimento simbolico, che ha un effetto di pacificazione per il soggetto[15].
Clinica e politica
Nel caso dei nostri detenuti si tratta spesso di una difficoltà fondamentale per il soggetto a trovare nella Legge dello Stato, nel discorso politico, quel ruolo pacificante di una funzione simbolica che non trovano nel proprio contesto sociale di provenienza[16]. In questo scarto tra politica e società si crea una dimensione anomica che favorisce lo sviluppo della delinquenza soprattutto in quei soggetti con caratteristiche personologiche più fragili e più adatte a condotte e azioni criminali[17]. La lontananza da tale rapporto di riconoscimento articola quella differenza consustanziale allo stato di diritto in cui si pone uno scarto tra legalità e legittimità, che in termini psicoanalitici si traduce nella differenza assoluta della particolarità del godimento di ciascuno nel rapporto al riconoscimento sociale, al riconoscimento della Legge.
Distinguere legalità e legittimità significa riconoscere l’opposizione operante tra la sfera etico-politica da una parte e la legge positiva. […] È un modo di riconoscere una sorta di non-tutto, un divario che segna il non assorbimento della totalità del sociale. Significa al tempo stesso ammettere il riferimento di un Altro simbolico, e acconsentire a un’alterità che non può essergli sottomessa. Un godimento altro che sfugge le coordinate del simbolico.[18]
In questo scarto che si pone tra l’ordine simbolico della legalità, terzo che veicola il riconoscimento del soggetto, e il reale delle prassi che si sviluppano nel contesto sociale (legittimità), si pone la psicoanalisi all’ascolto del soggetto nella sua particolarità più radicale (il crimine) ed in maniera alternativa alle operazioni di segregazione sociale e politica della criminalità o di trattamento psicoterapico-ortopedico della differenza.
L’ascolto psicoanalitico pone al centro il soggetto con il suo dire, offrendogli spazi di parola alternativi ai luoghi di repressione che incontra ripetutamente nella sua esistenza, siano questi il contesto sociale criminale o l’istituzione detentiva. In questo senso l’operazione analitica opera una sovversione rispetto agli altri discorsi sociali dominanti che puntano all’“ideale” e a nuove forme di segregazione, essa così «si fa presente nei vacillamenti del parlessere alle prese con gli imperativi di godimento e con i sembianti a cui identificarsi offerti dalla segregazione contemporanea»[19].
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