« In quanto scienza interdisciplinare,
l’etnopsichiatria è tenuta
a considerare congiuntamente
i concetti chiave e i problemi di base
dell’etnologia e della psichiatria »
(Georges Devereux, Normale et anormale)
Riassunto
l’etnopsichiatria è tenuta
a considerare congiuntamente
i concetti chiave e i problemi di base
dell’etnologia e della psichiatria »
(Georges Devereux, Normale et anormale)
Riassunto
L’autore, nel cercare di descrivere la straordinaria capacità di lavoro, la copiosità di interessi e soprattutto l’adattabilità alle condizioni di vita coi nativi del mondo intero (Sedang Moi, Mohave, Hopi), dall’Indocina al Colorado alla California, che Georges Devereux ha studiato sul campo, pensa che sia risultata determinante la musica ascoltata nella sua infanzia. Tra l’altro suonava il pianoforte ma non ha potuto continuare per un incidente alla mano. L’autore del presente saggio immagina che la musica Klezmer degli ebrei ashkenaziti dell'Europa orientale e le orchestrine da strada yiddish ascoltate da ragazzo abbiano fatto da colonna sonora alla sua formazione e abbiano orientato i suoi ascolti interetnici.
I Magiari/Ungari, stirpe ugro-finnica, invadono l’Europa orientale.
Nel cuore dell’Europa subcarpatica meridionale, scorre un fiume di 320 chilometri che gli Ungheresi chiamano Temes, i Romeni Timiş, i Serbi Tamiš. È un affluente di sinistra del Danubio che, prima di entrare in territorio serbo per gettarsi nel grande fiume blu vicino Belgrado, attraversa la regione del Banato (Banat in turco significa circoscrizione). Questo plurilinguismo per denominare luoghi e assetti giurisdizionali la dice lunga sulla storia di un territorio che a partire dalle province romane di Dacia e Pannonia, ha visto dal III secolo d.C. in poi avvicendarsi (e scontrarsi per il dominio) varie etnie (Geti, Vandali Gepidi, Slavi, Avari, Bulgari, Magiari, Ungari, Mongoli, Tartari, Romeni, Valacchi, più tardi anche Sassoni) e cospicui imperi (Ottomano e Austro-ungarico soprattutto). Il padre dell’etnopsicoanalisi non poteva avere in sorte – come posto per venire al mondo – migliori auspici di quelli propiziatigli dal genius loci, dal genius gentis e dal genius flumini et acquae, di tali contrade.
Lugos
Nella regione del Banato, questo fiume “storico” bagna una cittadina antichissima [1] che gli Ungheresi chiamano Lugos, i Romeni Lugoj. Ebbene, proprio qui è nato nel 1908 (lo stesso anno di Ernesto de Martino) György Dobó il quale – per una serie di circostanze alquanto complesse – francesizzò il suo nome in Georges o George Devereux e si fece cristiano (1932). Le ceneri del suo corpo dopo la morte avvenuta a Parigi nel 1985 furono sparse per sua volontà testamentaria nei cieli dei territori mohave del Dakota. Un’accurata e ben documentata biografia (con dovizia di particolari illuminanti), sull’itinerario umano e scientifico di Devereux, si può leggere in Coppo, 1996, 2003 [2.].
Sappiamo che era di famiglia ebraica benestante (comunità ashkenazite ungheresi), che amava la musica [3] e avrebbe voluto fare il pianista ma ne fu impedito da un incidente a una mano. Si sa che si trovò presto in opposizione coi genitori dai quali fuggì appena diciottenne per andare a Parigi (1926) a studiare etnoantropologia e che non ebbe rapporti facili con l’EPHE [4].
Non stupisce che parlasse fluentemente sette lingue. Tre di queste (ungherese, romeno e tedesco) si possono considerare lingue-madre. Il francese e l’inglese testimoniano il suo (difficile, riluttante e contrastato) incontro col mondo accademico. Le ultime due, sedang e malese, sono stati strumenti di lavoro sul terreno. È facile anche comprendere come nelle circostanze storiche della seconda guerra mondiale – allorché giunge il momento della responsabilità personale, sorge imperativo l’obbligo morale di dover scegliere, decidere, schierarsi – Devereux si sia fatto cittadino statunitense e, per contrastare il nazismo, si sia arruolato come ufficiale di collegamento nella marina con destinazione Estremo Oriente. Quivi, peraltro, vi era già stato da etnologo: in Indocina a studiare i Sedang-moï. Non meraviglia neppure che amasse (forse anche troppo) la psicoanalisi freudiana, una tecnica psicologica germogliata nella opulenta Vienna del tramonto austro-ungarico, struggente ombelico mondiale delle arti, delle scienze e di quasi tutti i saperi umani dell’epoca. Questa città raffinata, colta, cosmopolita, intellettuale, questa capitale imperiale, questo crogiolo irripetibile di culture mitteleuropee e orientali, a ben pensare possedeva umori acri e arcani profumi, profondamente domestici all’uomo Devereux. Non sorprende dunque che abbia scelto il budapestino entopsicoanalista Géza Róheim (a sua volta allievo di Sándor Ferenczi, il grande ungherese di Miskolc, freudiano devoto) per avviare (trentasettenne) la sua analisi personale.
L’arroganza di possedere l’identità.
Un po’ più complessa, invece, come s’è detto, la vicenda in cui matura la decisione di mutare nome e farsi cristiano (Parigi, 1932). Addirittura un cambio d’identità e di confessione: non uno ma due terremoti psicologici interiori. Forse una traccia di spiegazione può ravvisarsi nell’incipit della sua relazione alla società psicoanalitica parigina del 1964 il cui titolo “La rinuncia all’identità: difesa contro l’annientamento”, sembra un manifesto programmatico.
«L’oggetto di questo studio è la fantasia che possedere un’identità sia un’autentica arroganza capace, automaticamente, di incitare gli altri ad annientare non solo questa identità ma anche l’esistenza stessa del presuntuoso per mezzo, in genere, di un atto di cannibalismo che trasforma il soggetto in oggetto. I pazienti più gravi cercano di proteggersi da questo rischio rinunciando ad ogni vera identità; quelli meno afflitti si costruiscono una falsa identità. Queste due manovre rappresentano l’essenza stessa del disordine psichico e costituiscono, nella situazione psicoanalitica, la base di ogni resistenza poiché lo scopo delle resistenze è precisamente quello di impedire la scoperta della vera identità del paziente. Se fosse diversamente, l’analisi delle resistenze non avrebbe alcuna utilità terapeutica. Ciò implica che la distinzione talvolta operata tra l’analisi del contenuto (content-analysis) e l’analisi delle resistenze (Kaiser, 1934) è illusoria: ogni analisi di una resistenza è, al tempo stesso, un’analisi sia dell’inconscio (“contenuto”) che del carattere» [5].
Si potrebbe essere indotti ad “interpretare” che questa rivoluzionaria affermazione, oltre a contenere una parte preponderante dell’esperienza individuale di Devereux, rifletta coraggiosamente i mutamenti (e i travagli interiori) che si esercitarono sulla sua composita “identità” personale, perennemente in trasformazione, i cui equilibri provvisori sono conquistati di volta in volta appartenendo spericolatamente (e coscientemente) alla categoria dei “meno afflitti”.
Genitori dell’etnopsichiatria.
Per quanto concerne l’etnopsichiatria vale il detto popolare che la madre, al contrario del padre che non lo è mai, è sempre certa, e, nella fattispecie, potrebbe essere metaforicamente qualunque creola o meticcia o sanguemisto che rinasce perennemente in ogni angolo della terra popolato di presenze umane. La questione del padre, invece, è differente, poiché costoro potrebbero essere molti, in senso nobile naturalmente. Certamente, fra i padri nobili di questo incrocio culturale che passa per la mente prima ancora che per la pelle, può essere annoverato Devereux, ben al di sopra di ogni questione patronimica e nominalistica.
Sulla paternità dell’etnopsichiatria si è polemizzato fin troppo e senza costrutto, ma resta il ragionevole e legittimo convincimento che il deus ex machina dell’intera costruzione del disciplinare etnopsichiatrico (segnatamente del suo dispositivo metodologico e teoretico di doppia lettura del fatto etnografico osservato) sia stato sia stato senza alcun dubbio Georges Devereux [6]. Dobbiamo al suo lavoro infaticabile il merito di aver capovolto la grande questione delle culture e di aver posto con fermezza la pariteticità dei loro valori, a partire dall’incontro con l’altro, con tutti gli altri possibili.
Circa la paternità del termine “etnopsichiatria” si deve seriamente (e definitivamente) pensare che la polemica eponimica riguardi più gli accademici che Devereux. In un editoriale del 1999 su una rivista psichiatrica on-line Roberto Beneduce scriveva:
«E necessario tollerare la presenza di etnopsichiatrie differenti perché i contesti, i fattori contingenti, le priorità sono determinanti nel definire modelli di lavoro anche assai distanti fra loro. Ciò che fa il proprium di un’etnopsichiatria critica è la consapevolezza che il “culturale” non deve occultare altre dimensioni, non deve trascurare di considerare la posizione e i rapporti di forza degli interlocutori né l’ideologia veicolata da molte categorie diagnostiche (l’etnopsichiatria di Carothers, l’esperto dell’OMS che nel Kenia coloniale lavorava negli anni ‘50, non è ad esempio degna di questo nome)» [7].
L’attribuzione dei nomi. Solite beghe.
Le questioni eponimiche, si sa, tornano periodicamente ad essere messe in discussione. Spesso svelano ragioni speciose o comunque motivi di rivalsa o di protesta. Salvatore Inglese, che già si era occupato del maestro ungherese coevo di de Martino su “I fogli di ORISS”, ha curato per Armando una nuova edizione italiana dei Saggi di etnopsichiatria (2005) [8], facendo seguire alla classica prefazione di Roger Bastide una sua postfazione che è una competente biografia, piena di umanità e di affettuosa partecipazione. Periodizzata in sette sottocapitoletti questa sua scorrevole postfazione titolata Georges Devereux: dietro i nomi, la natura molteplice dell’etnopsichiatria, (tutto un programma), si legge come un romanzo di avventure. Ivi apprendiamo che i vari nomi con cui Devereux definisce la materia che sceglierà di approfondire per tutta la vita, altro non sono se non un tentativo di differenziarsi, sfuggire, sgusciare mimetizzandosi (e come poteva essere altrimenti) dalle etichettature banalizzanti dei colleghi di quella che aveva scelto deliberatamente come seconda patria e nel cui esercito si era arruolato nel 1941 per combattere il nazismo, avendo per destinazione il teatro di guerra cinese. Questo il passo in questione:
«Nel 1946 Devereux adotta per la prima volta il termine etnopsichiatria e ne attribuisce la paternità a Louis Mars, psichiatra e diplomatico haitiano impegnato nella valorizzazione delle etnoscienze dei popoli nativi. In precedenza, aveva delimitato il proprio campo di ricerca con la denominazione di psichiatria transculturale. Sostituisce questa etichetta con etnopsichiatria volendo protestare contro i colleghi americani che impiegavano in modo improprio la sua prima definizione e gli negavano la soddisfazione di esserne riconosciuto come l’inventore. Utilizza talvolta anche espressioni alternative: antropologia psicoanalitica, etnopsicoanalisi, etnopsicopatologia, folk-psychiatry, psichiatria interculturale (cross-cultural), psichiatria metaculturale, psicopatologia culturale.» [9].
Ora la questione è spenta. Sappiamo che Devereux, è già stato ricordato sopra, raffinato e geniale figlio della cultura mitteleuropea – per nulla “intimorito” (anzi) dalla possibilità di poterne macchiare l’immacolata percezione incontrando direttamente quasi tutte le altre culture del pianeta, ma soprattutto cercando di viverle “autenticamente” – fu fin troppo occupato a definire i non facili problemi metodologici della sua ricerca complementarista, che lo impegnarono spasmodicamente dal 1933 (Sedang Field Notes) fino alla morte. Egli non avrebbe certamente rubato del tempo al suo lavoro per tenere a battesimo una semplice terminologia scientifica. Che sia stato padre fondatore, pioniere o epigono dell’etnopsichiatria, della ricerca psichiatrica cross-culturale, della psichiatria transculturale, dell’etnopsicoanalisi o come altrimenti si voglia chiamare questo ambito di studi, credo che poco gli sarebbe importato. Semmai ci sarebbe da domandarsi perché tutta la sua opera e il suo pensiero siano, a tutt’oggi inspiegabilmente così poco divulgati, restando appannaggio di pochi cultori della materia.
Il lavoro accademico con la stessa disinvoltura di quello sul terreno.
«Nel 1963 Georges Devereux (1908-1985) ritorna a Parigi – scrive Salvatore Inglese [10] – per insegnare etnopsichiatria all’École Pratique des Hautes Études. Deve questo incarico all’amicizia sincera, alla stima illimitata e alla mediazione istituzionale di Lévi-Strauss, Bastide e Braudel i quali riportano in Francia un controverso antropologo e psicoanalista, riconoscendolo come il disegnatore più creativo di questa nuova traiettoria disciplinare».
Sotto questo profilo la sua personalità di studioso non conformista e dunque proprio per questo osteggiato dall’establishment accademico, rammenta in qualche modo la vicenda di de Martino di cui s’è detto prima e si apparenta con quella di Michele Risso di cui abbiamo già detto diffusamente altrove [11].
Uomo d’inesauribile versatilità fu estremamente attivo dal punto di vista scientifico. Buona parte della sua opera è raccolta in un libro, con prefazione di Roger Bastide [12], dove sono contenuti quindici saggi che vanno dal 1939 al 1966. Essi nel loro insieme formulano la teoria e i metodi di base dell’etnopsichiatria psicoanalitica. I primi scritti – com’è ricordato nell’introduzione del 1970 – risalgono a quando questa disciplina era in procinto di nascere e mancava non soltanto di un’impalcatura teorica ma anche di un lessico adeguato (i termini tecnici) per comunicare le essenze, i concetti, le interrelazioni dei fenomeni osservati. Fin dal 1970 (nel pieno dell’infuocato dibattito francese tra marxisti e strutturalisti), Devereux segnalava profeticamente e con grande preoccupazione, lo stato catastrofico dell’uomo. Aperto ad ogni confronto e sensibile ad ogni sollecitazione critica, diceva di non aver mai dimenticato il consiglio metodologico del biblista storico francese, il domenicano Joseph Marie Lagrange (1855-1938): “Ho cercato la semplicità pur non fidandomi di essa”. Ma teneva anche in seria considerazione l’esortazione di un Collega che gli suggeriva l’ardito paradosso “Un’epoca delirante esige una teoria delirante”.
La produzione scientifica. Appunti, scritti, diari, libri, speculazioni filosofiche.
Tutti gli scritti di Devereux sono pervasi di lucidissime riflessioni speculative centrate particolarmente sull’incontro con le alterità non occidentali. Gli interrogativi che egli si pone osservando (anzi, vivendole dall’interno) le differenzialità di quei mondi culturali, sono sia di ordine metodologico che di natura dialogica, ma sempre filtrati da un’attenta ed originale lettura (una doppia lettura, a dire il vero) psicodinamica, che ha come punto di riferimento la psicoanalisi.
Come scienza autonoma [13] l’etnopsichiatria ovvero l’etnologia psichiatrica o la psichiatria etnologica (essendo l’etichetta una funzione dell’uso che viene fatto di questa scienza interdisciplinare “pura”) si sforzerà di confrontare e di coordinare i concetti di cultura con il taglio concettuale di “normalità/anormalità”. In primo luogo – sostiene Devereux – essa si deve costituire una precisa area di confine – il locus – la frontiera fra il normale e l’anormale. Gli psichiatri e gli psicopatologi antropofenomenologici potrebbero osservare che Ludwig Binswanger avrebbe usato, per esprimere lo stesso concetto, la categoria del “salvo” e “non salvo”.
In quanto scienza interdisciplinare, l’etnopsichiatria – scrive Devereux nel saggio Normal et Anormal [14] – deve considerare congiuntamente i concetti chiave e i problemi di base sia dell’etnologia che della psichiatria. Essa non saprebbe accontentarsi di mutuare pedissequamente le tecniche d’esplorazione e di spiegazione dall’una e dall’altra di queste due scienze. Al fondamento, vi è una radicale differenza metodologica tra il puro e semplice prendere a prestito delle tecniche e la fecondazione reciproca dei concetti.
Questa, in estrema sintesi, la profonda convinzione (irrinunciabile, indefettibile) e la conclusione ultima cui pervenne Georges Devereux. Questo lo scontro di base (oltre alla visione della psicoanalisi), ma anche il grande insegnamento che il Maestro ha lasciato al suo allievo prediletto: Tobie Nathan (anch’egli di famiglia ebraica, comunità sefardite egiziane).
Le scienze veramente interdisciplinari sono, in effetti, il prodotto di una fecondazione reciproca di concetti chiave che sottendono ciascuna delle scienze costitutive. A questo lucido ragionamento di Devereux si potrebbe aggiungere che i matrimoni esogamici della psichiatria (quello con l’antropologia, con l’etnologia e con la sociologia, per esempio) hanno sempre fruttuosamente generato sontuosi figli meticci.
Note
1. Un tempo fortezza romana, nel XIV secolo sede della Corona, nel XVII occupata dagli Ottomani, nel XVIII dagli Asburgo fino al disfacimento dell’impero Austro-ungarico (1918) in cui passò definitivamente ai Romeni (Trattato di Trianon 1920).
2. Cfr. Piero Coppo, in collaborazione con G. Cardamone e S. Inglese. Etnopsichiatria. Un manuale per capire. Un saggio per comprendere. Due Punti, il Saggiatore, Milano, 1996. Piero Coppo. Tra psiche e cultura. Elementi di etnopsichiatria. Bollati Boringhieri, Torino 2003.
3. Non è escluso che fosse affascinato dai klezmer, i popolari suonatori ambulanti ungheresi, romeni e polacchi. Sensibile alla musica, da bambino non poteva non aver gustato quel particolare sapore delle orchestrine da strada yiddish o klezmer, né restare indifferente agli elementi folclorici delle feste paesane dove si esibivano. Proviamo ad immaginare che l’infanzia di Devereux abbia avuto per colonna sonora questa musica dove si mescolano antiche formule di canto e preghiera ebraiche, toni medievali europei, note arabe, che gli conferisce un sapore affatto particolare. Basi tonali dalla vena gioiosa, solare, apollinea e allo stesso tempo malinconica; irruzioni di ritmicità sfrenate, scintillanti, dionisiache, echi di sentimenti romantici evocati da suoni languidi sui registri di una struggente nostalgia. Questa magia musicale di tradizione ebraico-orientale della mitteleuropa ha educato il suo orecchio, nutrito la sua mente, alimentato le sue emozioni.
4. Per chi fosse interessato ai dettagli, apprendiamo ancora da Coppo (1996) che Devereux – personaggio di straordinaria levatura – è stato etnologo, antropologo, psicoanalista, allievo di Marcel Mauss, Lucien Lévy-Bruhl e Paul Rivet, nonché Fisico a Parigi alla scuola di Madame Curie. Ha lavorato sul campo con gli indiani Hopi in California, nella giungla indocinese con i Sedang Moï e ha vissuto a lungo con gli indiani Mohave del Colorado. Raffinato cultore delle civiltà pre-ellenistiche e del greco antico, fu chiamato a Parigi nel 1962 per insegnare etnopsichiatria presso l’École Pratique des Hautes Études. Quivi conobbe il suo allievo Tobie Nathan e insieme fondarono la Rivista “Ethnopsychiatrica” nel 1978.
5. Georges Devereux. La rinuncia all’identità: difesa contro l’annientamento. Conferenza tenuta alla Società Psicoanalitica di Parigi il 17 novembre 1964. “Revue Française de Psychanalyse”, Tome XXXI, 1, 101-142, 1967. Testo riprodotto (per gentile concessione della Rivista francese) in: “i Fogli di ORISS”, 2000, 13/14, pp. 185-208. (prima parte). Traduzione dal francese e prima redazione italiana curata da Salvatore Inglese.
6. Dal punto di vista del dispositivo teoretico (un vero e proprio assillo, per lui assolutamente prioritario), l’ottica complementarista di Devereux evita l’evoluzione della teoria in un vaso chiuso che, facendone derivare il pensiero, lo conduce ad una involuzione (“entropica”); egli guarda con preoccupazione alla trasformazione di una teoria del reale in uno schema puramente retorico, ancorché raffinato, metafisico e ludico. Il suo complementarismo tiene conto rigorosamente del rendimento decrescente di ogni teoria che pretende di spiegare dei fatti limitandosi invece a rivelarne appena quello che è il suo campo d’indagine. Simili velleità espansioniste – egli ebbe a sostenere – non consolidano un sistema teorico, al contrario lo denaturano e lo diluiscono (Devereux, 1972).
7. Roberto Beneduce. Luoghi e strategie di un’etnopsichiatria critica. © POL.it. The italian on line psychiatric magazine, 1999 area di etno-psichiatria.
8. Georges Devereux. Saggi di etnopsichiatria generale. Nuova edizione italiana a cura di Salvatore Inglese, traduzione di G. Bartolomei. Prefazione di Roger Bastide., postfazione di Salvatore Inglese: “Georges Devereux: dietro i nomi, la natura molteplice dell’etnopsichiatria” Armando Editore, Roma, 2007, pp. 363-391.
9. Salvatore Inglese. Georges Devereux: dietro i nomi, la natura molteplice dell’etnopsichiatria (pp. 363-391), postfazione a Georges Devereux. Saggi di etnopsichiatria generale. Armando Editore, Roma, 2007, p. 363.
10. Ibid., cit., (nota 1, p. 391).
11. si veda POL.it Psychiatry on line Italia. Sergio Mellina. Michele Risso. Lo psichiatra che negli anni ’70 curava gli psicotici gravi e congedava i nevrotici.
12. Devereux G (1970). Essais d’ethnopsychiatrie générale, traduit de l’anglais par Tina Jolas et Henri Gobard. Édition Gallimard, Paris, 1977.
13. Questo insistito richiamo di Devereux all’autonomia dell’etnopsichiatria. non è mai dettato da ruvide intenzioni egemoni, tanto meno accademiche, ma da genuina libertà di espressione e di confronto con tutte le scienze umane.
14. Devereux G. Essais d’ethnopsychiatrie générale, cit., pp. 1 (traduzione mia).
Bibliografia essenziale.
Beneduce R, Collignon R (curatori). Il sorriso della volpe. Ideologie della morte, lutto e depressione in Africa. Liguori, Napoli, 1995.
Cardamone G, Coppo P, Inglese S. L’etnopsichiatria e il suo campo applicativo in Italia. In: Mellina Sergio (curatore) “Medici e Sciamani fratelli separati”, Lombardo, Roma, 1997 pp. 107-15.
Carohters J.C.D. The African Mind in Health and Disease. A Study in Ethnopsychiatrie. WHO Monograph Series No. 17, World Health Organisation, Genève, 1953.
Carohters J.C.D. Psychologie normale et pathologique de l’Africaine. Traduzione dall’inglese di Aubier, OMS, Genève, 1954
Coppo P, Keita A. Médicine traditionnel. Acteurs et itinéraires thérapeutiques. Edizioni E, Trieste, 1990
Coppo P. Etnopsichiatria. Un manuale per capire. Un saggio per riflettere. due punti Il Saggiatore, Milano, 1996.
Coppo P. Tra psiche e cultura. Bollati Boringhieri, Torino, 2003.
Devereux G. Essais d’ethnopsychiatrie générale, Gallimard, Paris, 1970-1973-197.
Devereux G. Ethnopsychanalyse Complémentariste, Flammarion, Paris, 1972, 1985.
Devereux G. Normale e anormale. Armando, Roma, 1956
Devereux G. Saggi di etnopsichiatria. Armando, Roma, 1978.
Devereux G. Saggi di etnopsichiatria generale. Edizione italiana curata da Salvatore Inglese, traduzione dal francese di G. Bartolomei: Armando Editore, Roma, 2007.
Inglese S. Georges Devereux: dietro i nomi, la natura molteplice dell’etnopsichiatria (pp. 363-391), postfazione a “Georges Devereux. Saggi di etnopsichiatria”. Nuova edizione italiana a cura di Salvatore Inglese. Prefazione di Roger Bastide. Armando, Roma, 2007.
Mellina S. Gente di passaggio. In: Natale Losi (curatore) “Vite altrove. Migrazione e disagio psichico”, Feltrinelli, Milano,
I Magiari/Ungari, stirpe ugro-finnica, invadono l’Europa orientale.
Nel cuore dell’Europa subcarpatica meridionale, scorre un fiume di 320 chilometri che gli Ungheresi chiamano Temes, i Romeni Timiş, i Serbi Tamiš. È un affluente di sinistra del Danubio che, prima di entrare in territorio serbo per gettarsi nel grande fiume blu vicino Belgrado, attraversa la regione del Banato (Banat in turco significa circoscrizione). Questo plurilinguismo per denominare luoghi e assetti giurisdizionali la dice lunga sulla storia di un territorio che a partire dalle province romane di Dacia e Pannonia, ha visto dal III secolo d.C. in poi avvicendarsi (e scontrarsi per il dominio) varie etnie (Geti, Vandali Gepidi, Slavi, Avari, Bulgari, Magiari, Ungari, Mongoli, Tartari, Romeni, Valacchi, più tardi anche Sassoni) e cospicui imperi (Ottomano e Austro-ungarico soprattutto). Il padre dell’etnopsicoanalisi non poteva avere in sorte – come posto per venire al mondo – migliori auspici di quelli propiziatigli dal genius loci, dal genius gentis e dal genius flumini et acquae, di tali contrade.
Lugos
Nella regione del Banato, questo fiume “storico” bagna una cittadina antichissima [1] che gli Ungheresi chiamano Lugos, i Romeni Lugoj. Ebbene, proprio qui è nato nel 1908 (lo stesso anno di Ernesto de Martino) György Dobó il quale – per una serie di circostanze alquanto complesse – francesizzò il suo nome in Georges o George Devereux e si fece cristiano (1932). Le ceneri del suo corpo dopo la morte avvenuta a Parigi nel 1985 furono sparse per sua volontà testamentaria nei cieli dei territori mohave del Dakota. Un’accurata e ben documentata biografia (con dovizia di particolari illuminanti), sull’itinerario umano e scientifico di Devereux, si può leggere in Coppo, 1996, 2003 [2.].
Sappiamo che era di famiglia ebraica benestante (comunità ashkenazite ungheresi), che amava la musica [3] e avrebbe voluto fare il pianista ma ne fu impedito da un incidente a una mano. Si sa che si trovò presto in opposizione coi genitori dai quali fuggì appena diciottenne per andare a Parigi (1926) a studiare etnoantropologia e che non ebbe rapporti facili con l’EPHE [4].
Non stupisce che parlasse fluentemente sette lingue. Tre di queste (ungherese, romeno e tedesco) si possono considerare lingue-madre. Il francese e l’inglese testimoniano il suo (difficile, riluttante e contrastato) incontro col mondo accademico. Le ultime due, sedang e malese, sono stati strumenti di lavoro sul terreno. È facile anche comprendere come nelle circostanze storiche della seconda guerra mondiale – allorché giunge il momento della responsabilità personale, sorge imperativo l’obbligo morale di dover scegliere, decidere, schierarsi – Devereux si sia fatto cittadino statunitense e, per contrastare il nazismo, si sia arruolato come ufficiale di collegamento nella marina con destinazione Estremo Oriente. Quivi, peraltro, vi era già stato da etnologo: in Indocina a studiare i Sedang-moï. Non meraviglia neppure che amasse (forse anche troppo) la psicoanalisi freudiana, una tecnica psicologica germogliata nella opulenta Vienna del tramonto austro-ungarico, struggente ombelico mondiale delle arti, delle scienze e di quasi tutti i saperi umani dell’epoca. Questa città raffinata, colta, cosmopolita, intellettuale, questa capitale imperiale, questo crogiolo irripetibile di culture mitteleuropee e orientali, a ben pensare possedeva umori acri e arcani profumi, profondamente domestici all’uomo Devereux. Non sorprende dunque che abbia scelto il budapestino entopsicoanalista Géza Róheim (a sua volta allievo di Sándor Ferenczi, il grande ungherese di Miskolc, freudiano devoto) per avviare (trentasettenne) la sua analisi personale.
L’arroganza di possedere l’identità.
Un po’ più complessa, invece, come s’è detto, la vicenda in cui matura la decisione di mutare nome e farsi cristiano (Parigi, 1932). Addirittura un cambio d’identità e di confessione: non uno ma due terremoti psicologici interiori. Forse una traccia di spiegazione può ravvisarsi nell’incipit della sua relazione alla società psicoanalitica parigina del 1964 il cui titolo “La rinuncia all’identità: difesa contro l’annientamento”, sembra un manifesto programmatico.
«L’oggetto di questo studio è la fantasia che possedere un’identità sia un’autentica arroganza capace, automaticamente, di incitare gli altri ad annientare non solo questa identità ma anche l’esistenza stessa del presuntuoso per mezzo, in genere, di un atto di cannibalismo che trasforma il soggetto in oggetto. I pazienti più gravi cercano di proteggersi da questo rischio rinunciando ad ogni vera identità; quelli meno afflitti si costruiscono una falsa identità. Queste due manovre rappresentano l’essenza stessa del disordine psichico e costituiscono, nella situazione psicoanalitica, la base di ogni resistenza poiché lo scopo delle resistenze è precisamente quello di impedire la scoperta della vera identità del paziente. Se fosse diversamente, l’analisi delle resistenze non avrebbe alcuna utilità terapeutica. Ciò implica che la distinzione talvolta operata tra l’analisi del contenuto (content-analysis) e l’analisi delle resistenze (Kaiser, 1934) è illusoria: ogni analisi di una resistenza è, al tempo stesso, un’analisi sia dell’inconscio (“contenuto”) che del carattere» [5].
Si potrebbe essere indotti ad “interpretare” che questa rivoluzionaria affermazione, oltre a contenere una parte preponderante dell’esperienza individuale di Devereux, rifletta coraggiosamente i mutamenti (e i travagli interiori) che si esercitarono sulla sua composita “identità” personale, perennemente in trasformazione, i cui equilibri provvisori sono conquistati di volta in volta appartenendo spericolatamente (e coscientemente) alla categoria dei “meno afflitti”.
Genitori dell’etnopsichiatria.
Per quanto concerne l’etnopsichiatria vale il detto popolare che la madre, al contrario del padre che non lo è mai, è sempre certa, e, nella fattispecie, potrebbe essere metaforicamente qualunque creola o meticcia o sanguemisto che rinasce perennemente in ogni angolo della terra popolato di presenze umane. La questione del padre, invece, è differente, poiché costoro potrebbero essere molti, in senso nobile naturalmente. Certamente, fra i padri nobili di questo incrocio culturale che passa per la mente prima ancora che per la pelle, può essere annoverato Devereux, ben al di sopra di ogni questione patronimica e nominalistica.
Sulla paternità dell’etnopsichiatria si è polemizzato fin troppo e senza costrutto, ma resta il ragionevole e legittimo convincimento che il deus ex machina dell’intera costruzione del disciplinare etnopsichiatrico (segnatamente del suo dispositivo metodologico e teoretico di doppia lettura del fatto etnografico osservato) sia stato sia stato senza alcun dubbio Georges Devereux [6]. Dobbiamo al suo lavoro infaticabile il merito di aver capovolto la grande questione delle culture e di aver posto con fermezza la pariteticità dei loro valori, a partire dall’incontro con l’altro, con tutti gli altri possibili.
Circa la paternità del termine “etnopsichiatria” si deve seriamente (e definitivamente) pensare che la polemica eponimica riguardi più gli accademici che Devereux. In un editoriale del 1999 su una rivista psichiatrica on-line Roberto Beneduce scriveva:
«E necessario tollerare la presenza di etnopsichiatrie differenti perché i contesti, i fattori contingenti, le priorità sono determinanti nel definire modelli di lavoro anche assai distanti fra loro. Ciò che fa il proprium di un’etnopsichiatria critica è la consapevolezza che il “culturale” non deve occultare altre dimensioni, non deve trascurare di considerare la posizione e i rapporti di forza degli interlocutori né l’ideologia veicolata da molte categorie diagnostiche (l’etnopsichiatria di Carothers, l’esperto dell’OMS che nel Kenia coloniale lavorava negli anni ‘50, non è ad esempio degna di questo nome)» [7].
L’attribuzione dei nomi. Solite beghe.
Le questioni eponimiche, si sa, tornano periodicamente ad essere messe in discussione. Spesso svelano ragioni speciose o comunque motivi di rivalsa o di protesta. Salvatore Inglese, che già si era occupato del maestro ungherese coevo di de Martino su “I fogli di ORISS”, ha curato per Armando una nuova edizione italiana dei Saggi di etnopsichiatria (2005) [8], facendo seguire alla classica prefazione di Roger Bastide una sua postfazione che è una competente biografia, piena di umanità e di affettuosa partecipazione. Periodizzata in sette sottocapitoletti questa sua scorrevole postfazione titolata Georges Devereux: dietro i nomi, la natura molteplice dell’etnopsichiatria, (tutto un programma), si legge come un romanzo di avventure. Ivi apprendiamo che i vari nomi con cui Devereux definisce la materia che sceglierà di approfondire per tutta la vita, altro non sono se non un tentativo di differenziarsi, sfuggire, sgusciare mimetizzandosi (e come poteva essere altrimenti) dalle etichettature banalizzanti dei colleghi di quella che aveva scelto deliberatamente come seconda patria e nel cui esercito si era arruolato nel 1941 per combattere il nazismo, avendo per destinazione il teatro di guerra cinese. Questo il passo in questione:
«Nel 1946 Devereux adotta per la prima volta il termine etnopsichiatria e ne attribuisce la paternità a Louis Mars, psichiatra e diplomatico haitiano impegnato nella valorizzazione delle etnoscienze dei popoli nativi. In precedenza, aveva delimitato il proprio campo di ricerca con la denominazione di psichiatria transculturale. Sostituisce questa etichetta con etnopsichiatria volendo protestare contro i colleghi americani che impiegavano in modo improprio la sua prima definizione e gli negavano la soddisfazione di esserne riconosciuto come l’inventore. Utilizza talvolta anche espressioni alternative: antropologia psicoanalitica, etnopsicoanalisi, etnopsicopatologia, folk-psychiatry, psichiatria interculturale (cross-cultural), psichiatria metaculturale, psicopatologia culturale.» [9].
Ora la questione è spenta. Sappiamo che Devereux, è già stato ricordato sopra, raffinato e geniale figlio della cultura mitteleuropea – per nulla “intimorito” (anzi) dalla possibilità di poterne macchiare l’immacolata percezione incontrando direttamente quasi tutte le altre culture del pianeta, ma soprattutto cercando di viverle “autenticamente” – fu fin troppo occupato a definire i non facili problemi metodologici della sua ricerca complementarista, che lo impegnarono spasmodicamente dal 1933 (Sedang Field Notes) fino alla morte. Egli non avrebbe certamente rubato del tempo al suo lavoro per tenere a battesimo una semplice terminologia scientifica. Che sia stato padre fondatore, pioniere o epigono dell’etnopsichiatria, della ricerca psichiatrica cross-culturale, della psichiatria transculturale, dell’etnopsicoanalisi o come altrimenti si voglia chiamare questo ambito di studi, credo che poco gli sarebbe importato. Semmai ci sarebbe da domandarsi perché tutta la sua opera e il suo pensiero siano, a tutt’oggi inspiegabilmente così poco divulgati, restando appannaggio di pochi cultori della materia.
Il lavoro accademico con la stessa disinvoltura di quello sul terreno.
«Nel 1963 Georges Devereux (1908-1985) ritorna a Parigi – scrive Salvatore Inglese [10] – per insegnare etnopsichiatria all’École Pratique des Hautes Études. Deve questo incarico all’amicizia sincera, alla stima illimitata e alla mediazione istituzionale di Lévi-Strauss, Bastide e Braudel i quali riportano in Francia un controverso antropologo e psicoanalista, riconoscendolo come il disegnatore più creativo di questa nuova traiettoria disciplinare».
Sotto questo profilo la sua personalità di studioso non conformista e dunque proprio per questo osteggiato dall’establishment accademico, rammenta in qualche modo la vicenda di de Martino di cui s’è detto prima e si apparenta con quella di Michele Risso di cui abbiamo già detto diffusamente altrove [11].
Uomo d’inesauribile versatilità fu estremamente attivo dal punto di vista scientifico. Buona parte della sua opera è raccolta in un libro, con prefazione di Roger Bastide [12], dove sono contenuti quindici saggi che vanno dal 1939 al 1966. Essi nel loro insieme formulano la teoria e i metodi di base dell’etnopsichiatria psicoanalitica. I primi scritti – com’è ricordato nell’introduzione del 1970 – risalgono a quando questa disciplina era in procinto di nascere e mancava non soltanto di un’impalcatura teorica ma anche di un lessico adeguato (i termini tecnici) per comunicare le essenze, i concetti, le interrelazioni dei fenomeni osservati. Fin dal 1970 (nel pieno dell’infuocato dibattito francese tra marxisti e strutturalisti), Devereux segnalava profeticamente e con grande preoccupazione, lo stato catastrofico dell’uomo. Aperto ad ogni confronto e sensibile ad ogni sollecitazione critica, diceva di non aver mai dimenticato il consiglio metodologico del biblista storico francese, il domenicano Joseph Marie Lagrange (1855-1938): “Ho cercato la semplicità pur non fidandomi di essa”. Ma teneva anche in seria considerazione l’esortazione di un Collega che gli suggeriva l’ardito paradosso “Un’epoca delirante esige una teoria delirante”.
La produzione scientifica. Appunti, scritti, diari, libri, speculazioni filosofiche.
Tutti gli scritti di Devereux sono pervasi di lucidissime riflessioni speculative centrate particolarmente sull’incontro con le alterità non occidentali. Gli interrogativi che egli si pone osservando (anzi, vivendole dall’interno) le differenzialità di quei mondi culturali, sono sia di ordine metodologico che di natura dialogica, ma sempre filtrati da un’attenta ed originale lettura (una doppia lettura, a dire il vero) psicodinamica, che ha come punto di riferimento la psicoanalisi.
Come scienza autonoma [13] l’etnopsichiatria ovvero l’etnologia psichiatrica o la psichiatria etnologica (essendo l’etichetta una funzione dell’uso che viene fatto di questa scienza interdisciplinare “pura”) si sforzerà di confrontare e di coordinare i concetti di cultura con il taglio concettuale di “normalità/anormalità”. In primo luogo – sostiene Devereux – essa si deve costituire una precisa area di confine – il locus – la frontiera fra il normale e l’anormale. Gli psichiatri e gli psicopatologi antropofenomenologici potrebbero osservare che Ludwig Binswanger avrebbe usato, per esprimere lo stesso concetto, la categoria del “salvo” e “non salvo”.
In quanto scienza interdisciplinare, l’etnopsichiatria – scrive Devereux nel saggio Normal et Anormal [14] – deve considerare congiuntamente i concetti chiave e i problemi di base sia dell’etnologia che della psichiatria. Essa non saprebbe accontentarsi di mutuare pedissequamente le tecniche d’esplorazione e di spiegazione dall’una e dall’altra di queste due scienze. Al fondamento, vi è una radicale differenza metodologica tra il puro e semplice prendere a prestito delle tecniche e la fecondazione reciproca dei concetti.
Questa, in estrema sintesi, la profonda convinzione (irrinunciabile, indefettibile) e la conclusione ultima cui pervenne Georges Devereux. Questo lo scontro di base (oltre alla visione della psicoanalisi), ma anche il grande insegnamento che il Maestro ha lasciato al suo allievo prediletto: Tobie Nathan (anch’egli di famiglia ebraica, comunità sefardite egiziane).
Le scienze veramente interdisciplinari sono, in effetti, il prodotto di una fecondazione reciproca di concetti chiave che sottendono ciascuna delle scienze costitutive. A questo lucido ragionamento di Devereux si potrebbe aggiungere che i matrimoni esogamici della psichiatria (quello con l’antropologia, con l’etnologia e con la sociologia, per esempio) hanno sempre fruttuosamente generato sontuosi figli meticci.
Note
1. Un tempo fortezza romana, nel XIV secolo sede della Corona, nel XVII occupata dagli Ottomani, nel XVIII dagli Asburgo fino al disfacimento dell’impero Austro-ungarico (1918) in cui passò definitivamente ai Romeni (Trattato di Trianon 1920).
2. Cfr. Piero Coppo, in collaborazione con G. Cardamone e S. Inglese. Etnopsichiatria. Un manuale per capire. Un saggio per comprendere. Due Punti, il Saggiatore, Milano, 1996. Piero Coppo. Tra psiche e cultura. Elementi di etnopsichiatria. Bollati Boringhieri, Torino 2003.
3. Non è escluso che fosse affascinato dai klezmer, i popolari suonatori ambulanti ungheresi, romeni e polacchi. Sensibile alla musica, da bambino non poteva non aver gustato quel particolare sapore delle orchestrine da strada yiddish o klezmer, né restare indifferente agli elementi folclorici delle feste paesane dove si esibivano. Proviamo ad immaginare che l’infanzia di Devereux abbia avuto per colonna sonora questa musica dove si mescolano antiche formule di canto e preghiera ebraiche, toni medievali europei, note arabe, che gli conferisce un sapore affatto particolare. Basi tonali dalla vena gioiosa, solare, apollinea e allo stesso tempo malinconica; irruzioni di ritmicità sfrenate, scintillanti, dionisiache, echi di sentimenti romantici evocati da suoni languidi sui registri di una struggente nostalgia. Questa magia musicale di tradizione ebraico-orientale della mitteleuropa ha educato il suo orecchio, nutrito la sua mente, alimentato le sue emozioni.
4. Per chi fosse interessato ai dettagli, apprendiamo ancora da Coppo (1996) che Devereux – personaggio di straordinaria levatura – è stato etnologo, antropologo, psicoanalista, allievo di Marcel Mauss, Lucien Lévy-Bruhl e Paul Rivet, nonché Fisico a Parigi alla scuola di Madame Curie. Ha lavorato sul campo con gli indiani Hopi in California, nella giungla indocinese con i Sedang Moï e ha vissuto a lungo con gli indiani Mohave del Colorado. Raffinato cultore delle civiltà pre-ellenistiche e del greco antico, fu chiamato a Parigi nel 1962 per insegnare etnopsichiatria presso l’École Pratique des Hautes Études. Quivi conobbe il suo allievo Tobie Nathan e insieme fondarono la Rivista “Ethnopsychiatrica” nel 1978.
5. Georges Devereux. La rinuncia all’identità: difesa contro l’annientamento. Conferenza tenuta alla Società Psicoanalitica di Parigi il 17 novembre 1964. “Revue Française de Psychanalyse”, Tome XXXI, 1, 101-142, 1967. Testo riprodotto (per gentile concessione della Rivista francese) in: “i Fogli di ORISS”, 2000, 13/14, pp. 185-208. (prima parte). Traduzione dal francese e prima redazione italiana curata da Salvatore Inglese.
6. Dal punto di vista del dispositivo teoretico (un vero e proprio assillo, per lui assolutamente prioritario), l’ottica complementarista di Devereux evita l’evoluzione della teoria in un vaso chiuso che, facendone derivare il pensiero, lo conduce ad una involuzione (“entropica”); egli guarda con preoccupazione alla trasformazione di una teoria del reale in uno schema puramente retorico, ancorché raffinato, metafisico e ludico. Il suo complementarismo tiene conto rigorosamente del rendimento decrescente di ogni teoria che pretende di spiegare dei fatti limitandosi invece a rivelarne appena quello che è il suo campo d’indagine. Simili velleità espansioniste – egli ebbe a sostenere – non consolidano un sistema teorico, al contrario lo denaturano e lo diluiscono (Devereux, 1972).
7. Roberto Beneduce. Luoghi e strategie di un’etnopsichiatria critica. © POL.it. The italian on line psychiatric magazine, 1999 area di etno-psichiatria.
8. Georges Devereux. Saggi di etnopsichiatria generale. Nuova edizione italiana a cura di Salvatore Inglese, traduzione di G. Bartolomei. Prefazione di Roger Bastide., postfazione di Salvatore Inglese: “Georges Devereux: dietro i nomi, la natura molteplice dell’etnopsichiatria” Armando Editore, Roma, 2007, pp. 363-391.
9. Salvatore Inglese. Georges Devereux: dietro i nomi, la natura molteplice dell’etnopsichiatria (pp. 363-391), postfazione a Georges Devereux. Saggi di etnopsichiatria generale. Armando Editore, Roma, 2007, p. 363.
10. Ibid., cit., (nota 1, p. 391).
11. si veda POL.it Psychiatry on line Italia. Sergio Mellina. Michele Risso. Lo psichiatra che negli anni ’70 curava gli psicotici gravi e congedava i nevrotici.
12. Devereux G (1970). Essais d’ethnopsychiatrie générale, traduit de l’anglais par Tina Jolas et Henri Gobard. Édition Gallimard, Paris, 1977.
13. Questo insistito richiamo di Devereux all’autonomia dell’etnopsichiatria. non è mai dettato da ruvide intenzioni egemoni, tanto meno accademiche, ma da genuina libertà di espressione e di confronto con tutte le scienze umane.
14. Devereux G. Essais d’ethnopsychiatrie générale, cit., pp. 1 (traduzione mia).
Bibliografia essenziale.
Beneduce R, Collignon R (curatori). Il sorriso della volpe. Ideologie della morte, lutto e depressione in Africa. Liguori, Napoli, 1995.
Cardamone G, Coppo P, Inglese S. L’etnopsichiatria e il suo campo applicativo in Italia. In: Mellina Sergio (curatore) “Medici e Sciamani fratelli separati”, Lombardo, Roma, 1997 pp. 107-15.
Carohters J.C.D. The African Mind in Health and Disease. A Study in Ethnopsychiatrie. WHO Monograph Series No. 17, World Health Organisation, Genève, 1953.
Carohters J.C.D. Psychologie normale et pathologique de l’Africaine. Traduzione dall’inglese di Aubier, OMS, Genève, 1954
Coppo P, Keita A. Médicine traditionnel. Acteurs et itinéraires thérapeutiques. Edizioni E, Trieste, 1990
Coppo P. Etnopsichiatria. Un manuale per capire. Un saggio per riflettere. due punti Il Saggiatore, Milano, 1996.
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Devereux G. Ethnopsychanalyse Complémentariste, Flammarion, Paris, 1972, 1985.
Devereux G. Normale e anormale. Armando, Roma, 1956
Devereux G. Saggi di etnopsichiatria. Armando, Roma, 1978.
Devereux G. Saggi di etnopsichiatria generale. Edizione italiana curata da Salvatore Inglese, traduzione dal francese di G. Bartolomei: Armando Editore, Roma, 2007.
Inglese S. Georges Devereux: dietro i nomi, la natura molteplice dell’etnopsichiatria (pp. 363-391), postfazione a “Georges Devereux. Saggi di etnopsichiatria”. Nuova edizione italiana a cura di Salvatore Inglese. Prefazione di Roger Bastide. Armando, Roma, 2007.
Mellina S. Gente di passaggio. In: Natale Losi (curatore) “Vite altrove. Migrazione e disagio psichico”, Feltrinelli, Milano,
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