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DARWIN TRA I NEUROSCIENZIATI. SULLA TEORIA DI G.M. EDELMAN

8 Ott 18

Di Sergio-Benvenuto
Per anni, in Occidente, i media avevano deciso: tutti siamo la manifestazione diretta del nostro genoma (oggi mi sembra che la passione sia un po’ scemata). Non passava settimana che nelle pagine scientifiche o di cronaca dei nostri giornali non si leggesse che questo o quel ricercatore americano avrebbe finalmente scoperto il gene che determina una qualsiasi cosa siamo e facciamo. Tutto il nostro destino è nei nostri geni. Si è letto in alcuni importanti giornali europei che si era finalmente scoperto il gene dell’infedeltà coniugale…
       Le mode giornalistiche sono spesso una versione derisoria della nottola di Minerva evocata da Hegel, che si leva sempre al tramonto. In effetti, la ricerca biologica più recente sembra andare proprio nel senso opposto, avviando il determinismo genetico al tramonto. L’idea che le nostre vite siano semplicemente l’applicazione – o implementazione, suol dirsi – di un programma genetico è sempre più criticata da più parti in nome di un rinato, fresco e aggressivo radicalismo darwiniano.
 
L’ambiziosissimo Edelman
 
       Nelle neuroscienze, particolarmente significativo è il darwinismo neurale di Gerald M. Edelman (1929-2014). Ha ottenuto nel 1972 il premio Nobel per la fisiologia e la medicina per le sue ricerche sugli anticorpi. Il fatto che un Nobel in immunologia abbia elaborato una teoria neuroscientifica non deve stupire più di tanto: c’è un’affinità tra sistema immunitario e sistema neuronale. E poi i biologi davvero ambiziosi prima o poi si confrontano con le neuroscienze: il cervello umano infatti è l’oggetto fisico più complesso che si possa trovare nell’universo conosciuto. Ed Edelman ha applicato prima allo sviluppo degli anticorpi, poi allo sviluppo del cervello, il principio selezionista, elaborando una Teoria della Selezione dei Gruppi Neuronali (TSGN)[1].
In biologia, si sono confrontati e si confrontano tutt’oggi due tipi di spiegazione antitetici: istruzionista e selezionista. Storicamente le spiegazioni istruzioniste precedono quelle selezioniste, ma tendono a essere soppiantate dalle seconde. Questo è accaduto per l’origine delle specie, per la specificità degli anticorpi, e ora – secondo Edelman – per il funzionamento del cervello. Per l'origine delle specie, in un primo tempo ha prevalso, attraverso Linneo e Buffon, la teoria delle specie come essenze fisse che si autoriproducono; ogni individuo nasce portando lo stampo della propria specie o eidos (forma essenziale), che resta immutata nelle varie generazioni. Questa teoria istruzionista è stata soppiantata dal selezionismo di Darwin.
In immunologia ci si chiedeva: come riesce l’organismo a produrre delle immunoglobine (anticorpi) contro innumerevoli virus e batteri mai incontrati in precedenza? La prima risposta fu istruzionista. Si pensò che l’anticorpo fosse di un unico tipo, che avesse la capacità di plasmarsi prendendo una forma complementare a quella del virus o batterio: in altre parole, la forma di ogni agente invasore istruisce l’anticorpo, imprimendogli una forma specifica. Ma questa ipotesi è stata soppiantata, già a partire dagli anni 50, dalla rivale selezionista: ogni organismo ha a sua disposizione una varietà enorme di anticorpi, e l’agente invasore si limita a selezionare quei pochi che sono in grado di riconoscerlo, stimolandone così la produzione. I vaccini consistono di solito nell’inoculare nell’organismo una varietà non virulenta di agenti invasori: la loro presenza seleziona certi anticorpi la cui produzione viene quindi esaltata, rendendo così l’organismo capace di reagire all’occorrenza all’invasione degli stessi virus o batteri in forma virulenta.
C’è un altro campo, esterno alla biologia, in cui il selezionismo tende a prevalere: la filosofia della scienza. Penso in particolare alle tesi di K. Popper e I. Lakatos. Questa concezione sfata l’idea empirista secondo la quale il progresso scientifico avverrebbe voltando le spalle al mito e alla metafisica, e registrando invece obiettivamente quel che la natura ci dice – un’idea anch’essa istruzionista della conoscenza (la natura istruisce lo scienziato). Invece, senza miti e metafisiche la scienza non potrebbe esistere: quel che conta è che il confronto con i dati disponibili selezioni via via certi miti e metafisiche come quelli più adatti a prevedere i fenomeni. La scienza quindi non va più vista come uno specchio, che diventa col tempo sempre più fedele, della natura, ma come quel che l’esperienza ha via via lasciato vivere delle ipotesi metafisiche a cui gli scienziati fanno appello per interpretare il mondo. Queste ipotesi metafisiche vengono agli scienziati non dall’osservazione, ma dalla loro cultura filosofica, religiosa, politica, estetica, ecc. Insomma, la visione del mondo impostaci dalla scienza moderna è quel che oggi è sopravvissuto e si è riprodotto delle nostre metafisiche, chimere, sogni a occhi aperti, passioni e amori. La scienza non abbandona la metafisica, piuttosto sancisce il successo di una determinata metafisica selezionata per la sua forza predittiva. E in effetti, un secolo fa l’ascesa della meccanica quantistica e della fisica delle particelle ha di fatto promosso una metafisica che risale agli antichi greci: quella atomista. La fisica del Novecento ha sancito il trionfo dell’approccio di Democrito ed Epicuro contro quello di Aristotele. Ma non è detto che le cose non cambino in futuro: l’evoluzione della scienza potrebbe riportare in auge metafisiche ben diverse (ad esempio, la teoria delle corde – string theory – riportava in auge, in opposizione all’atomismo, spiegazioni in termini di cause formali, come le chiamava Aristotele).
 
Il cervello-popolazione
 
La TSGN di Edelman estende alla formazione del cervello – e quindi della nostra mente – la spiegazione selezionista che Darwin applicò all’evoluzione delle specie. Egli è convinto che le reti neuronali si sviluppino nel cervello di ciascuno così come gli animali evolvono nel mondo zoologico: alcuni individui (in questo caso i gruppi neuronali) sono portatori di una differenza casuale, che l’ambiente poi seleziona favorendone la riproduzione.
Questa teoria si basa su tre concetti fondamentali: 1) selezione dei gruppi neuronici, 2) rientro e 3) mappa globale.
Il gruppo neuronico è l’equivalente neurale dell’individuo (fenotipo) nella teoria dell’evoluzione: è il neuro-individuo che verrà selezionato o meno, e che quindi più o meno si riprodurrà. Come gli individui delle specie zoologiche, anche i gruppi neuronali sono impegnati in un’incessante competizione per sopravvivere e riprodursi. Questo processo di selezione delle cellule produce reti anatomiche diverse da individuo a individuo. Insomma, non esistono al mondo due menti umane eguali, nemmeno quelle di due gemelli omozigoti.
Le mappe mettono in relazione i recettori del corpo (come pelle o retina) con i punti corrispondenti sugli strati del cervello: insomma, determinano l’immagine del mondo che il cervello si costruisce. Il punto fondamentale è che queste mappe sono rientranti: siccome le mappe sono tra loro connesse, la selezione che avviene in una mappa comporta selezioni simili in altre mappe. Il rientro permette di collegare fisiologia e psicologia: esso implica in effetti che le nostre esperienze in un dato settore si ripercuotono a vari livelli mentali, cambiando così la nostra categorizzazione del mondo. In altri termini, la nostra esperienza è anche retroattiva: quel che esperiamo al presente rimodella il nostro passato. Ad esempio, la nostra memoria, la quale quindi non è mai del tutto oggettiva, ma sempre rielaborata. Crediamo di ricordare fedelmente certi eventi del passato, ma la storia successiva li deforma e li “armonizza” con la nostra visione attuale del nostro passato.
La mappa globale, infine, è una struttura dinamica composta da mappe locali che interagisce con parti del cervello non organizzate a mappe. Essa varia nel tempo e a seconda del comportamento, ed è responsabile della categorizzazione percettiva dell’animale.
Vediamo ora perché questa teoria dell’evoluzione del cervello – e quindi della mente – ci costringe a modificare le nostre concezioni prevalenti sulla mente, sul sapere e sulla comunicazione tra esseri umani.
 
Rispecchiare o sopravvivere?
 
Darwin si è liberato del concetto antico (aristotelico, scolastico) di specie, portando la sua attenzione unicamente sugli individui – ma sugli individui in quanto portatori di variazioni. Come per altri versi Nietzsche, anche per Darwin conta l’individuo in quanto portatore di differenze rispetto alla massa. Gli individui sono interessanti non solo perché sono replicanti, per così dire, ma anche e soprattutto perché sono mutanti. E cioè, gli individui che classifichiamo nella stessa specie non sono l’implementazione di uno stesso e identico programma. Darwin mostrò che le differenze tra organismi di una stessa specie non sono aberrazioni e irregolarità di una forma fissa e prestabilita, ma anzi sono la condizione fondamentale di ogni evoluzione, cioè della storia della vita: la vita produce differenze – in quanto nella riproduzione si introduce entropia – che vengono via via selezionate dall’ambiente. Così la selezione naturale è una creazione d’ordine a partire dal disordine.
Per un darwiniano “specie” è solo un concetto pratico: un maschio e una femmina appartengono alla stessa specie se, avendo rapporti sessuali, ne viene fuori della prole. Se un cavallo e un asino si accoppiano, ne viene fuori un mulo, ovvero un individuo sterile; da qui la differenza di specie tra equus caballus ed equus asinus. Nella simultaneità sincronica, la specie ci appare come un’identità che si ritrova in tutti i fenotipi di quella specie; ma, vista diacronicamente, essa risulta essere piuttosto un insieme provvisorio di variazioni, linee di fuga, possibilità accennate, di cui solo una piccola parte avrà successo storico.
La selezione biologica è severissima anche in Homo sapiens. Basti pensare che tutti gli italiani che oggi vivono discendono solo dal 5% di coloro che vivevano in Italia nel 1500 – il 95% della popolazione che viveva in Italia allora, si è estinta. Più andiamo indietro nel tempo, più scopriamo che i quasi sette miliardi di esseri umani oggi viventi sono la progenie di una frazione – sempre più infima man mano che si va indietro nel tempo – degli esseri umani che vivevano allora
Così, non esiste veramente una “natura umana” – come non esiste una “natura cavallina” o una “natura gattesca” o altra – proprio perché l’umano è un essere naturale.
Se con Darwin si sfalda il concetto di specie, con Edelman si sfalda un’idea equivalente in psicologia (e in filosofia): quella di categoria. La teoria istruzionista in psicologia viene chiamata anche funzionalismo e oggettivismo. Essa suppone che il mondo sia strutturato in categorie definite, che consistono in entità, proprietà e relazioni tra queste. La mente umana sarebbe quindi lo specchio della struttura categoriale del proprio ambiente: di tutto è possibile dare una definizione secondo i criteri classici di categorizzazione, criteri individualmente necessari e congiuntamente sufficienti per definire ogni categoria. In effetti, secondo la concezione classica, un concetto determina una classe di oggetti: ad esempio, il concetto di “tavolo” determina la classe di tutti i tavoli, passati presenti e futuri. Perché un oggetto cada sotto questo concetto, occorre che soddisfi un certo numero di condizioni necessarie: ad esempio, essere un mobile, avere un piano parallelo al suolo, avere un numero di gambe superiore a due, ecc. Ognuna di queste condizioni è necessaria nel senso che se è assente, l’oggetto non cade sotto questo concetto: ad esempio, se il piano di questo oggetto non è parallelo al suolo ma è inclinato non è un tavolo – magari sarà un leggio. Prese tutte insieme, le condizioni per cui un tavolo è un tavolo sono tra loro sufficienti: se un oggetto soddisfa tutte le condizioni per cui qualcosa è un tavolo, allora è un tavolo. Non conta insomma che l’oggetto in questione sia di legno o di marmo, piccolo o immenso, bianco o rosso, con quattro gambe o con sessantatré gambe, ecc.: tutte queste qualità non sono condizioni necessarie per fare di un oggetto un tavolo. Questi criteri permettono ai nostri concetti e categorie di rispecchiare il mondo: il concetto di tavolo determina precisamente una data categoria reale di oggetti, i tavoli.
Invece per Edelman la nostra mente non rispecchia affatto il mondo. Abbiamo a che fare con una natura “senza etichette”, e le aggregazioni e ripartizioni degli oggetti cambiano a seconda della persona e del momento. Insomma, la nostra mente si misura con il caos:
 
il mondo […] non si può suddividere in categorie fisse e immutabili, ossia in oggetti ed eventi caratterizzabili in termini di condizioni necessarie e sufficienti. Al contrario, il mondo è ambiguo e interpretabile in modi diversi, a seconda delle caratteristiche e delle necessità adattative di ogni organismo. La categorizzazione percettiva e la generalizzazione sono perciò relative a un dato organismo e a un dato ambiente, e hanno luogo tramite un processo di variazione e selezione. Analogamente al ruolo della selezione naturale, la variazione nel sistema nervoso non va concepita come una deviazione irrilevante o erronea rispetto a una categoria tipica, ma costituisce la base per la formazione, tramite la selezione neurale, delle categorie[2].
 
In parole povere: ognuno di noi ha una visione del mondo del tutto diversa da quella di qualsiasi altro, dato che essa si forma in relazione alla propria esperienza. Il darwinismo neurale porta quindi nelle scienze cognitive una ventata di indeterminismo e individualismo. Le cosiddette scienze cognitive sono un insieme disciplinare che oggi raccoglie psicologi, filosofi, socio-psicologi, informatici, matematici, studiosi di Intelligenza Artificiale. Ahimè, il paradigma predominante in queste scienze è ancora istruzionista o funzionalista, e parte dal principio che il cervello funzioni sostanzialmente come una macchina di Turing[3]. Ogni calcolatore digitale funziona come una macchina di Turing, la quale non è una macchina reale ma un modello matematico: essa manipola simboli secondo un insieme definito di regole. Il cervello sarebbe una sorta di hardware, di macchina biologica, che si limiterebbe a far “girare” un software costituito da codici e regole precise (in sostanza, da algoritmi), le quali verrebbero utilizzate per rappresentare e manipolare categorie univoche, in qualche modo predefinite. Tutto quel che devia da queste categorie univoche va considerato rumore di fondo, che un buon cervello-computer deve ridurre al minimo. Secondo questa teoria funzionalista e istruttivista, non è il cervello che pensa ma noi pensiamo con il cervello. Si dà il caso che sia proprio la macchina-cervello a farci da hardware, ma una qualsiasi ferraglia sarebbe andata altrettanto bene.
Secondo il selezionismo, invece, il cervello non ha nulla a che vedere con una macchina di Turing: è piuttosto un processo vivente sempre mutevole, come mutevole è ogni popolazione biologica. Il mondo non è definibile a priori – non è rappresentabile in un programma, in un algoritmo – ma è imprevedibile e ambiguo. E la differenza che poi andrà selezionata – che può apparire rumore – è la condizione di ogni categorizzazione, la quale prevale in quanto è adattativa, cioè in quanto si adegua meglio all’esperienza peculiare dell’individuo.
Per il selezionismo sarebbe ora, quindi, di abbandonare la metafora informativa che ha prevalso, anche in biologia, in questi ultimi decenni. Per molto tempo, l’organismo – e quindi anche la mente – è stato rappresentato come un sistema di scambi di informazioni; il che era coerente con la concezione istruzionista prevalente. Secondo il neo-darwinismo, invece, i segnali sensoriali di cui dispone il sistema nervoso non sono digitali ma analogici, sono ambigui, e in numero non finito; e le transizioni tra stati nel cervello umano sono ampiamente indeterminate. Quindi, più che “informati” noi siamo “selezionati”: alcune nostre disposizioni a pensare sono rinforzate e premiate dal mondo esterno (nel quale ovviamente sono inclusi i nostri simili), altre invece sono lasciate cadere. Oltre la metafora dell’informazione, avanza ora la figura tragica della lotta per la sopravvivenza e la riproduzione. La biologia torna a modelli biologici, dopo aver coltivato a lungo modelli cibernetici.
Ma la TSGN ha ottenuto verifiche empiriche? Oggi nelle neuroscienze – dove si trattano sistemi di complessità inaudita – la verifica empirica assume sempre più la forma della simulazione: occorre costruire dei robot che funzionino secondo i princìpi stabiliti dalla teoria. Se il robot si comporta più o meno come un animale naturale, la teoria è, almeno in parte, corroborata. E’ quel che ha fatto Edelman con le macchine della Famiglia Darwin, apparecchi strutturati secondo i princìpi selezionisti, i quali riescono a imparare dall’esperienza e a modificarsi. I Darwin si dimostrano capaci di molte operazioni mentali animali.
 
Il cervello anarchico
 
La teoria di Edelman piace a coloro (per esempio, agli psicoanalisti) che danno importanza alla storia individuale contro la predeterminazione genetica: non siamo determinati dai nostri geni, siamo piuttosto il prodotto della nostra storia. Il nostro cervello non è la manifestazione fenotipica del nostro genoma, e nemmeno di un programma-mente che esula dalla storia della specie umana, ma il prodotto mai finito di un’evoluzione che va avanti nel corso della nostra stessa vita. Gli sviluppi della nostra mente – e in generale, gli sviluppi del pensiero e della cultura umane – sono quindi ampiamente imprevedibili. In effetti, il nostro cervello non è un’unità ma una popolazione, quindi sottoposto alle trasformazioni a cui le popolazioni animali e vegetali sono sottoposte. E’ una visione “ecologica” della mente. Il che già di per sé dovrebbe gettare dubbi seri su una certa retorica sul Sé coeso, sul senso di identità, ecc. Una cosa è la nostra sensazione di essere identici a noi stessi, altra cosa è la struttura reale della nostra mente, che è piuttosto dis-identitaria.
In effetti, il nostro cervello è privo di un’area esecutiva centrale, di una specie di “stanza dei bottoni” in cui confluirebbero le attività delle altre aree. L’integrazione del nostro cervello si basa solo sul rientro (reenter): la segregazione e l’integrazione delle varie aree corticali coesistono. In termini più filosofici: non esiste in noi un Io centrale, un’istanza super-razionale in cui tutto di noi converga. Ognuno di noi è un’interazione più o meno riuscita e provvisoria di parti. Il nostro cervello è una democrazia orizzontale che funziona bene quando raggiunge una certa coesione, non una dittatura centralizzata. Come si vede, la teoria di Edelman conforta quel che gran parte della psicoanalisi ha cercato di dire.
La teoria di Edelman di fatto porta acqua al mulino delle filosofie dette “relativiste” che contrastano con la concezione tipica dell’Occidente razionalista[4]. Nella tradizione occidentale, conoscere è avere delle immagini delle cose adeguate alle cose stesse, la verità è adaequatio rei et intellectus, adeguazione del discorso alla cosa. L’ideale conoscitivo è essere uno specchio fedele del mondo. Ora, l’approccio di Edelman sostituisce alla metafora-chiave dello specchio un’altra metafora-chiave per descrivere il sapere: quella della popolazione che sopravvive e si riproduce. La nostra conoscenza più che rispecchiare le cose, vi abita, come un animale abita la sua nicchia ecologica. Questo, a prima vista, è stupefacente. Nessuno pensa che degli organismi animali che vivono in una giungla siano una forma di conoscenza di alberi, temperatura, foglie, serpenti, piogge, ecc., che costituiscono il loro ambiente. Ora, nella concezione darwiniana non solo il nostro sapere è parte della nostra vita, ma la vita stessa è una forma di sapere: le forme della vita hanno sempre origine casuale, quelle selezionate dall’ambiente lo abitano, e abitare è il nocciolo del conoscere. Così, il nostro sapere e la nostra cultura sono semplicemente ciò che, tra tante idee, è riuscito a riprodursi, sia nel nostro cervello che in quello degli altri.
      
Comunicazione e malinteso
 
La differenza tra istruzionismo e selezionismo non è solo un’alternativa tra due teorie biologiche, ma investe anche il modo di concepire la comunicazione tra esseri umani. L’istruzionismo è la teoria ideale degli insegnanti: il loro sogno è che la mente dell’allievo venga impregnata da quel che deve apprendere, evitando come la peste il rischio che nella trasmissione avvengano deformazioni del messaggio professorale. I computer realizzano questo sogno: sono gli allievi ideali per i professori – che quando insegnano a computer si chiamano programmatori. I computer vengono perfettamente istruiti dell’algoritmo in cui consiste il programma, e sono in grado di andare avanti da soli. Invece è più duro accettare il selezionismo: questo implica l’idea che ognuno di noi prende quel che può e quel che vuole da quello che gli altri ci comunicano.
Di solito quando leggiamo le recensioni di un nostro libro, abbiamo la netta impressione che tutte queste (comprese le più favorevoli) equivochino sul senso vero della nostra opera. Solo raramente ci sentiamo capiti. Analogamente, i maestri si sentono traditi e fraintesi dai loro allievi, gli educatori non riconoscono negli educati il loro prodotto, e quanto ai nostri ammiratori, ci si chiede se davvero ammirino noi o qualcun altro… Quale vero creatore potrà mai sentirsi davvero gratificato dai propri allievi, seguaci, chiosatori, recensori? Questa delusione nasce dal fatto che continuiamo a pensare il nostro essere-con-gli-altri in termini istruzionisti, non darwiniani.
In realtà, gli input – vale a dire, quello che diciamo e scriviamo – sono, per gli altri, essenzialmente delle perturbazioni. I nostri messaggi non cadono su tabulae rasae, ma su menti che hanno già una storia e una forma. I nostri messaggi hanno successo nella misura in cui gli altri ne selezionano parti in relazione alle loro domande, aspettative, interessi, credenze, priorità, categorie. Il risultato è che ognuno ci capisce cose diverse. Ciò però non deve essere considerato un increscioso fraintendimento, ma parte della dinamica stessa del comunicare. I nostri messaggi sono dispersioni in una popolazione di ciò che abbiamo pensato. I periodici Ritorni al Vero Pensiero (di Aristotele, di Cristo, di Darwin, di Marx, di Freud, di Wittgenstein, ecc.) – di cui alcuni intellettuali si fanno promotori – sono quindi illusioni, spezzate dal risveglio selezionista. Ogni nostra lettura di testi del passato li ricategorizza, quindi li attualizza – l’infedeltà ai nostri maestri è inevitabile, anzi, è la condizione del loro continuare a vivere.
Non mi illudo, so che anche questo articolo non dice a voi lettori quel che esso “dice” a me: di fatto, nel migliore dei casi esso non farà altro che produrre delle perturbazioni, e quindi della modificazioni più o meno estese, nelle vostre menti. Ma saranno le vostre modificazioni, non le mie.
 
 
Solitudini neuronali
 
La teoria di Edelman è radicalmente individualistica: siccome ogni cervello è diverso da ogni altro – perché è il risultato di una storia evolutiva in ogni caso diversa – le nostre categorizzazioni individuali non combaciano. Non esistono due sole intelligenze umane identiche, come non esistono due esseri umani geneticamente identici, tranne i gemelli veri. (Ma persino due gemelli identici – che sono cloni naturali – sviluppano cervelli diversi già nel grembo materno. Si sa che gemelli identici di fatto mostrano personalità alquanto diverse).
Perciò la TSGN di Edelman respinge ogni teoria programmista del cervello e della mente: sia la teoria funzionalista della mente-computer, che la teoria che fa della mente un effetto diretto del programma del genoma. Così come in natura si “inventano” specie del tutto nuove e imprevedibili, analogamente nel mondo neurale si possono inventare categorie e modi di pensare nuovi e imprevedibili.
       Così la memoria risulterà essere niente affatto un deposito di rappresentazioni di oggetti ed eventi del passato, ma un processo dinamico di ricategorizzazione. Come già avevano rilevato gli psicologi della memoria[5], memorizzare non è registrare dati ma ricategorizzare, e selezioniamo tra le esperienze passate quello che ci conviene conservare. In termini più filosofici: ricordare è reinterpretare il passato, dargli una certa forma. Per cui non esiste veramente memoria fedele (se i giudici si ricordassero di questa elementare verità quando ascoltano le testimonianze in tribunale!) E la stessa percezione non è registrazione passiva di segnali visivi, ma selezione di stimoli e focalizzazione su alcuni di essi.
Le teorie programmiste (sia genetiche che cognitiviste) – insinuano i selezionisti – ereditano il modo di pensare teologico: l’idea di un disegno che preesista sia alle specie, meravigliosamente adattate al mondo esterno, sia alle nostre “arti d’arrangiarsi”. Il nostro genoma ha preso il posto delle specie dei filosofi scolastici del Medio Evo. La sola differenza è che mentre nel passato il disegno era opera di Dio, oggi è opera dei geni. Ma non c’è Dio né gene che ci determinino[6]: ognuno di noi è il prodotto di ciò che ha saputo fare del caso, e di ciò che il caso ha saputo fare di lui. Il Caso, eterno fanciullo sovranamente imprevedibile, è la prima divinità della nuova biologia. La seconda divinità è la scelta irreversibile che l’ambiente opera nell’ampio menù dei mutanti.
      
Variazioni sul tema
 
Ma, si dirà, la teoria di Edelman – e di altri teorici a lui affini[7] – non sfocia nel solipsismo? Siccome ogni essere umano categorizza sulla base della propria esperienza, allora come accade che, bene o male, gli esseri umani si intendano tra loro, anche se sempre in un mare di malintesi?
       In effetti, i processi fondamentali dell’evoluzione – variazione, selezione e amplificazione delle differenze – non avvengono in uno spazio di possibilità infinite: essi sono vincolati, e doppiamente. Ogni sistema complesso – sia esso un cervello o una cultura – si evolve a partire dai vincoli della propria storia passata e della propria esperienza. Quindi, le variazioni effettive tra individui sono variazioni su un tema – anche se di tanto in tanto persino il tema può cambiare per pressione degli eventi selettivi. Il tema, a sua volta, non è uno dei tanti temi possibili, ma mantiene la traccia storica di ciò che lo ha costituito. Quindi, le nostre variazioni individuali sono di solito alquanto limitate: il tema comune di cui ognuno di noi è la variazione offre uno sfondo che rende possibile una parziale sintonia tra parlanti. “Parziale” perché da qualche parte si può sempre incontrare la specificità assoluta, che fa ognuno diverso dall’altro. La storia della vita è esposta continuamente all’incomunicabilità, che però è anche la linfa del nuovo. Da qui il criterio (che personalmente uso con profitto): se un autore, un artista, un semplice parlante risulta di primo acchito del tutto incomprensibile, proprio per questo va ascoltato, guardato o letto con la massima attenzione. Certo, può anche darsi che sia un pazzo. O invece proprio da lui o da lei può nascere la mutazione del futuro… magari proprio perché è un pazzo.
       Variazioni sul tema: questo concetto può essere trasportato dal campo neurale a quello culturale. E’ vero che le culture umane non sono esclusivamente darwiniane, appaiono soprattutto lamarckiane – vale a dire, trasmettiamo ai nostri discendenti anche caratteri acquisiti, cioè quello che abbiamo imparato nel corso della vita. Eppure la triade variazione-selezione-amplificazione differenziale può renderci più intelligibile anche la storia culturale dell’umanità.
       Se sono centrali non le identità (individuali o collettive) ma le differenze e le selezioni, allora ogni cultura va vista non come un tutto coeso, ma come un fascio di “temi” di cui ogni individuo è la variazione – potenzialmente una linea di fuga. Anche in società primitive che ci appaiono omogenee e senza storia, comunità armoniche, di fatto ogni individuo porta più o meno una tensione differenziale, una possibilità divergente. Una cultura è come un groviglio complesso di linee centrifughe. La società seleziona solo alcune delle variazioni di cui gli individui sono portatori. Anche l’”individualismo sociologico” (l’idea secondo cui la società non esiste, perché esistono veramente solo gli individui che la compongono) quindi manca l’essenziale: conta l’individuo come mutante, non solo come replicante. Le teorie sociologiche individualiste riducono di solito l’individuo a un replicante, sul modello del consumatore razionale che valuta attentamente il rapporto prezzo/qualità. Se così fosse, la società da tempo avrebbe raggiunto la sua omeostasi, la storia si sarebbe fermata. Invece la storia va avanti – in modi per noi imprevedibili e spesso, anche, tragici – grazie alla variabilità, per quanto infima, di ogni individuo. Una società, una cultura, va vista non solo come un aggregato di individui che interagiscono, e non solo come un insieme di regole e norme che si impone ai suoi membri: ma soprattutto come un fascio di proposte storiche variegate, di cui molte non avranno seguito e altre (poche) verranno selezionate per fare storia.
       Quindi, ciò che consideriamo universale e identico – la mente come rappresentazione, il DNA della specie umana, la logica, l’amore, il senso del bello, ecc. – è il risultato di processi storici, cioè di differenze che sono riuscite a riprodursi. L’identico è tutt’al più l’effetto di una spietata selezione positiva di una differenza. Ma il fatto che certe differenze sono o saranno selezionate implica che altre non lo saranno: lo scacco, l’esclusione, la sterilità, insomma la dimensione fallimentare della vita, appaiono componenti essenziali della cosiddetta identità culturale. Ogni “identità” culturale è disseminata di aborti e di cadaveri. Ogni egemonia porta sempre, con sé, la scia grigia e sporca dell’esclusione.
 
Somiglianze di famiglia
 
       Ma se le variazioni sul tema sono troppo ampie, come riusciamo noi a comunicare in modo tutto sommato soddisfacente? Ad esempio, mettiamo che per me il termine Vienna significhi la capitale dell’Austria, la città di Freud e Wittgenstein, e il Kunsthistorische Museum; per un altro nulla di tutto questo, significa il Luna park al Prater e dove abita la zia Charlotte. I logici dicono che “Vienna” è un insieme polimorfo: due elementi (in questo caso, due diverse immagini mentali di Vienna) possono non avere alcuna caratteristica in comune. Non è quindi un’illusione pensare che due persone con immagini mentali del tutto diverse di Vienna stiano parlando, in fin dei conti, dello stesso “tema”, ovvero della stessa cosa?
       Per rendere conto della comunicazione effettiva, Edelman ricorre al concetto di Wittgenstein di “somiglianze di famiglia”. Scrive Eittgenstein:
 
Vediamo un complicato intreccio di somiglianze [tra giochi] che si sovrappongono e si incrociano tra loro. Somiglianze generali e particolari. […] Non trovo di meglio, per caratterizzare queste somiglianze, della parola ‘affinità di famiglia’; perché è così che si incrociano e si sovrappongono le diverse affinità esistenti tra i membri di una famiglia: statura, tratti del volto, colore degli occhi, portamento, temperamento ecc. Ecc. – Dirò dunque: i “giochi” costituiscono una famiglia.”[8].
 
In effetti, se prendiamo gli elementi di una certa categoria, molti di essi possono essere posti in relazione tra loro anche se alcuni non presentano nessuna delle proprietà che definiscono la categoria comune a tutti nel modo classico – vale a dire criteri individualmente necessari e congiuntamente sufficienti. Notiamo che varie persone con parentela di sangue tra loro possono assomigliarsi per certi tratti, ma è impossibile dire che esista un tratto assolutamente comune a tutti.
 
Pietro e Paolo si somigliano nel profilo, ma non nella mimica. Paolo e Gianni invece si somigliano nella mimica, ma non nel profilo. Pietro e Gianni poi non si somigliano né nel profilo né nella mimica, ma piuttosto nel tono di voce e nella cadenza. Pietro e Paolo e Gianni hanno tutti una somiglianza di famiglia, ma non hanno un unico tratto che sia comune a tutti[9].
 
Accade così che certe categorie possano avere gradi di appartenenza ma non confini netti. Inoltre certe categorie possono avere elementi che sono più rappresentativi (più prototipici) di altri. Quando parliamo di satelliti, il nostro prototipo è la luna – quando in Italia parliamo di religioni, i nostri prototipi sono il giudaismo e il cristianesimo. Ma questo non vuol dire che tutti quelli che chiamiamo satelliti abbiano tutti i tratti della luna, né tutte quelle che chiamiamo religioni assomiglino al giudaismo e al cristianesimo.
       Si è così visto che le categorie di colore, per esempio, non presentano confini netti – ad esempio, alcuni chiamano rosso ciò che altri chiamerebbero arancione o viola. La conoscenza degli elementi di una categoria si struttura spesso intorno a una categoria di base, vale a dire attorno a elementi che si ricordano e si immaginano con più facilità. Si è così visto che per la gente “cavallo” è una categoria di base, ma non “quadrupede”.
Così, ognuno ha immagini mentali di Vienna che possono essere in molti casi comuni con quelle di altri, ma questo non implica affatto che tutte le immagini mentali di Vienna di tutte le persone abbiano almeno un tratto comune. Del resto, si è dimostrato che questo accade persino per i concetti scientifici: di fatto, gli scienziati discutono senza condividere veramente categorie di base comuni. L’antropologo Robert Needham[10] ha mostrato che la maggior parte dei concetti delle scienze umane sono concetti fluidi. Il punto è che qualsiasi concetto, anche del linguaggio comune, è fluido. In effetti, sia nelle conversazioni comuni che in quelle scientifiche non ci rendiamo conto del fatto che il senso dei nostri concetti varia anche all’interno del nostro stesso discorso, proprio perché solo di rado ricorriamo a definizioni coerenti e rigorose dei concetti che usiamo.
       Il richiamo alle rassomiglianze di famiglia mira a confutare il funzionalismo oggettivista nelle scienze cognitive[11]. Un presupposto di questo modello è che il nostro linguaggio è correlato al reale attraverso definizioni complete ed esaustive: ci capiamo quando usiamo il termine “Vienna” perché condividiamo una certa definizione di che cosa sia la città di Vienna. Ma si tratta di una condizione che opera solo in contesti speciali come quelli matematici o logici: nella realtà, condividiamo ben poche definizioni comuni, vale a dire non usiamo categorie le cui condizioni siano individualmente necessarie e congiuntamente sufficienti. Di fatto, ogni volta che parliamo con gli altri – anche con colleghi – brancoliamo nel buio: attraverso milioni di fraintendimenti, solo nel confronto riusciamo a stabilire punti fermi tra noi – il significato dei nostri concetti è il risultato di un’illimitata negoziazione tra noi parlanti. L’idea secondo cui comunicheremmo perfettamente se fossimo in grado di definire rigorosamente i concetti che usiamo è un’illusione che è stata di fatto scardinata.
Del resto ci sono molti concetti che è assolutamente impossibile definire – ad esempio i colori. Come definire “rosso”, ad esempio? Nessuna definizione, per quanto rigorosa (ad esempio, evocando le linee dello spettro solare), del rosso ne darà mai il senso a un cieco dalla nascita. Nel film Children of a Lesser God (1986), William Hurt chiede alla sua ragazza, sorda dalla nascita: “Ma cosa senti, solo silenzio?” Ovviamente la ragazza non risponde, la domanda non è pertinente per lei.
In effetti, noi siamo menti non perché manipoliamo simboli come un computer, ma perché siamo corpi sensibili che vedono colori e distinguono suoni – e ogni nostra sensazione è peculiare. E’ quel che dice Edelman, quando ripete che il nostro pensiero è sempre incorporato: non solo nel senso che pensiamo con una parte del corpo qual è il cervello, ma anche nel senso che è il nostro corpo a dare significato ai nostri pensieri. Il significato nasce quindi dalla nostra concreta interazione con gli altri e con le cose, vale a dire con una serie potenzialmente infinita di eventi senza limiti precisi. Ogni significato – di “rosso”, “quadrupede”, “silenzio”, “Vienna”, ecc. – non può prescindere dal nostro corpo e dalla storia della vita di questo corpo.
Alcuni amano la concezione di Peirce[12], secondo cui il senso di un simbolo è la sua traduzione in altri simboli – una definizione che va bene per un computer, non per una mente umana. Un computer non fa altro che sostituire simboli ad altri simboli, ma non accede al senso né all’intenzionalità[13]. Perché il senso vale solo per esseri che abbiano un corpo vivente e quindi delle esperienze formative. La definizione di Peirce è più un escamotage del problema del significato che la sua soluzione.
Comunque, le immagini mentali di Vienna e del rosso di tutti noi si intersecano in vari modi, e tra tutte queste immagini possiamo cogliere somiglianze di famiglia. Due persone che parlano di “Vienna” possono intendersi perché le loro diverse immagini della città si riferiscono a un orizzonte di esperienze possibili – la Vienna reale – da cui possono attingere esperienze comuni nel futuro. Se si danno appuntamento un giorno alla Südbanhof di Vienna a una certa ora, è molto probabile che si incontrino. Quando comunichiamo, quel che conta non è che i nostri concetti di Vienna collimino: conta che viviamo nella stessa realtà concreta, in modo che i nostri concetti e i nostri corpi da qualche parte si intersechino. I nostri corpi sensibili sono a un tempo la fonte di ogni significato condiviso e di ogni malinteso.
 
 
 

[1] GERALD M. EDELMAN, Il presente ricordato : una teoria biologica della coscienza, Rizzoli, Milano 1991. Topobiologia : introduzione all’embriologia molecolare, Bollati Boringhieri, Torino 1993.Sulla materia della mente, Adelphi, Milano 1993; Darwinismo neurale, Einaudi, Torino 1995.
 
[2] GIULIO TONONI, Prefazione all’edizione italiana di GERALD M. EDELMAN, Darwinismo neurale, cit., p. XXIV.
 
[3] In fondo, sia il genetismo ad oltranza in biologia che il modello funzionalista della mente-computer condividono un atteggiamento anti-storico: ciò che importa è una data struttura che istruisce il vivente o la mente, non il processo attraverso cui il vivente e la mente si costituiscono. Ambedue sono reazioni “fissiste” contro la bomba filosofica costituita dal darwinismo: che la storia della vita e forse anche della cultura è un processo di mutazioni e selezioni.
 
[4] Su questo punto, mi si consenta di rimandare a BENVENUTO, Un cannibale alla nostra mensa, Dedalo, Bari 2000, capp. 6-7.
 
[5] Cfr. FREDERIC C. BARTLETT, La memoria. Studio di psicologia sperimentale e sociale, Angeli, Milano 1974
 
[6] Si veda il bel libro dei biologi francesi JEAN-JACQUES KUPIEC e PIERRE SONIGO, Ni Dieu ni gène, Seuil, Paris 2000.
 
[7] L’approccio anti-funzionalista di Edelman è condiviso da vari autori (psicologi, filosofi, neuroscienziati, linguisti), tra i quali: John Searle, Hilary Putnam, Ruth Garret Millikan, George Lakoff, Mark Johnson, Ronald Langacker, Alan Gauld, Benny Shanon, Claes von Hofsten, Jerome Bruner.
 
[8] LUDWIG WITTGENSTEIN, Philosophische Untersuchungen, Schriften, Frankfurt a.M. 1960, par. 66, p. 324:
 
[9] JUSTUS HARTNACK, Wittgenstein e la filosofia moderna, Il Saggiatore, Milano 1967, p. 81.
 
[10] ROBERT NEEDHAM (Polythetic Classification: Convergence and Consequences, “Man”, 10, 3, 1975, pp. 349-369).
 
[11] La confutazione del modello cognitivo della mente-computer è sviluppata dallo stesso Edelman: Sulla materia della mente, cit., “Post Scriptum critico”, pp. 327-390. Sulla discussione attorno al cognitivismo, cfr. SERGIO BENVENUTO, Il cervello e il computer, “Lettera Internazionale”, 56, 2o trimestre 1998, pp. 37-9.
 
[12] CHARLES S. PEIRCE, Collected Papers, Harvard Univ. Press, Cambridge 1948, vol. 5.
 
[13] Su questo punto, vedi la critica al modello della mente-computer in JOHN R. SEARLE, "Menti, cervelli e programmi" in D.R. Hofstadter, D.C. Dennett, a cura di, L'io della mente, Adelphi, Milano 1985, pp. 341-360. SEARLE, "L'analogia cervello/computer: un errore filosofico", in G. Giorello e P. Strata, a cura di, L'automa spirituale. Menti, cervelli e computer, Laterza, Bari 1991, pp. 201-2.
 

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