Avvertiti del rischio della fascinazione narcisistica che il talento di Niccolò Paganini può indurre, qualora l’ascolto della sua musica avvenga con una modalità romanticheggiante che indulga alla facile, ma sostanzialmente falsa e consolatoria equazione “arte-follia”, vale la pena soffermarsi, pur traghettati dal possente medium compositivo ed esecutivo, sulla sofferenza esistenziale che la sua musica direttamente rappresenta e indirettamente evoca.
È fuorviante parlare di arte psicopatologica, perché si darebbero per scontate correlazioni specifiche tra arte e psicopatologia che in realtà sono indimostrate e forse indimostrabili; è invece possibile individuare alcuni nessi tra la produzione artistica, la capacità espressiva, la manifestazione morbosa dell’artista e il suo habitat, evitando però ogni possibile conclusione automatica e generalizzante.
Vi sono artisti che hanno vissuto il deterioramento delle capacità creativo-comunicative e lo scadimento delle qualità formali della propria opera proprio con l’approssimarsi delle manifestazioni sintomatiche di un quadro psicopatologico ed altri, come per esempio Vincent Van Gogh, che invece hanno esaltato in occasione di crisi psicotiche la propria immensa espressività pittorica. Soltanto evitando la trappola del luogo comune costituito dal binomio ottocentesco “genio e follia”, è possibile accostarsi laicamente al talento compositivo e al rivoluzionario piglio esecutivo di quel funambolo del violino che è stato Paganini, alla delicata e ariosa alchimia che si genera tra ritmo, melodia e armonia, alla eccezionale cantabilità della sua musica, fino a quel momento sconosciuta e impensata, ma da quel momento diventata creativamente componibile, magistralmente eseguibile e magicamente ascoltabile, apprezzandone il valore artistico, traendone godimento estetico ed emozionale, ma anche inserendola nella sua convulsa biografia.
Il piacere dell’ascolto allora si confronta conflittualmente con la conoscenza dei meccanismi psichici, delle vicissitudini esistenziali e relazionali che hanno favorito lo svilupparsi di alcune individuate e specifiche modalità espressive e comunicative rispetto ad altre che, invece, sono rimaste sullo sfondo.
La comprensione diventa più ricca se l’accostamento all’ascolto dell’opera del celebre musicista viene ad essere in contemporanea sufficientemente ingenuo per lasciarsi catturare da suoni che testimoniano una vivida creatività artistica e una appassionata visionarietà esecutiva e che sollecitano un labirinto di percezioni, emozioni, risonanze interiori, stati d’animo stabili o passeggeri, commossi o esaltati, e sufficientemente “smaliziato” da tenere conto delle determinanti storico-sociali che, intrecciandosi con la singola storia individuale, hanno contribuito alla costruzione di quello specifico linguaggio musicale, di quello stile unico, di quella affascinante modalità espressiva, di quella innovativa tecnica esecutiva, che fu molto apprezzata dall’amico Gioacchino Rossini fin dai primi ascolti e che fece affermare a Franz Schubert piangente “durante l’adagio ho sentito cantare un angelo”.
La musica è un’arte uditiva e l’esperienza dell’ascolto non prescinde mai, per sua natura, dalla sensibilità dell’ascoltatore della musica, dalla sua disponibilità a lasciarsi prendere dall’oggetto in cui l’attività creativa dell’artista si è esplicata, a lasciarsene penetrare per ampliare le sue facoltà oniriche e ad arricchirsene in una sorta di trasformazione identificativa, a farlo proprio nel senso di permettergli di evocare anche parti ignote o dimenticate di sé, a renderlo operante in un’espansione dello spazio interiore in cui l’esperienza del bello non escluda quella dell’inquietante. Franz Liszt, dopo avere ascoltato Paganini a Parigi, si disse sconvolto da quante gioie e quanti dolori uscissero dalle misere quattro corde del suo violino. Pierre Boulez (2005) scrive che il musicista esplora un’economia estrema di mezzi, esprimendo cioè il massimo con il minimo.
Il possedere una funzione terapeutica è una caratteristica antropologica universale dell’arte e della musica in particolare, e questo vale sia per chi attiva dentro di sé i processi creativi e comunica simbolicamente aspetti della sua vita mentale attraverso le forme sonore, sia per chi fruisce del prodotto artistico – nel caso di Paganini della composizione e dell’esecuzione al violino – il pubblico, tutti noi.
ALCUNI TRATTI DELLA PERSONALITÀ DI PAGANINI
Niccolò Paganini fu talentuoso, istrionico, anticonformista, amante degli eccessi fino al raggiungimento di stati di accesa eccitazione ipomaniacale, ma anche fragile, insicuro, sofferente, a tratti abulico, fino ad arrivare a veri e propri stati di tormentata cupezza depressiva (dal 1821 al 1824, per esempio, interruppe quasi totalmente ogni attività concertistica). Fu gravemente ipocondriaco, talmente ossessionato dalle malattie da sottoporsi a trattamenti medici o pseudo-medici tanto pericolosi quanto inefficaci. Beveva purghe in dosi massicce e si faceva applicare le sanguisughe; quel che è peggio, assumeva mercurio per “curare” la sifilide contratta da giovane, una terapia che oggi sappiamo essere velenosa e che, tra l’altro, gli fece perdere tutti i denti, alterando definitivamente i suoi tratti fisionomici. Nei suoi ultimi anni fu affetto da disfonia fino a diventare completamente afono a causa dell’insorgenza di gravi disturbi laringei che peggiorarono bruscamente e fu costretto a comunicare con il mondo per iscritto e attraverso la mediazione delle parole del figlio.
Così lo descrive Arturo Codignola (1935, in Carcassi, 2002, p. 27), sottolineando alcuni sue caratteristiche improntate alla contraddizione e all’ambivalenza:
“Umile e orgoglioso, ingenuo e sarcastico, prodigo e avaro, condiscendente e caparbio, spregiudicato e credente, rude e sensibile, ordinato ed impenitente disordinato”.
Non è infrequente trovare caratteristiche così polarizzate nei musicisti, per esempio Pierre Boulez (2014, p. 79) evidenzia l’inverosimile volgarità dell’eloquio del giovane Mozart, ma scrive:
“Non si può limitare Mozart al suo vocabolario […] L’importante è sapere che ha trasceso questo aspetto per elevarsi a un livello completamente diverso”.
Ugo Carcassi (Ibid.) aggiunge:
“Secondo la dottrina della Scuola Costituzionalistica italiana, attualmente superata ma non priva di interesse, Paganini era il tipo longilineo classico con una eccedenza della lunghezza sulla larghezza; snello, con arti sottili e dita, pure, assottigliate, magro angoloso, viso asciutto, lineamenti marcati, naso allungato, torace cilindrico, spalle cadenti. Il temperamento del longilineo schizoide, cioè dissociato, con un carattere tutto sbalzi e contraddizioni, freddo ed ipersensibile insieme, privo di affetti ed esaltato, capace di isolarsi dall’ambiente e di perdere ogni contatto con esso”.
Paganini scrive all’amico Luigi Guglielmo Germi il 10 Gennaio 1829 (Neall, 1982, p. 115):
“Se tu sapessi quanti nemici suscitano contro di me non lo crederesti. Io non faccio mai male a nessuno, ma chi non mi conosce mi dipinge per l’uomo il più scellerato, avaro, esoso, ecc., ed io per vendicarmi protesto d’incanire (rincarare) vieppiù il biglietto d’ingresso alle Accademie”.
Sembra emergere da queste annotazioni la presenza di tratti distimici con vissuti genericamente di accerchiamento invidioso che certamente non si configurano come un quadro paranoico strutturato, ma che saranno presenti con diversi livelli di intensità in diverse fasi dell’esistenza del grande violinista. Fu, per esempio, il terrore del plagio una delle ragioni all’origine della scarsissima pubblicazione delle sue opere[1].
I neri capelli lunghi e scarmigliati, i denti mancanti, l’imponente naso aquilino, che spiccava sul viso pallido e ossuto, gli conferivano un aspetto tenebroso. Magrissimo e cupo, esaltava questi caratteri vestendosi di scuro e portando occhiali dalle lenti blu. La leggendaria costruzione del personaggio misterioso e diabolico sul palcoscenico, “trascinatore per mondi sentimentali e meravigliosi” (Grisley, 2006, p. 12), potrebbe portare all’errata conclusione che la sua fama fosse dovuta più all’immagine e al virtuosismo che al talento musicale, ma ciò sarebbe errato perché, come ci ricorda il suo omonimo Niccolò Paganini (2014, p. 6): “Paganini fu un veicolo straordinario del passaggio dal classicismo al romanticismo, il suo virtuosismo non era più fine a se stesso, ma parte integrante di una nuova struttura armonica”.
Le sue composizioni, per esempio i noti “Capricci”, tutti scritti precedentemente al 1817 e mai eseguiti in pubblico, sono originali e profondamente poetiche, anche se poco eseguite a causa delle notevoli difficoltà di esecuzione. Ricordo anche l'opera eseguita con violino e orchestra chiamata "Moto Perpetuo", che fu proposta a Parigi nel 1832 ad una velocità tale per cui bisognava suonare ben 12 note al secondo. Anche nella costruzione di queste opere si può rilevare una vocazione per la sfida al limite delle possibilità del suonatore e dello strumento, che può essere sostenuta dall’eccitazione euforica, se non in alcuni momenti dall’ipomaniacalità; però, a differenza di quanto avviene per tanti distimici, l’euforia, lo stato ipomaniacale in Paganini non portano a soluzioni economicamente svantaggiose, ma anzi vengono valorizzate e messe al servizio del talento creativo ed esecutivo. Ha scritto di lui Ludwig Rellstab:
“Paganini è l’incarnazione del desiderio, dello sdegno, della pazzia e del dolore”.
Nei concerti Paganini spesso improvvisava grazie a uno straordinario orecchio musicale; era velocissimo; compiva salti melodici di diverse ottave; eseguiva lunghi passi con accordi che coprivano tutte e quattro le corde; alternava velocemente note eseguite con l’arco con lo staccato gettato, che consiste nel lasciar cadere l’arco sulle corde ed eseguire intere figurazioni di rimbalzo. Fu rimarchevole la sua abilità nei pizzicati sia nella mano destra sia in quella sinistra.
Il violino di Paganini conferma la teoria secondo la quale gli strumenti musicali sono stati inventati dall’uomo come “protesi” della voce umana, per estenderne i registri e l’intensità, in questo caso, fino a raggiungere vette inaudite.
Scrive Marco Pedrazzini (2014, p. 44):
“L’alternanza di colpi d’arco, di armonici, di pizzicati con entrambe le mani connota timbricamente le composizioni tanto quanto l’introduzione di schemi formali tradizionali. Sembra cioè che la forma stessa derivi dal suono e che l’elemento tecnico non sia che l’esplorazione di nuove possibilità timbriche. L’elemento gestuale non ha una componente solo scenica ma anche sonora: a ogni movimento corrisponde un colore”.
La tecnica violinistica era portata allo spasimo e le sue violente esecuzioni finivano quasi sempre con la volontaria e progressiva rottura delle corde e la conclusione del concerto sull’unica corda superstite, quella di sol. Paganini finiva stremato con i polpastrelli sanguinanti.
Il chirurgo della mano savonese Renzo Mantero (1989) sosteneva che le sue straordinarie capacità esecutive fossero state probabilmente esaltate da una rara malattia, la sindrome di Marfan, che altera il tessuto connettivo e compromette vari apparati dell’organismo, tra cui lo scheletro[2], aggiungendo però che la mano è l’espressione esterna del cervello e, quindi, ne discende che sarebbe riduttivo attribuire la bravura di Paganini a una predisposizione e che non basta avere una sindrome connettivale lassa per diventare un Paganini.
Le descrizioni di Paganini all’opera con il suo violino riferiscono di braccia lunghissime, mani con lunghe dita affusolate e piedi sproporzionati che muoveva al ritmo della musica, contorcendo l’esile corpo in pose impossibili al limite del marionettistico.
Scrive Pietro Berri (in Monti, 1982, p. 217):
“Probabilmente quando suona impegna tutto il corpo ed egli è molto debole”.
Seppe fare di necessità virtù; utilizzò a suo beneficio le caratteristiche anatomiche dovute alla patologia di cui era affetto, per sviluppare da autodidatta una propria tecnica assolutamente originale e raggiunse livelli di virtuosismo incomparabili aggiungendo un estenuante allenamento quotidiano, arrivando a studiare 10-12 ore al giorno e sfidando in tal modo la resistenza umana per rendere le dita sempre più flessibili ed elastiche onde ottenere esecuzioni alla maggioranza dei violinisti interdette.
Italo Calvino (1988, p. 17) severamente sottolinea il valore della determinazione nell’acquisizione del talento quando scrive che “la leggerezza si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso”.
Paganini scrive di sé:
“Componevo della musica difficile esercitandomi continuamente nelle difficoltà di mia invenzione, difficoltà delle quali mi resi padrone”[3].
È interessante quanto scrive il laringologo e foniatra Francesco Bennati (1831, in Carcassi, 2002, p. 68):
“Sistema nervoso e pelle tanto armonizzano tra loro che il piacere nell’udire la musica, o il profondo sentimento che ne ha nell’atto che egli stesso la trae dal suo violino, sì lo commuove da andarne tutto il suo corpo piacevolmente irrorato”.
IL RAPPORTO CON I GENITORI
Terzogenito di sei fratelli, nacque il 27 ottobre 1782 in Vico Fosse del Colle, detto anche Passo di Gatta Mora; si trattava di un tipico tortuoso caruggio di Genova. La sua casa fu demolita, nonostante la resistenza di alcuni cittadini, nella mostruosa speculazione edilizia a Madre di Dio tra il 1969 e il 1973. La madre Teresa Bocciardo si occupava dei figli, mentre il padre Francesco Antonio sbarcava il lunario facendo il “ligaballe”, cioè preparando gli imballaggi per il porto.
L’infanzia non fu delle più felici. Il padre, appassionato di musica, a suon di botte e di privazioni obbligò Niccolò ad esercitarsi inizialmente con il mandolino e poi con il violino, chiudendolo a chiave in una stanza anche per dodici ore consecutive perché studiasse senza distrazioni. Il ragazzino, seppure gracile e macilento a causa degli esiti di malattie esantematiche[4] che, come scrive in un rapporto del 1831 il dottor Bennati (in Neill, 1990), ebbero una parte importante nella fragilità del suo sistema nervoso, mostrava un talento fuori del comune.
“Mi costringeva con la fame”, dirà in seguito Paganini del padre, aggiungendo che tale regime di privazioni era inutile considerando il grande talento e la natura di autodidatta di cui era dotato. Il regime di studi severissimo e coatto, a cui Antonio, che nelle lettere non a caso viene scarsamente nominato, assoggettava il figlio, ha guastato per sempre il rapporto affettivo con il bambino, mentre sono andati rafforzandosi i sentimenti di Niccolò verso la madre.
Teresa Bocciardo, amante anche lei della musica, dotata di una bella voce, coltivava grandi aspettative circa il futuro artistico di Niccolò. Si dice che in un sogno la signora Teresa ebbe una strana premonizione.
Dall’Autobiografia:
“Il Salvatore venne in sogno a sua madre, dicendole che gli domandasse qualche grazia e ella chiese che suo figlio diventasse gran suonatore di violino”.
In una lettera di Teresa a Niccolò del 21 luglio 1828 si può leggere:
“Il sogno si è verificato, quello che Dio mi disse è succeduto, il vostro nome è grande...”[5].
Le grandiose aspettative materne hanno probabilmente favorito lo sviluppo di un senso di superiorità nei confronti del padre, la cui figura è stata svalorizzata, e hanno alimentato fantasie di sostituzione, rendendo sempre più salda la complicità con la madre, di cui sempre si occupò al meglio delle sue possibilità affettive ed economiche con modalità sproporzionatamente intense, in un certo senso erotizzate.
In un’altra lettera alla madre del 28 Novembre 1816 si legge: “Sono pronto a sborsare qualunque somma, se occorrerà, e conducetevi pure come a voi piace. …Io sono allegro, ma lo sarò ancora di più se vi tratterete bene a tavola; desidero vi compriate del buon vino del Monferrato, e vi cibiate di buone bevande e fate stare tutti allegri in famiglia, altrimenti sarò malcontento” (Neill, 1982, p. 18).
La triangolazione edipica è stata ulteriormente sostenuta dall’oggettiva e riconosciuta funzione di capofamiglia e di sostegno economico per tutti i parenti.
Paganini ha dovuto primeggiare a qualunque costo per essere all’altezza della grandiosa idealizzazione materna e dell’enorme proiezione narcisistica paterna. È verosimile che abbia cercato di neutralizzare sentimenti di inadeguatezza, impotenza e inferiorità, rinforzati anche dalle gravi malattie infantili che lo avevano fortemente debilitato tanto fisicamente quanto psichicamente, attraverso la dilatazione del protagonismo in scena che ha ulteriormente amplificato il successo dovuto all’abilità esecutiva. L’istrionismo e il virtuosismo gli hanno permesso di ottenere un ruolo sociale preminente che lo ha spinto a sentirsi superiore, speciale, ammirato e potente. La modalità relazionale che ha contraddistinto i rapporti tra il ragazzo e i suoi genitori ha condotto a una vulnerabilità con difese di tipo narcisistico che hanno comportato rappresentazioni irrealistiche di sé faticose da sostenere e, quindi, hanno condotto a instabilità dell’autostima, con sentimenti sotterranei di inferiorità, deprivazione e vergogna e con il desiderio inappagabile di raggiungere e mantenere un senso di unicità e superiorità (Schinaia, 2001, 2010).
Ecco quanto Paganini disse a Julius Max Schottky:
“Come uomo, il quale ha trascorso una vita movimentata e spesso tempestosa, debbo confessare che la mia giovinezza non fu immune dagli errori di tutti i giovani, i quali, avendo trascorso lungo tempo pressoché schiavi, si trovano improvvisamente liberi di ogni freno e abbandonati a se stessi, e allora dopo una lunga privazione vogliono accumulare piacere a piacere. Il mio talento trovava da ogni parte un riconoscimento straordinario, troppo grande in verità per un uomo giovane e ardente” (In Carcassi, 2002, p. 43).
Parlando della “liberazione” dal giogo paterno, affermò inoltre:
“Quando finalmente fui padrone di me stesso, mi buttai a capofitto nei piaceri della vita e li bevvi a grandi sorsate”.
Iniziò presto ad esibirsi nelle chiese di Genova e proprio l’immediato successo non gli permise di vivere spensieratamente la propria infanzia, dovendo sempre migliorarsi nelle frequenti esibizioni pubbliche, anche se talvolta usò della sua maestria esecutiva per rivelare tratti infantili repressi, come quando un giorno, durante la messa, sostituì le melodie sacre con i versi degli animali, perfettamente riprodotti con il fedele strumento a corda.
Si può dire che l’investimento narcisistico di entrambi i genitori, seppure con caratteristiche affatto differenti, ha fortemente influenzato il carattere di Niccolò, portandolo sia ad atteggiamenti trasgressivi ed anticonformistici, sia all’esaltazione fino allo spasimo, all’exploit maniacale, di quelle qualità dal padre intraviste, ma prematuramente sollecitate bruciando le tappe dello sviluppo psico-emotivo del bambino, a cui in un certo senso è stata sottratta l’infanzia per accedere ad una pseudo-condizione adulta (una storia simile di un rapporto con un padre padrone è raccontata dal tennista André Agassi nel libro Open). Se in un certo senso Paganini si è identificato con l’ideale grandioso dei suoi genitori, diventando anche più grande di quanto loro avrebbero potuto desiderare e immaginare, le caratteristiche istrioniche, l’amore per il gioco d’azzardo e, come vedremo, l’atteggiamento morbosamente seduttivo verso ragazze molto giovani, a cui faceva da contrappunto l’accompagnarsi a donne mature e sposate, in un certo senso materne, ma anche il rapporto diventato pressoché simbiotico con il figlio Achille, possono essere il risultato di un’infanzia negata e quindi successivamente ricercata e dislocata in relazioni di volta in volta oppositive, o perverse, o riparative, o richiedenti affetto protettivo.
La relazione tra un genitore e un figlio, allontanandosi da ogni idealizzazione, dovrebbe dipanarsi in una continua e feconda oscillazione tra i poli dell’autenticità e dell’inautenticità, della creatività e della ripetitività, della dialogicità e del potere, della seduzione e della scoperta di sé. (Lampignano, 2000). Lo slittamento verso una di queste polarità porta a uno sbilanciamento e, talvolta, a un pervertimento della relazione, che acquisisce connotazioni che la trasformano e la deformano. L’asimmetria rispetto all’esperienza e all’autorità e, quindi, al potere non può essere negata o rimossa, ma è soltanto una delle costituenti della relazione tra padre e figlio ed entra in oscillazione con la relazione tra madre e figlio, in cui prevale la tendenza alla simmetria, all’unisono, alla magica intesa, per cui l’uno realizza il desiderio dell’altro nell’essere proprio lì dove l’altro si aspetta. Soltanto considerando l’insieme degli universi relazionali in cui il rapporto tra genitori e figli si struttura, e anche si lacera, è possibile fornire una descrizione che non sia parziale. Ogni relazione tra genitori e figlio contiene in sé il rischio dell'investimento narcisistico da un lato e dell'idealizzazione acritica dall'altro. I genitori, confortati dalla potenzialità pura del gesto infantile, vedono nel figlio loro stessi idealizzati, il loro completamento narcisistico, e tendono a porre in lui ogni speranza di superamento dei propri limiti con vissuti risarcitori proiettati nel figlio. I rapporti possono diventare simbiotici, privi di ogni spazio dialogico, dove l'altro, il bambino non esiste come soggetto, ma solo come un oggetto, come proiezione del sé ideale dei genitori, come loro estrema propaggine.
IL RAPPORTO CON LE GIOVANI DONNE
Paganini fu attratto da donne generalmente molto giovani, con cui ebbe prevalentemente rapporti tumultuosi, ma non disdegnò relazioni con donne mature e potenti. Nel 1805 il ventitreenne Paganini conobbe a Lucca la tredicenne Eleonora Quilici, a cui impartì lezioni di musica e forse non si trattò di amore platonico. Nel 1815 venne arrestato a Genova per avere sedotto, una giovane fanciulla, Angela Cavanna, detta Angelina, che Nicolò portò con sé a Parma per una convivenza more uxorio. Angela Cavanna restò incinta e, dopo essersi allontanata da lui, partorì un feto morto di sesso femminile. Ne nacque una vertenza giudiziaria con una denuncia da parte del padre di Angelina per “ratto e seduzione di minore” che gli costò l’arresto a Genova e, per chiudere la penosa vicenda, Paganini versò ai Cavanna, una consistente somma di denaro, che aumentò ulteriormente in quanto un suo successivo ricorso fu respinto. Nel 1818 chiese in sposa a Torino una giovane di religione protestante. Successivamente ebbe a Piacenza una rapporto sessuale con un’educanda presso le monache. Quindi a Bologna bramava per le grazie di Marina Banti, un’altra fanciulla. Nel 1821 si innamorò a Napoli della diciottenne Angelica Catalani “bella come un angelo”. E poi di Carolina Bancheri. Nel 1933 intraprese una relazione a Londra con la diciottenne Charlotte Watson e fu accusato dalla stampa di averla sottratta alla potestà del padre. Anche in questo caso fu costretto a tacitare la famiglia della ragazza con il denaro. Più volte nelle lettere a Luigi Guglielmo Germi, suo carissimo amico, consigliere e amministratore, Paganini ha messo in evidenza le capacità seduttive delle ragazze, il prevalere del loro interesse al suo prestigioso personaggio e alla sua notevole ricchezza, la loro mancanza di autenticità. Sembra essere una difesa ad oltranza dal genere femminile che non tiene conto dello squilibrio, dell’asimmetria nella relazione affettivo-sessuale instaurata con le giovani e che sembra cieca nei riguardi delle sue proprie capacità seduttive, della sua volubilità, dell’instabilità oggettuale che gli impediva di stringere legami duraturi, per cui velocissimamente trasformava intense passioni in fugaci storie e, quindi, in subitanei abbandoni. Nelle sue lettere è possibile verificare la contrazione temporale dei suoi innamoramenti, la capricciosità e la fatuità dell’investimento affettivo, la cui stabilità è necessaria in ogni relazione oggettuale che si voglia significativa.
Il 25 Luglio 1815 in una lettera a Pietro Germi definiva dubbia la condotta di Angela Cavanna e scriveva:
“Una figlia che viveva con molta libertà prima di conoscermi, che abbandona volontariamente il padre, non merita tutta la fede” (Neill, 1982, p. 14).
Il 31 gennaio 1818 scrive ancora Germi:
“Quasi tutte le donne sono dotate di una certa dose di finzione […] ma ben di rado trovai riunite in una persona la grazia e la modestia, la semplicità e l’astutezza, il sentimento e l’insensibilità, il volto angelico con un cuore infernale”.
Sappiamo che ai tempi di Paganini erano frequenti e socialmente accettati i rapporti e i matrimoni con donne minorenni. Oggi, anche dopo lo scandalo Weinstein e le denunce di molte giovani donne che hanno subito molestie sessuali, le affermazioni svalorizzanti di Paganini sarebbero come minimo fortemente censurate.
Sarebbe limitativo descrivere soltanto i rapporti con giovani donne; Paganini ebbe relazioni anche con donne mature e non di rado potenti, fra cui Dida, una dama di corte a Lucca della Duchessa Elisa Bonaparte, sorella di Napoleone, con la quale anche ebbe una lunga e intensa storia e a Torino Paolina Borghese Bonaparte, altra sorella di Napoleone. È l’altra faccia della medaglia dell’infanzia negata. Se le giovani donne rappresentavano l’inversione del potere: da bambino costretto alla sottomissione, Paganini diventava colui che sottometteva seduttivamente le ragazze, le donne mature e potenti gli hanno permesso di dare spazio, seppure ammantate dalla seduzione, a istanze infantili di protezione e contenimento di un Io altrimenti incontenibile.
Nonostante i suoi successi amorosi, si sentiva perseguitato (ma anche narcisisticamente lusingato) dall’ammirazione delle donne e il 18 Agosto 1818 scriveva ancora al Germi:
“Molte donne si proporrebbero di pretendere e sul mio cuore e sulle mie finanze… dovevo detestarle il primo momento”.
Quindi il 20 Agosto:
“Credo che non disapproverete la risoluzione fatta da qualche tempo di mandare al diavolo quante donne ho conosciute, perché non attendono che alla mia distruzione” (Ibid., pp. 30-31).
“La libertà è il maggior bene dell’uomo”, scriveva il 31 Gennaio 1820 (Ibid., p. 46).
Quell’aura vagamente paranoica, che avevamo intravisto in precedenza nel celebre ed invidiato violinista, sembra fare capolino anche nella sua vita sentimentale.
IL RAPPORTO CON IL FIGLIO
La tormentata relazione con la cantante Antonia Bianchi, descritta sostanzialmente come un’isterica, cominciata nel 1824, gli procurò una delle più grandi gioie della vita: l’unico figlio Achille. Venuto alla luce a Palermo nel 1825, tre anni dopo il piccolo venne abbandonato dalla madre e Paganini, dopo averne pagato l’affido, ottenne la sua legittimazione nel 1837 dallo stato sabaudo e si occupò di lui con dedizione e amore incondizionati, vedendo ricambiato il suo affetto anche nei momenti più difficili. La relazione con Achille che, tra l’altro, divenne l’assistente traduttore e interprete del padre afono perché era l’unico capace di leggerne il labiale, incise molto positivamente sul suo assetto psicologico, in un certo senso equilibrandolo. Achille, alla morte del padre, si dedicò al riordino e alla pubblicazione delle sue opere.
Paganini scrive a Germi il 12 Aprile 1833: “Egli è la mia consolazione. Quando mi prende la mia fiera tosse, questo caro fanciullo si sveglia, mi soccorre, mi conforta con un sentimento inesprimibile: il Cielo me lo conservi” (Neall, 1882, pp. 164-165). Nella lettera al figlio (Liverpool, 6 maggio, 1834) scrive: “Questi pochi giorni lontano da te mi sembrano dieci anni. Nel lasciarti lo sa il Cielo se ho provato pena! Ma conoscendo la tua delicata complessione, ho sacrificato il piacere di averti in mia compagnia in questo disastroso viaggio…Non passa giorno ch’io non pensi a te, e ti parlo, e ti bacio. Domenica sera avrò il contento di abbracciarti in persona e dirti tante cose che per troppo sentimento non potrei esternartela con la penna” (Ibid., pp. 173-174).
Quell’infanzia negata, quella mancanza di attenzione nei riguardi dei bisogni del bambino prima e poi dell’adolescente, narcisisticamente vissuto come completamento dei genitori, che aveva caratterizzato la prima parte della sua vita, quell’ombra dell’oggetto perduto fu trasformata riparativamente e luminosamente nel riconoscimento dei bisogni di Achille, vissuto come soggetto autonomo e bisognoso di cure e di affetto e non come una propaggine del proprio Sé. L’autenticità relazionale che caratterizzò il rapporto padre-figlio creò le condizioni per l’attenzione, la dedizione fino all’abnegazione, con cui, a sua volta, Achille riuscì ad occuparsi del padre, prendendosene cura come di un bambino. Paganini morì a Nizza il 27 maggio 1840, a quasi 58 anni tra le braccia di Achille probabilmente per una grave emottisi.
CONCLUSIONI
È necessario sottolineare che non esiste una correlazione automatica, meccanica tra storia infantile e condizione psicopatologica. La costruzione-ricostruzione delle vicende interne delle singole storie personali, quando è possibile, lascia in genere ampiamente intatto il sentimento di un certo mistero sul perché, a partire da quelle condizioni, che in genere non hanno proprio nulla di specifico, si siano sviluppate proprio quelle storie, proprio quelle evoluzioni e non le molte altre possibili (Barale, 2001). L’accettazione dell’ardore punitivo del padre e la problematica realizzazione del grandioso sogno materno avrebbero potuto portare a una sottomissione acritica e passiva, il cui risultato avrebbe potuto essere quello della costruzione di un abile e conformistico violinista, un buon violino di fila o, all’opposto, la conseguenza avrebbe potuto essere la rottura, l’opposizione agli investimenti narcisistici genitoriali, la trasgressione del loro dettato, l’abbandono dello studio del violino. Entrambe le soluzioni esistenziali, però, non riguardano la biografia di Paganini, che risulta essere molto più complessa e conflittuale, intrisa di identificazione con il figlio sognato dalla madre e bramato dal padre, ma anche di dolore, rinunce a bisogni infantili, trasgressioni. Il talento di Paganini, però, non avrebbe potuto manifestarsi senza le sue caratteristiche di imperterrita meticolosità, continuo allenamento, spasmodico impegno. Il talento è opera di artigianato; sembra paradossale, ma più viene affinato, più diventa spontaneo.
Scrive Jean-Bertrand Pontalis (1990, p. 88):
“L’espressione diretta dell’inconscio è uno specchietto per le allodole, la raffigurazione immediata di un sogno è impossibile: altrimenti saremmo tutti pittori, tutti poeti, e, cosa da non dimenticare in un’epoca in cui tutti fanno a gara a vantare la creatività di tutti, la poesia è una scienza esatta, la pittura un mestiere e la letteratura uno stile!”.
Scrive il musicologo Philippe Manoury (2014, p. 170):
“La musica è troppo complessa per poter essere spontaneamente inventata. Il nostro cervello non è abbastanza potente, o abbastanza allenato, per riuscirci”.
Concludo pertanto ricordando che di Paganini ce n’è stato uno solo, irripetibile come le sue esecuzioni.
BIBLIOGRAFIA
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Barale, F. (2001). Prefazione (pp. 13-20). In Pedofilia Pedofile. Op. cit.
Boulez, P. (2005). Leçons de musique. Parigi: Christian Bourgois.
Boulez, P., Changeux, J.-P., e Manoury, P. (2014). I neuroni magici. Musica e cervello. Trad. it. Roma: Carocci, 2018.
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