Intervento al convegno
“Mediterraneo tra passato e presente. Dialoghi interdisciplinari”
Roma, Sede Centrale del CNR, 4 giugno 2019
Per chi, come me, ha avuto una formazione psicoanalitica, e opera come psicoanalista, parlare di identità è alquanto imbarazzante. In effetti, uno dei noccioli della teoria psicoanalitica – e di molte altre teorie di psicologia sociale – è che le identità non esistono. In particolare, non esistono le identità etniche e culturali, nel senso che esse sono illusioni. Per la psicoanalisi ciò che esiste e produce effetti sono piuttosto le identificazioni. Secondo Jacques Lacan, ci si identifica essenzialmente a significanti, e se si tratta di quelli che lui chiama significanti-padroni, questa identificazione è molto forte, si ha l’illusione di avere una identità. La differenza è che le identità sono supposte immutabili, mentre le identificazioni possono mutare nella vita.
Anni fa Sofia Loren disse che lei non era italiana, ma napoletana. E questo a dispetto del fatto che non vivesse più a Napoli, che parlasse un perfetto italiano, e che recitasse anche in inglese. Diciamo che la Loren era molto identificata all’essere napoletana. Il punto però è che le identificazioni etniche e culturali sono fluttuanti, perché fluttuano i significanti ai quali ci si identifica. E questo a cominciare dalla propria lingua, che chiamiamo materna. In realtà tutti gli studi mostrano che i bambini adottano come propria lingua basilare non la lingua che parla la madre – se questa lingua è diversa da quella prevalente nell’ambiente circostante – ma quella dell’ambiente appunto, in particolare dei coetanei. Quel che abusivamente chiamiamo lingua materna, dovrebbe essere chiamata “lingua ambientale”. Io stesso ho conosciuto tante persone che sin dall’infanzia si sono rifiutate di parlare la lingua che parlavano i propri genitori, se diversa da quella del luogo in cui vivevano. L’idea di lingua materna vuole far passare un’immagine della propria lingua come qualcosa di radicato nei rapporti originari, intimi, con la nutrice, ma la lingua che si considera propria è già una separazione dalla propria madre, è già una deriva sociale. Del resto, molte persone dimenticano la propria lingua originaria. Quando madre Teresa di Calcutta negli anni 90 fece un viaggio in Albania – era nata nel Kosovo da famiglia albanese, ed era restata colà fino a 18 anni – ci si accorse che ormai aveva dimenticato l’albanese della propria gioventù.
Diciamo allora che i tratti etnici e culturali, anche quelli che appaiono più profondi, sono delle adozioni. Questo vale anche per le identificazioni sessuali. Per la psicoanalisi il proprio sesso non è determinato dalla propria anatomia, anche se con questa ognuno di noi deve fare i conti, ma è qualcosa che si costruisce nel corso dell’infanzia e anche dopo, e che può prendere le direzioni più diverse. Ad esempio, un uomo e una donna possono prendere la via dell’omosessualità; ma anche, per esempio, del transessualismo. Il transessualismo vero – da non confondere con il travestitismo, che è cosa molto diversa – è la convinzione di essere una donna anche se il proprio corpo è assolutamente maschile. Ma anche le nevrosi e altri problemi possono essere lo sbocco della storia individuale che ci porta ad assumere un certo ruolo sessuale. Un altro sbocco è l’assenza di desiderio sessuale: molte persone non hanno una sessualità. E di solito non se ne lamentano, perché mancare di desiderio sessuale è anche un modo per evitare molti guai.
Oggi molte aree politicamente conservatrici, spesso legate alla religione, hanno dichiarato una sorta di crociata contro la teoria del Gender, che secondo loro verrebbe propinata ai bambini sin dalle scuole elementari. Non esiste una teoria del Gender, esiste piuttosto un atteggiamento generale di apertura verso posizioni sessuali diverse da quelle tradizionali, classiche, dell’uomo e della donna eterosessuali. Questo del resto sta penetrando anche negli usi burocratici. Sempre più ci imbattiamo in moduli in cui ci viene data la scelta tra MASCHIO, FEMMINA e ALTRO. Quella che viene chiamata teoria del Gender è prendere atto della eterogeneità degli sbocchi del posizionamento sessuale, che è un dato di fatto non una teoria.
La psicoanalisi quindi rigetta l’idea di identità sessuale. Molti analisti fanno proprio quel che già Pindaro aveva espresso nella frase γένοι’ οίος έσσί”[1], “diventa ciò che tu sei”. Affermazione ambigua, perché significa che si può anche non diventare ciò che si è, si può diventare qualcosa d’altro, ed è quello che di solito chiamiamo inautenticità. Potremmo anche dire che le persone che vengono a chiedere una cura a uno psicoterapeuta sono per lo più persone che, al contrario, sono solo ciò che sono diventate. Sembrerebbe quindi che per la psicoanalisi ci sia un modo autentico di essere, che però è anche una costruzione storica. La scommessa della psicoanalisi consiste nell’assumere che bisogna costruire un proprio assetto soggettivo che corrisponda al proprio desiderio più profondo. Per costruzione storica intendo il processo che, dalla prima infanzia all’età adulta, ci struttura in un modo piuttosto che in un altro.
Quanto alle identificazioni etniche e culturali, esse certamente producono effetti storici enormi, spesso anche catastrofici. Sono tra quelli che respingono l’idea che alla base dei processi storici ci siano essenzialmente fattori economici. Questa idea è comune sia alla sinistra che alla destra, anche se declinata diversamente. Per la destra liberale quel che contano sono i processi inerenti al mercato, e il primato dell’homo oeconomicus come uomo razionale e calcolatore della propria utilità. Per la sinistra più o meno marxista contano i conflitti tra classi sociali, che sono prima di tutto classi economiche. Io invece penso che nella storia contino anche le fedi religiose, le attrazioni e repulsioni irrazionali, la volontà di potere e di conquista, le filosofie, le visioni della vita… Tutte queste cose, che si intersecano con i bisogni economici, sono chiamate significanti. Si pensi a uno che si sente veneto, cattolico e juventino, che considera questi tre tratti come parte della propria “identità”: si tratta dell’adozione di tre significanti diversi, Veneto, cattolicesimo e Juventus. Come tutti i significanti, essi possono essere anche molto fluttuanti.
Lo mostrano le biografie di alcuni terroristi islamici che negli ultimi anni hanno seminato il terrore in vari paesi europei. Molto spesso sono persone nate nel paese europeo, quindi immigrati di seconda generazione, che hanno avuto un’educazione mussulmana alquanto superficiale. E’ solo più tardi, in età adulta, che essi hanno scoperto di essere islamici, e si sono radicalizzati. Essi operano come una conversione a ciò che pensano di essere, e lo fanno nel modo più estremo possibile. Un maghrebino di seconda generazione che si radicalizza molto spesso è qualcuno che crede di diventare ciò che è, ma nella realtà diventa qualcosa per essere, per assumere una consistenza soggettiva che prima non aveva.
Comunque, in questi ultimi anni, assistiamo all’ascesa, spesso impetuosa, di ciò che chiamerei “identitarismi politici”. Il voto per Trump in US, per la Brexit in Gran Bretagna, per la Lega di Salvini in Italia, per il partito di Marine Le Pen in Francia, ecc. ecc., vengono tutti letti come una rivendicazione di proprie identità nazionali, e in certi casi anche regionali. Vengono di solito etichettati come “populismi”, ma per lo più si tratta di forme di neo-fascismo, ovvero di affermazione drastica della propria identità etnica, e il rifiuto dell’immigrazione.
Questa marea identitaria si oppone sia alla sinistra che alla destra liberale in quanto queste due sono globaliste. Esprimono questo globalismo in modo diverso: la destra vuole che il libero mercato, liberato dai lacci degli stati, si propaghi nel mondo intero, che diventerà un unico immenso mercato. La sinistra fa appello alla fraternità universale che trascende tutte le frontiere, di cui la fraternità tra lavoratori è il modello. Comunque, entrambe le ideologie – o narrazioni, come si preferisce dire oggi – sono globalizzanti: gli stati nazionali, i particolarismi etnici e religiosi, appaiono residui del passato che di solito zavorrano i processi di internazionalizzazione. A questa essenziale consonanza tra sinistra e destre classiche, diciamo “rispettabili”, si oppone il backlash identitario. Esso predica qualcosa che sembra andare contro la corrente predominante nella storia: ovvero verso l’unificazione planetaria che trascende gli stati e le fedi.
Non è detto comunque che i “globalizzati” siano più ricchi: sono comunque persone aperte in senso cosmopolitico. Non a caso, in maggioranza, vivono nelle grandi metropoli.
Tutte le indagini mostrano che le posizioni identitarie, anti-globaliste, fanno breccia in determinate fasce della popolazione: tra le persone con reddito alquanto basso, con un livello culturale inferiore, e che abitano nei piccoli centri o in campagna. In molti casi sono anche le persone più anziane. All’inverso, votano per i partiti globalisti le persone più benestanti, più colte, e che vivono nelle grandi metropoli. In particolare i giovani. Insomma, sono globalisti coloro che appaiono storicamente vincenti, mentre sono identitari, almeno tendenzialmente, coloro che appaiono i perdenti della storia, chi in qualche modo è rimasto indietro, ammesso che la storia sia un fiume che mai torna indietro. Possiamo vedere quindi i successi elettorali recenti di partiti e movimenti della destra nazionalista come una sorta di rivincita democratica dei perdenti della storia.
Accade insomma che masse sempre più rilevanti, nelle società industriali, cessano di essere proletari e diventano identitari. Bisogna capire le ragioni profonde di questa conversione identitaria da parte dei “proletari”.
I proletari erano così detti perché possedevano solo la propria prole. In effetti, fino a non molto tempo fa, più si era poveri, più si facevano figli; i poveri di danaro erano ricchi di prole. Oggi nei paesi più industrializzati anche i poveri tendono a fare pochi figli. Ai più poveri resta un’unica ricchezza di cui vantarsi: la propria “identità”. Ovvero, essere romano o siciliano, essere italiano o tedesco o americano, essere tifoso della squadra del Milan o della Juventus, essere cattolico o islamico… Le identità, a differenza della prole, costano poco o niente, e danno onore a chi si “identifica”. La sinistra, costituita sempre più da intellettuali e colletti bianchi, disprezza le identità e quindi gli identitari; quindi i poveri da una parte e la sinistra dall’altra non parlano più la stessa lingua. La sinistra predica un’eguaglianza astratta che non parla al cuore, perché ciò che parla al cuore della gente, soprattutto se manca di cultura, è da una parte avere di più (che non implica essere più eguale agli altri), e dall’altra sentirsi uniti ad altri grazie a una comune appartenenza simbolica, a un’identificazione a qualche significante-padrone. Non importa a cosa appartenere, l’importante è appartenere, che implica sempre un essere-contro, un contrapporsi. Per questa ragione Trump, ad esempio, aumenta la sua popolarità scegliendo di volta in volta degli essere-contro: contro l’Iran, contro l’Europa unita, contro la Cina… Gli stessi leghisti che qualche anno fa si sentivano appartenere alla Padania versus il Meridione, oggi si sentono appartenere all’Italia versus Immigrati, o versus Europa; non diversamente dal fatto che essere oggi per la squadra del Napoli significhi essere versus la Juventus. Invece la logica della sinistra, moderata o radicale, governativa od oppositiva, è internazionalista, il suo codice genetico è espresso dalle vecchie canzoni anarchiche: “Nostra patria è il mondo intero / nostra fede è la libertà”. Un ideale da benestanti, da jet set, non da “identitari”, i nuovi poveri. L’identità è ormai il tesoro dei poveri.
“Mediterraneo tra passato e presente. Dialoghi interdisciplinari”
Roma, Sede Centrale del CNR, 4 giugno 2019
Per chi, come me, ha avuto una formazione psicoanalitica, e opera come psicoanalista, parlare di identità è alquanto imbarazzante. In effetti, uno dei noccioli della teoria psicoanalitica – e di molte altre teorie di psicologia sociale – è che le identità non esistono. In particolare, non esistono le identità etniche e culturali, nel senso che esse sono illusioni. Per la psicoanalisi ciò che esiste e produce effetti sono piuttosto le identificazioni. Secondo Jacques Lacan, ci si identifica essenzialmente a significanti, e se si tratta di quelli che lui chiama significanti-padroni, questa identificazione è molto forte, si ha l’illusione di avere una identità. La differenza è che le identità sono supposte immutabili, mentre le identificazioni possono mutare nella vita.
Anni fa Sofia Loren disse che lei non era italiana, ma napoletana. E questo a dispetto del fatto che non vivesse più a Napoli, che parlasse un perfetto italiano, e che recitasse anche in inglese. Diciamo che la Loren era molto identificata all’essere napoletana. Il punto però è che le identificazioni etniche e culturali sono fluttuanti, perché fluttuano i significanti ai quali ci si identifica. E questo a cominciare dalla propria lingua, che chiamiamo materna. In realtà tutti gli studi mostrano che i bambini adottano come propria lingua basilare non la lingua che parla la madre – se questa lingua è diversa da quella prevalente nell’ambiente circostante – ma quella dell’ambiente appunto, in particolare dei coetanei. Quel che abusivamente chiamiamo lingua materna, dovrebbe essere chiamata “lingua ambientale”. Io stesso ho conosciuto tante persone che sin dall’infanzia si sono rifiutate di parlare la lingua che parlavano i propri genitori, se diversa da quella del luogo in cui vivevano. L’idea di lingua materna vuole far passare un’immagine della propria lingua come qualcosa di radicato nei rapporti originari, intimi, con la nutrice, ma la lingua che si considera propria è già una separazione dalla propria madre, è già una deriva sociale. Del resto, molte persone dimenticano la propria lingua originaria. Quando madre Teresa di Calcutta negli anni 90 fece un viaggio in Albania – era nata nel Kosovo da famiglia albanese, ed era restata colà fino a 18 anni – ci si accorse che ormai aveva dimenticato l’albanese della propria gioventù.
Diciamo allora che i tratti etnici e culturali, anche quelli che appaiono più profondi, sono delle adozioni. Questo vale anche per le identificazioni sessuali. Per la psicoanalisi il proprio sesso non è determinato dalla propria anatomia, anche se con questa ognuno di noi deve fare i conti, ma è qualcosa che si costruisce nel corso dell’infanzia e anche dopo, e che può prendere le direzioni più diverse. Ad esempio, un uomo e una donna possono prendere la via dell’omosessualità; ma anche, per esempio, del transessualismo. Il transessualismo vero – da non confondere con il travestitismo, che è cosa molto diversa – è la convinzione di essere una donna anche se il proprio corpo è assolutamente maschile. Ma anche le nevrosi e altri problemi possono essere lo sbocco della storia individuale che ci porta ad assumere un certo ruolo sessuale. Un altro sbocco è l’assenza di desiderio sessuale: molte persone non hanno una sessualità. E di solito non se ne lamentano, perché mancare di desiderio sessuale è anche un modo per evitare molti guai.
Oggi molte aree politicamente conservatrici, spesso legate alla religione, hanno dichiarato una sorta di crociata contro la teoria del Gender, che secondo loro verrebbe propinata ai bambini sin dalle scuole elementari. Non esiste una teoria del Gender, esiste piuttosto un atteggiamento generale di apertura verso posizioni sessuali diverse da quelle tradizionali, classiche, dell’uomo e della donna eterosessuali. Questo del resto sta penetrando anche negli usi burocratici. Sempre più ci imbattiamo in moduli in cui ci viene data la scelta tra MASCHIO, FEMMINA e ALTRO. Quella che viene chiamata teoria del Gender è prendere atto della eterogeneità degli sbocchi del posizionamento sessuale, che è un dato di fatto non una teoria.
La psicoanalisi quindi rigetta l’idea di identità sessuale. Molti analisti fanno proprio quel che già Pindaro aveva espresso nella frase γένοι’ οίος έσσί”[1], “diventa ciò che tu sei”. Affermazione ambigua, perché significa che si può anche non diventare ciò che si è, si può diventare qualcosa d’altro, ed è quello che di solito chiamiamo inautenticità. Potremmo anche dire che le persone che vengono a chiedere una cura a uno psicoterapeuta sono per lo più persone che, al contrario, sono solo ciò che sono diventate. Sembrerebbe quindi che per la psicoanalisi ci sia un modo autentico di essere, che però è anche una costruzione storica. La scommessa della psicoanalisi consiste nell’assumere che bisogna costruire un proprio assetto soggettivo che corrisponda al proprio desiderio più profondo. Per costruzione storica intendo il processo che, dalla prima infanzia all’età adulta, ci struttura in un modo piuttosto che in un altro.
Quanto alle identificazioni etniche e culturali, esse certamente producono effetti storici enormi, spesso anche catastrofici. Sono tra quelli che respingono l’idea che alla base dei processi storici ci siano essenzialmente fattori economici. Questa idea è comune sia alla sinistra che alla destra, anche se declinata diversamente. Per la destra liberale quel che contano sono i processi inerenti al mercato, e il primato dell’homo oeconomicus come uomo razionale e calcolatore della propria utilità. Per la sinistra più o meno marxista contano i conflitti tra classi sociali, che sono prima di tutto classi economiche. Io invece penso che nella storia contino anche le fedi religiose, le attrazioni e repulsioni irrazionali, la volontà di potere e di conquista, le filosofie, le visioni della vita… Tutte queste cose, che si intersecano con i bisogni economici, sono chiamate significanti. Si pensi a uno che si sente veneto, cattolico e juventino, che considera questi tre tratti come parte della propria “identità”: si tratta dell’adozione di tre significanti diversi, Veneto, cattolicesimo e Juventus. Come tutti i significanti, essi possono essere anche molto fluttuanti.
Lo mostrano le biografie di alcuni terroristi islamici che negli ultimi anni hanno seminato il terrore in vari paesi europei. Molto spesso sono persone nate nel paese europeo, quindi immigrati di seconda generazione, che hanno avuto un’educazione mussulmana alquanto superficiale. E’ solo più tardi, in età adulta, che essi hanno scoperto di essere islamici, e si sono radicalizzati. Essi operano come una conversione a ciò che pensano di essere, e lo fanno nel modo più estremo possibile. Un maghrebino di seconda generazione che si radicalizza molto spesso è qualcuno che crede di diventare ciò che è, ma nella realtà diventa qualcosa per essere, per assumere una consistenza soggettiva che prima non aveva.
Comunque, in questi ultimi anni, assistiamo all’ascesa, spesso impetuosa, di ciò che chiamerei “identitarismi politici”. Il voto per Trump in US, per la Brexit in Gran Bretagna, per la Lega di Salvini in Italia, per il partito di Marine Le Pen in Francia, ecc. ecc., vengono tutti letti come una rivendicazione di proprie identità nazionali, e in certi casi anche regionali. Vengono di solito etichettati come “populismi”, ma per lo più si tratta di forme di neo-fascismo, ovvero di affermazione drastica della propria identità etnica, e il rifiuto dell’immigrazione.
Questa marea identitaria si oppone sia alla sinistra che alla destra liberale in quanto queste due sono globaliste. Esprimono questo globalismo in modo diverso: la destra vuole che il libero mercato, liberato dai lacci degli stati, si propaghi nel mondo intero, che diventerà un unico immenso mercato. La sinistra fa appello alla fraternità universale che trascende tutte le frontiere, di cui la fraternità tra lavoratori è il modello. Comunque, entrambe le ideologie – o narrazioni, come si preferisce dire oggi – sono globalizzanti: gli stati nazionali, i particolarismi etnici e religiosi, appaiono residui del passato che di solito zavorrano i processi di internazionalizzazione. A questa essenziale consonanza tra sinistra e destre classiche, diciamo “rispettabili”, si oppone il backlash identitario. Esso predica qualcosa che sembra andare contro la corrente predominante nella storia: ovvero verso l’unificazione planetaria che trascende gli stati e le fedi.
Non è detto comunque che i “globalizzati” siano più ricchi: sono comunque persone aperte in senso cosmopolitico. Non a caso, in maggioranza, vivono nelle grandi metropoli.
Tutte le indagini mostrano che le posizioni identitarie, anti-globaliste, fanno breccia in determinate fasce della popolazione: tra le persone con reddito alquanto basso, con un livello culturale inferiore, e che abitano nei piccoli centri o in campagna. In molti casi sono anche le persone più anziane. All’inverso, votano per i partiti globalisti le persone più benestanti, più colte, e che vivono nelle grandi metropoli. In particolare i giovani. Insomma, sono globalisti coloro che appaiono storicamente vincenti, mentre sono identitari, almeno tendenzialmente, coloro che appaiono i perdenti della storia, chi in qualche modo è rimasto indietro, ammesso che la storia sia un fiume che mai torna indietro. Possiamo vedere quindi i successi elettorali recenti di partiti e movimenti della destra nazionalista come una sorta di rivincita democratica dei perdenti della storia.
Accade insomma che masse sempre più rilevanti, nelle società industriali, cessano di essere proletari e diventano identitari. Bisogna capire le ragioni profonde di questa conversione identitaria da parte dei “proletari”.
I proletari erano così detti perché possedevano solo la propria prole. In effetti, fino a non molto tempo fa, più si era poveri, più si facevano figli; i poveri di danaro erano ricchi di prole. Oggi nei paesi più industrializzati anche i poveri tendono a fare pochi figli. Ai più poveri resta un’unica ricchezza di cui vantarsi: la propria “identità”. Ovvero, essere romano o siciliano, essere italiano o tedesco o americano, essere tifoso della squadra del Milan o della Juventus, essere cattolico o islamico… Le identità, a differenza della prole, costano poco o niente, e danno onore a chi si “identifica”. La sinistra, costituita sempre più da intellettuali e colletti bianchi, disprezza le identità e quindi gli identitari; quindi i poveri da una parte e la sinistra dall’altra non parlano più la stessa lingua. La sinistra predica un’eguaglianza astratta che non parla al cuore, perché ciò che parla al cuore della gente, soprattutto se manca di cultura, è da una parte avere di più (che non implica essere più eguale agli altri), e dall’altra sentirsi uniti ad altri grazie a una comune appartenenza simbolica, a un’identificazione a qualche significante-padrone. Non importa a cosa appartenere, l’importante è appartenere, che implica sempre un essere-contro, un contrapporsi. Per questa ragione Trump, ad esempio, aumenta la sua popolarità scegliendo di volta in volta degli essere-contro: contro l’Iran, contro l’Europa unita, contro la Cina… Gli stessi leghisti che qualche anno fa si sentivano appartenere alla Padania versus il Meridione, oggi si sentono appartenere all’Italia versus Immigrati, o versus Europa; non diversamente dal fatto che essere oggi per la squadra del Napoli significhi essere versus la Juventus. Invece la logica della sinistra, moderata o radicale, governativa od oppositiva, è internazionalista, il suo codice genetico è espresso dalle vecchie canzoni anarchiche: “Nostra patria è il mondo intero / nostra fede è la libertà”. Un ideale da benestanti, da jet set, non da “identitari”, i nuovi poveri. L’identità è ormai il tesoro dei poveri.
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