ABSTRACT
Nel presente lavoro gli autori propongono una lettura critica dell’articolo “Genome-wide association study identifies eight risk loci and implicates metabo-psychiatric origins for anorexia nervosa” (2019, Nature Genetics), e soprattutto del rilevo sensazionalistico riservato da alcuni media alla notizia della pubblicazione questa ricerca. In particolare, nel presente contributo, si fa rilevare quanto divario possa esservi, talora, tra l’enfasi con cui si divulgano le notizie e i risultati stessi delle ricerche scientifiche. Nello specifico, il contributo della ricerca sperimentale dovrebbe essere divulgato ai lettori con la stessa prudenza con cui si diffondono i dati ufficiali, in modo da evitare il più possibile, che al posto di speranze, i pazienti possano finire per coltivare illusioni.
Il 15 luglio 2019 è stato pubblicato sulla rivista Nature Genetics un articolo dal titolo “Genome-wide association study identifies eight risk loci and implicates metabo-psychiatric origins for anorexia nervosa” che avrebbe permesso di identificare otto varianti genetiche significativamente associate all’anoressia nervosa. Tale studio di associazione genetica, diretto da Cinthya Bulik, dell’University of North Carolina Center of Excellence for Eating Disorders, e Gerome Breen, del King’s College di Londra, ha affermato che l’anoressia abbia origini non soltanto di tipo psichico, ma anche metabolico, individuate grazie ad una metanalisi effettuata a partire da diverse ricerche precedenti. Allo studio hanno collaborato oltre 100 ricercatori di molti centri internazionali di ricerca, tra cui anche l’Università di Padova (in particolare Angela Favaro, del Padova Neuroscience Center, e Maurizio Clementi, direttore U.O.C. Genetica ed Epidemiologia Clinica del Dipartimento di Salute della Donna e del Bambino dell’Università di Padova). Sono stati resi disponibili i dati appartenenti a due consorzi: Anorexia Nervosa Genetics Initiative (ANGI) e Eating Disorders Working Group of the Psychiatric Genomics Consortium (PGC-ED). Il risultato è uno studio su 16.992 casi di anoressia nervosa e 55.525 soggetti di controllo di discendenza Europea provenienti da 17 Paesi Europei, del Nord America e dell’Australia.
Emergono però, a partire da queste informazioni, dalla lettura degli studi suddetti e da quanto dichiarato dai ricercatori stessi nei comunicati stampa relativi alla pubblicazione delle ricerche, delle criticità che potrebbe essere utile segnalare nel nome di chi, come professionista, si interfaccia quotidianamente con la pratica clinica e le tecniche di intervento necessarie al trattamento di questo genere di problematica.
Senz’altro la lettura dell’articolo pubblicato consente di affermare nuovamente alcune conclusioni già raggiunte nell’ambito della discussione sul tema dell’anoressia, quali l’utilità di un approccio multidisciplinare sia in termini di ricerca sulla patogenesi che di approccio terapeutico. Sottolinea nuovamente, inoltre, il già da tempo segnalato legame con altri disturbi psichiatrici, quali il disturbo ossessivo-compulsivo e la depressione.
D’altra parte, leggendo alcune dichiarazioni dei ricercatori, in particolare quelle contenute nel comunicato stampa di presentazione del lavoro, sorge il dubbio che sia stato realmente compreso l’oggetto in esame, ovvero il disturbo anoressico, nella sua complessità ed integrità biopsicosociale e che questo possa finire per compromettere il senso e la c.d. “validità di costrutto” per l’intero lavoro di ricerca. L’anoressia nervosa è intesa nell’articolo suddetto come un oggetto stabile e obiettivo, tale impostazione rischia di non tenere conto delle varianti atipiche del disturbo, delle sue tipiche fluttuazioni sintomatiche. In particolare, non vi è accenno in detta ricerca del fatto che l’anoressia va collocata entro un continuum, sul quale si posizionano anche altri disturbi alimentari, con i quali essa condivide fattori eziologici e sintomatici comuni. Nel lavoro clinico la maggior parte dei pazienti anoressici virano in sintomatologie radicalmente differenti, seppur in area alimentare, in un determinato momento di sviluppo della patologia. Potrebbe risultare dunque riduttivo immaginare l’individuazione di fattori causali, come quelli metabolici, relativi soltanto all’anoressia nervosa, senza considerare le possibili virate sintomatiche che la patologia comporta.
Lo studio presentato è una metanalisi, ovvero una tecnica clinico-statistica quantitativa che permette di combinare i dati di più studi condotti su di uno stesso argomento, generando un unico dato conclusivo per rispondere ad una specifica domanda di ricerca. Dunque, esso prende spunto da campioni relativi a due precedenti ricerche, ovvero due studi dell’ANGI (Anorexia Nervosa Genetics Initiative) del 2017 e del 2018, che si sono poste l’ambizioso obiettivo di individuare delle componenti genetiche alla base dell’anoressia. L’impressione che si ha, da quanto sostenuto nelle premesse dello studio del 2019, è che si parta dall’assunto dato per scontato – non effettivamente dimostrato negli studi precedenti – che la componente genetica dell’anoressia sia chiaramente specificata e se ne sia anche quantificata in qualche modo l’incidenza. Risultato che all’interno degli articoli pubblicati in precedenza, i ricercatori Australiani sono ben lungi dal dichiarare raggiunto in maniera definitiva. Dunque, lo studio recentemente pubblicato sembrerebbe essere fondato sulla premessa di conclusioni di studi precedenti, non effettivamente raggiunti.
A tal proposito, è utile ragionare anche sull’ampio campione, anch’esso tratto dalle precedenti ricerche per la nuova metanalisi e dichiarato come “punto di forza” per l’affermazione di quanto emerso. Può essere utile a tale fine rammentare che il campione utilizzato negli studi precedenti è stato selezionato sulla base dei criteri diagnostici per l’anoressia nervosa per come stabiliti dal DSM IV (ad eccezione del criterio dell’amenorrea): dunque si potrebbe riflettere sul fatto che, ad oggi, buona parte del campione utilizzato nei precedenti studi potrebbe non far parte della ricerca, se consideriamo i criteri del DSM 5. Inoltre, la selezione del campione si è basata, per gli studi di riferimento della metanalisi, su una “autovalutazione” di pazienti, che hanno dichiarato di aver sofferto di anoressia nervosa in un momento della loro vita. Tale limite, considerato e sottolineato dai ricercatori australiani dello studio del 2017 come elemento che potrebbe aver compromesso la qualità e l’accuratezza dei dati raccolti, sembra essere stato invece ignorato, o comunque non riferito, all’interno dell’articolo, dai ricercatori dello studio attuale. È inoltre utile fermarci un attimo sui criteri diagnostici utilizzati, che, sinteticamente, sarebbero:
- Rifiuto di mantenere il peso corporeo al di sopra o al peso minimo normale per l'età e la statura (per es. perdita di peso che porta a mantenere il peso corporeo al di sotto dell'85% rispetto a quanto previsto, oppure incapacità di raggiungere il peso previsto durante il periodo della crescita in altezza, con la conseguenza che il peso rimane al di sotto dell'85% rispetto a quanto previsto).
- Intensa paura di acquistare peso o di diventare grassi, anche quando si è sottopeso.
- Alterazione del modo in cui il soggetto vive il peso o la forma del corpo, o eccessiva influenza del peso e della forma del corpo sui livelli di autostima, o rifiuto di ammettere la gravità della attuale condizione di sottopeso.
Per effettuare diagnosi di anoressia nervosa, secondo i “vecchi” criteri del DSM-IV a cui si rifà la ricerca, è necessario che siano presenti tutti e tre i criteri. Di questi, solo uno potrebbe essere legato ad alterazioni metaboliche (il criterio A, dato che include “l’incapacità di raggiungere il peso previsto durante il periodo della crescita in altezza”). Questo criterio, tuttavia, non è sufficiente per la diagnosi del disturbo, mentre la presenza dei criteri B e C, che fanno riferimento a variabili psicologiche, spesso ha come diretta conseguenza (conseguenza, non causa) l’instaurarsi del criterio A. In altre parole, i ricercatori prendono in esame un aspetto necessario (il criterio A) ma non sufficiente per spiegare l’anoressia nel campione stesso a cui si sono riferiti e attraverso questo tentano di attribuirvi una causalità genetica.
Tutto ciò risulta maggiormente chiaro nelle parole presenti nelle conclusioni dell’articolo, che recitano: «Un basso BMI è tradizionalmente considerato una conseguenza delle caratteristiche psicologiche dell’anoressia nervosa (ovvero la spinta alla magrezza e l’insoddisfazione per il peso corporeo). Questa prospettiva ha fallito nel produrre interventi che affidabilmente portano a guadagnare peso corporeo in modo sostenuto e a mantenere un BMI salutare». In questa affermazione c’è un problema logico serio: il campione è stato scelto secondo tre criteri, tra cui due criteri necessari di natura psicologica (senza i quali non si tratterebbe di un campione di persone con anoressia nervosa), per poi affermare che i criteri psicologici potrebbero essere secondari nella genesi del disturbo, tuttavia gli autori stessi hanno usato come criterio di selezione del campione esattamente quei criteri. C’è qualcosa che non torna: o c’è qualche disfunzione metabolica che porta le persone a confondere la propria immagine nello specchio e ad aver paura di riacquistare peso, o un’affermazione come questa non ha alcun senso. Se poi, per assurdo, fosse davvero così come affermano i ricercatori (ma dovrebbero dimostrarlo in modo non altrimenti confutabile) bisognerebbe spiegare come un’alterazione metabolica possa trasformarsi in una forma di pensiero ben definita. Dunque, o gli autori hanno in mano la soluzione al problema mente-corpo, o ci troviamo davanti ad una delle innumerevoli manifestazioni dell’errore di Cartesio.
Oltre i suddetti limiti che potrebbero inficiare la validità della ricerca, l’inversione del rapporto causa-effetto tra le alterazioni metaboliche presenti in caso di un disturbo anoressico e la condizione di sottopeso, che ne è, piuttosto, uno dei criteri diagnostici centrali, sembrerebbe basata su una rilevazione statistica. Ebbene, l’utilizzo di metodi statistici come strumento per adire spiegazioni causali andrebbe gestito con molta cautela e sino a che non avremo evidenze fondate su un campione di popolazione non selezionato secondo criteri ambigui, detta correlazione potrebbe non avere significato in termini di validità. Per come riportato nel comunicato stampa, più che un’ipotesi, apparrebbe che le alterazioni metaboliche riscontrate nei casi di anoressia possano essere considerate dipendenti da componenti genetiche, piuttosto che dalla condizione di sottopeso e che dunque finiscano per essere individuate come fattore causale e non conseguente del disturbo alimentare. Tale evidenza tuttavia, a differenza di quanto riportato dai media quale dichiarazione stampa dei ricercatori, non compare in maniera così franca nello studio.
È essenziale appunto sottolineare che i ricercatori, negli articoli pubblicati (sia quello recente, da cui origina tale discussione, sia quelli degli anni precedenti) paiono estremamente cauti nell’affermare il raggiungimento di conclusioni tanto definitive, contrariamente a quanto invece leggiamo nei comunicati stampa pubblicati dalle Università, che riportano anche le dichiarazioni attribuite ai ricercatori stessi. Ad esempio, nel comunicato stampa dell’Università di Padova, si afferma che l’identificazione di varianti genetiche e metaboliche associate all’anoressia nervosa consentirà di «conoscere le origini di questa grave malattia». Ebbene, se quest’affermazione risultasse essere stata effettivamente pronunciata in questi termini, non si comprenderebbe in che modo si possa ipotizzare di “conoscere le origini dell’anoressia” – che è ormai assodato essere riconducibili a una multifattorialità complessa – attraverso l’identificazione di varianti genetiche e metaboliche. Le eventuali variabili genetiche e metaboliche, d’altronde – basandosi sulle evidenze e non sulle ipotesi – pesano molto poco sulla genesi del disturbo, il quale è nei fatti manifestamente collegato a ben note variabili culturali (Rapporto ISTISAN, Istituto Superiore di Sanità, 13/6, 2012). D’altronde se le componenti genetiche, pur indubitabilmente presenti, avessero l’influenza che parrebbero attribuirle le dichiarazioni di alcuni dei ricercatori, non sarebbe spiegabile l’attuale distribuzione epidemiologica di questi disturbi, che in alcune latitudini del mondo non compare se non in maniera sporadica, mentre in altre è estremamente diffusa: confermando oltre ogni possibile evidenza un'incondizionata prevalenza delle variabili culturali su quelle genetiche (Hoek et al., 2016).
Risulta poi addirittura sorprendente l’affermazione attribuita alla direttrice dell’UNC Center for Eating Disorders, Cynthia Bulik, la quale sosterrebbe che l’estensione della ricerca a fattori metabolici all’origine del problema, consentirebbe «la comprensione del perché così spesso le persone che soffrono di questa malattia ricadono nel sottopeso, una volta rinutrite». La ricercatrice sembrerebbe asserire, pertanto, che il fatto di non aver considerato ancora i fattori metabolici in quanto eziopatogenetici della malattia, «potrebbe essere il motivo per cui la percentuale di guarigione è ancora insoddisfacente». È evidente come un’affermazione di questo genere, prospetti conclusioni ben differenti da quanto riportato nella ricerca. La ricerca in verità, al netto delle dichiarazioni fornite alla stampa con le quali è stata annunciata, ancora una volta conferma l’importanza dell’approccio multidisciplinare nel trattamento dell’anoressia nervosa e dei fattori psicologici nella genesi e nella cura della stessa, ipotizza una componente genetica e (dunque) metabolica per la malattia, senza individuarne però concretamente i limiti e il peso. Un’affermazione come quella della Bulik, riportata nel comunicato stampa dell’Università di Padova, sembrerebbe però escludere, o minimizzare, il ruolo della sofferenza psicologica, non soltanto nella genesi, ma soprattutto nel mantenimento del disturbo e ricondurre ad una visione riduzionistica e organicistica del problema. Anni di ricerca, in ambito sia sperimentale che clinico, hanno consentito di giungere alla conclusione che una delle chiavi per la guarigione dal disturbo alimentare sia proprio il lavoro sugli aspetti psicologici e relazionali che ne sono alla base, per il trattamento dei quali non è senz’altro sufficiente un percorso di ri-alimentazione. I clinici – a differenza di ciò che afferma la Bulik – conoscono da tempo e nel dettaglio i motivi «per cui coloro che soffrono di questa malattia tendono a rientrare rapidamente in una condizione di sottopeso, una volta rinutrite» e sanno, infatti, che ri-nutrire un paziente estremamente sottopeso a causa dell’anoressia, sia un’operazione spesso necessaria, da svolgere con molta cautela e gradualità, proprio perché ritenuta insufficiente al fine della guarigione.
Ancor meno prudente nelle sue dichiarazioni è sembrata la dichiarazione attribuita a Maurizio Clementi, già direttore U.O.C. Genetica ed Epidemiologia Clinica del Dipartimento di Salute della Donna e del Bambino dell'Università di Padova: «Finalmente sono state identificate delle varianti genetiche associate all'anoressia nervosa: questo ci permetterà presto di avere dei geni candidati e, di conseguenza, di conoscere le origini di questa grave malattia». Salvo smentite, poiché è possibile che i media abbiano compreso male il senso di alcune parole, questa affermazione appare quantomeno eccessiva e riportata in questo modo potrebbe far credere ai non esperti che si possano concretamente “conoscere le origini” dell’anoressia come se si parlasse di un virus, o di una infezione batterica dovuta a chissà quale misterioso agente. Il punto è che “le origini” dell’anoressia – ammesso che se ne possa parlare in generale e in maniera avulsa dal soggetto – sono già note, così come ne è nota la complessità eziopatogenetica e clinica. Evidentemente però la complessità spaventa ancora e paradossalmente, piuttosto che adeguare gli strumenti (spesso obsoleti) a questa complessità, si tenta di individuare scorciatoie riduzionistiche che possano dare l’illusione di avere a portata di mano soluzioni terapeutiche tascabili.
L’accordo sulla necessità di un lavoro integrato e multidisciplinare per il trattamento di tale psicopatologia è stata negli ultimi anni una conquista importante, che ha visto interfacciarsi e confrontarsi vari professionisti con differenti linee di pensiero: ricercatori, medici, psicologi, psicoterapeuti, nutrizionisti. In conclusione, ci sembra fondamentale evidenziare la necessità di evitare che l’ampliamento, senz’altro auspicabile, della ricerca sul tema dei disturbi alimentari e la possibilità di individuare ulteriori fattori, qualora presenti, della eziopatogenesi del disturbo, conduca alla fantasia di approcci organicisti e medicalizzanti di un problema di molto più vasta portata. Soprattutto ci si augura che argomenti così specialistici, come quelli trattati in questa ricerca, non siano poi divulgati in maniera tale da incorrere nel rischio di creare aspettative infondate in chi soffre di questi gravi malattie o nei loro familiari.
Bibliografia
Hoek, H. W. (2016). Review of the worldwide epidemiology of eating disorders. Current Opinion in Psychiatry, 29(6), 336–339. doi:10.1097/yco.0000000000000282
Kirk, K. M. et al. (2017). The Anorexia Nervosa Genetics Initiative: study description and sample charateristics of the Australian and New Zealand arm. Aust. N. Z. J. Psychiatry 51, 583-594
Thornton, L. M. et al. (2018). The Anorexia Nervosa Genetics Initiative (ANGI): overview and methods. Contemp. Clin. Trials 74, 61-69
Watson, H. J. et al. (2019). Genome-wide association study identifies eight risk loci and implicates metabo-psychiatric origins for anorexia nervosa. Nat. Gen. 51, 1207–1214
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