"Quando David Bowie cominciò era tutto eccitante quasi come me lo ero immaginato.
Era pazzesco. Ma quando arrivò al pezzo <It is too late>, è troppo tardi, andai giù di un colpo.
Già nelle ultime settimane, quando non sapevo più per che cosa vivevo e dove andavo,
questo <It is too late> mi aveva preso su ai nervi.
Avevo pensato che questa canzone descriveva esattamente la mia situazione.
Adesso questo <It is too late> mi sconvolgeva.
Avrei avuto bisogno del mio valium"
Christiane F.
Era pazzesco. Ma quando arrivò al pezzo <It is too late>, è troppo tardi, andai giù di un colpo.
Già nelle ultime settimane, quando non sapevo più per che cosa vivevo e dove andavo,
questo <It is too late> mi aveva preso su ai nervi.
Avevo pensato che questa canzone descriveva esattamente la mia situazione.
Adesso questo <It is too late> mi sconvolgeva.
Avrei avuto bisogno del mio valium"
Christiane F.
Ho incontrato Christiane F. Quella dello zoo di Berlino.
Giovane, bella, vent'anni e cinque anni di tossicodipendenza alle spalle. Eroina e cocaina in vena, MDMA, Ketamina e altre sostanze, cannabis quotidiana o quasi, HCV positiva, "genotipo I", mi dice.
Nata da una relazione extraconiugale, la madre polacca, il padre del Lazio, ottantenne: nata a Roma, zona Termini, "underground" mi dice, "ma amo il mio quartiere", conclude.
Mi racconta che frequenta l'ultimo anno di un liceo artistico che conosco bene, un liceo che si trova al centro di Roma e che, dopo il terremoto dell'anno scorso, a causa del crollo di un solaio del terzo piano, è stato spostato in altra struttura.
Conosco quel liceo, lo conosco da sempre, ma non ci sono mai entrato. Lo conosco perché è uno dei pochi licei artistici di Roma ed è stato frequentato da diversi amici; lo conosco perché mio figlio ha fatto l'ultimo anno di asilo nello stesso edificio, e glielo dico, questo favorisce l'aggancio, la relazione.
"Hai gli occhi rossi", le dico, penso all'effetto di sostanze, non noto particolari modifiche della pupilla, forse non le cerco: ha gli occhi marroni, scuri.
"Anche tu hai gli occhi rossi", mi risponde, " e poi ho pianto" conclude l'argomento in modo lapidario.
La collega del PS quando mi ha chiamato in SPDC per dirmi che dovevo andare a valutare una ragazza con agitazione psicomotoria, mi aveva raccontato che questa aveva litigato con la madre perché, rientrando a casa, l'aveva trovata ubriaca; la madre alcolista abituale; la litigata aveva raggiunto livelli tali per cui era intervenuta la polizia a domicilio insieme al 118.
Quando ero giunto in PS mi ero trovato prima al cospetto di questa madre, anche lei giunta con la stessa autoambulanza, anche lei con lo sguardo triste, gli occhi rossi, il corpo consumato dalla sofferenza, dall'esistenza, la cannula già posizionata in vena per l'idratazione, già somministrata, l'occhio interrogativo e al tempo stesso richiedente, "ditemi se mia figlia si fa, se ha sostanze in corpo, se ha smesso, se è vero, aiutatemi a capire, a gestire, ad accogliere questa sua sofferenza, aiutate lei", lo dice un po' con lo sguardo, un pò con la posizione del corpo, inizialmente non mi guarda, emana vergogna, "questo è quello che sono riuscita a fare, da sola" sembra aggiungere.
É una bella donna sulla cinquantina, sofferente, anche lei provata dalla storia, dall'esistenza, dagli eventi, dagli incontri, dall'alcool, anche lei con gli occhi rossi.
Quando incontro la figlia, Christiane, penso che avrei potuto incontrare la madre anni fa e forse non saremo qui a questo punto.
Christiane mi dice che sono quindici giorni che non va a scuola perché le serve un certificato che attesta che con l'epatite può farlo. In realtà capisco che si sta perdendo, di nuovo, che per un pò ha resistito, a non farsi, ma quella tranquillità che comunica, parla lenta e calma, mi puzza dell'eroina che la abita, che la sostiene e che la scalda mentre mi parla.
"Ho iniziato a farmi a 15 anni, poi ho perso l'ultimo anno di superiori e ho passato un anno in strada, un pò qua e un pò la, mi sono prostituita" mi dice,
Mi mostra delle cicatrici sulle braccia e mi dice averne uguali sulla schiena.
"Qualche anno fa mi sono procurata questi tagli, sono simmetrici e paralleli", in tutto c'è un ordine, è l'ordine che la struttura, niente fuori posto, il capello colorato arancione caldo, lievemente truccata, molto curata nell'aspetto, British.
Mi racconta che vomita, mangia e vomita, afferma aver avuto sempre problemi con il cibo e che di fatto ha discusso con la madre perché le avrebbe nascosto il cibo, a lei, che con il cibo ci riempie il vuoto, il cibo che per lei è sostanza, vita e morte.
"Sono bulimica", afferma con fermezza.
Allora penso, una ragazza borderline, eroinomane, tossicodipendente, bulimica, artista e prostituta.
Una ragazza alla ricerca di un'identità. Se la faccio entrare in SPDC diventa anche matta.
Poi penso che questa sera in reparto abbiamo ricoverato una paziente storica, nell'immaginario ingestibile, che ha riempito in un attimo tutte le stanze dell'odore delle sue urine.
Se dovessi ricoverarla dovrà entrare nello stesso girone infernale, il girone della cronicità, il girone del capolinea della Legge Basaglia, il girone delle urine e dei legacci, forse questi giorni verranno usati, nonostante lo sforzo che si sta facendo per arrivare definitivamente alle buone pratiche, per cambiare la cultura, per introdurre la libertà, per ascoltare e recepire quello che è stato detto quasi quarant'anni fa. Poi penso alle parole di Franco Basaglia in Scritti, da pochi giorni ripubblicato, quando dice che "è tempo di affrontare il problema del malato mentale nell'ospedale, in questo spazio chiuso, staccato da ogni rapporto che non sia malato, in attesa di riconquistare la sua personale libertà che non può venirgli regalata nè dai farmaci, nè dal medico", ma dall'eroina si, penso, e li decido che questa ragazza la soglia del SPDC non deve varcarla, a vent'anni, a confermare che lei qualche problema grave c'è l'ha, a mettere il carico su una vita già massacrata da abbandono, inesistenza, esistenza, eroina e prostituzione.
Mi parla del padre che vive fuori Roma, ottantenne, che non ha mai vissuto con lei e con la madre,
"Ha un'altra famiglia", mi dice "ma mi accompagna dovunque quando ho bisogno",
"Ho vissuto anche con lui un periodo, ma poi sono tornata a Roma".
Come se bastasse a colmare quel vuoto che la ragazza porta con sé, quel vuoto che ha riempito sapientemente con le sostanze, come se bastasse comunicarlo a uno sconosciuto per continuare a convincersi che non è mai stato un problema.
(…)
É passato piú di un anno da quando ho scritto queste parole, da quando si è consumato questo incontro.
Alla fine le due donne, amiche a tal punto da odiarsi, unite nel deragliamento del destino, sono tornate a casa.
Christiane mi ha raccontato di un bar in centro a Roma. Un bar in un vicolo dietro piazza Navona. Un bar dove passa gran parte della giornata a leggere e ad incontrare volti, quanto non va a scuola, quando la sofferenza è troppo forte per sentirsi parte del gruppo.
In quel bar sono passato diverse volte. Sono entrato sempre anche solo per un caffè, solo per dare un'occhiata, solo perché avrei potuto incontrarla, di nuovo, questa volta fuori dall'oscurità del Pronto Soccorso, fuori da quella notte. Sperando di non incontrare più quegli occhi, rossi e tristi. Sperando di trovare la vita.
Non l'ho mai più rivista. Forse si è salvata. Forse l'eroina l'ha presa definitivamente.
Come Christiane F. di Berlino. Ma lei in psichiatria alla fine non è mai entrata. Lei in psichiatria non è mai tornata.
E ogni volta che passo di fronte a quel bar, e che entro e non la vedo, un pò sono triste.
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