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LA CURA E LA POLIS AL TEMPO DEL CORONAVIRUS

7 Mar 20

Di Michela-Gecele, gianni.francesetti

Figli dell’epoca

 (…)

Che ti piaccia o no,
i tuoi geni hanno un passato politico,
la tua pelle una sfumatura politica,
i tuoi occhi un aspetto politico.
Ciò di cui parli ha una risonanza,
ciò di cui taci ha una valenza
 in un modo o nell'altro politica.

(…)

Wislawa Szymborska

Giorni concitati, letteralmente e metaforicamente febbrili. Gianni dovrebbe essere a Kazan, ad insegnare in un seminario programmato, come molti altri, ormai tre anni fa. Spensieratamente. Michela è rientrata in anticipo da un giro di presentazioni del suo ultimo libro. Stanno saltando i prossimi seminari all’estero, programmati molto tempo fa senza alcuna preoccupazione, saltano i seminari della scuola di specializzazione. Dobbiamo trovare modi diversi di insegnare e imparare. Saltano le normali attività cliniche, nel Servizio di Salute Mentale e nel Centro Clinico per la psicoterapia accessibile Mattia Maggiora. Saltano le supervisioni in gruppo e le riunioni di équipe.  Salta ciò che fino a ieri, anzi, fino a poche ore fa, davamo per scontato. Sì, perché i bollettini medici e della sicurezza arrivano e cambiano gli scenari in un arco temporale che si misura in ore, addirittura in minuti, non più in giorni. Salta lo scontato, che ci limitava e sosteneva senza bisogno di pensarci. Il terreno si scuote, si terremota. 

Scriviamo e comunichiamo perché sentiamo la necessità di farlo, una necessità che ci comprende e ci travalica. Un modo per esprimere le voci del campo e per sentirci, per toccarci, almeno virtualmente. Avvertiamo in questo una responsabilità, innanzitutto per i nostri pazienti e allievi, con i quali viviamo questo momento, ma anche per una comunità più vasta, che arriva a comprendere tutto il genere umano. Vogliamo così tessere, o almeno imbastire, un supporto narrativo che crei fili – anche solo in aria o nell’etere – per cucire e tenere insieme le risonanze affettive che altrimenti resterebbero caotiche. Desideriamo creare una possibilità perché i vissuti sedimentino e possano maturare in memorie non solitarie, idiosincrasiche, ma condivise e rintracciabili. Tentiamo di tessere una personalità sociale, per raccogliere vissuti che altrimenti rischiano di restare schegge individuali, senza aggancio, senza terreno, senza tenuta. Sconvolgenti. Il panico è un affetto soverchiante, per definizione non contenuto da quella cerniera fra individuale e sociale che chiamiamo personalità. Non è con-tenuto, e utilizziamo il verbo nel doppio senso di tenere-con-l’altro e di essere tessuto-che–tiene. Narrare e condividere crea forme, invisibili ma profondamente efficaci, per tenere-insieme e insieme-durare. Il terreno fertile è il terreno comune. Da sempre narriamo a questo scopo.
E il nostro modo di esprimerci è quello di connettere esperienza e teoria. Ancora una volta troviamo conferma e inquadramento alla nostra esperienza nelle teorie già costruite. Teorie a loro volta provenienti dall’esperienza, in uno slancio e una pressione circolari.

Per esprimere quello che sentiamo e vediamo in questi strani giorni di coronavirus ci appoggiamo a due lavori, diversi ma complementari.

 




Lo scritto sulle esperienze bipolari, pubblicato da Michela nel libro L’altro irraggiungibile e in parte ripresa nel testo di psicopatologia Gestalt Therapy in Clinical Practice, e tutto il lavoro e lo studio interdisciplinare di Gianni sulle atmosfere, pubblicato in Psychopathology and Atmospheres.




Perché scegliamo questi due poli?
Inseriamo qui il link per poter leggere o rileggere i testi a cui facciamo riferimento, in modo che ognuno possa farsene un’opinione personale (www.ipsig.it) , ma diamo già anche qualche spunto di connessione con quello che stiamo vivendo.
L’idea dell’esperienza bipolare portata avanti nel capitolo sopra citato è quella di un’esperienza che travalica e precede la psicopatologia e che coinvolge tutti i parametri fondanti l’esperienza umana: il tempo, lo spazio, la ferita, il senso del limite, il bisogno di andare oltre, il sostegno e la mancanza di sostegno, il bisogno di relazione e spesso la difficoltà di viverla. E poi c’è un’idea molto semplice, che condensa tutto questo. L’idea che le fasi maniacali o ipomaniacali, di benessere, di eccesso, di sfida, dell’andare oltre, dell’osare, del rischiare siano legate a un rapporto favorevole fra energia e limiti: cioè a uno scioglimento di quelli che in Gestalt vengono definiti introietti, nella doppia accezione di mattoni che definiscono e fissano parametri e contenuti dell’esperienza e di blocchi all’esperienza stessa.
Perché questo ci interessa in tempi di coronavirus? Non per l’aspetto del contagio, naturalmente, ma perché, come abbiamo detto all’inizio e, soprattutto, come tutti stiamo sperimentando, in questo periodo stanno saltando molte delle nostre certezze, delle nostre abitudini quotidiane, delle situazioni note, delle regole implicite ed esplicite, dei modi di vivere che davamo per scontati. Si stanno sciogliendo.

 

Questo scioglimento dello scontato, per definizione, produce energia, che si libera, che non è più vincolata a schemi preformati, che non è più prigioniera e contenuta in essi. Tutto questo, come in ogni esperienza che possiamo fare rientrare nell’ampio range dell’esperienza maniacale o ipomaniacale, ha dei rischi, dei limiti e delle potenzialità. Qualcuno di noi avrà avvertito, soprattutto nei primi giorni di questa ”novità“ in corso, uno strano e paradossale aumento di energia, di eccitazione, quasi di buon umore, di euforia.
Non è strano, non siamo malati. Semplicemente sentiamo, abbiamo sentito, l’energia liberata da una quotidianità che si scompagina e si scioglie.
D’altra parte, altre persone, o tutti noi, dopo un po’ siamo anche entrati dentro una sorta di impasse depressivo in cui si riformano altri blocchi, che sono fatti, però, di paura, di parole altrui, di vecchie angosce e ammonimenti atavici e che occupano lo spazio dell’incontro, bloccando l’esperienza.

Non vogliamo assolutamente dare nessuna valenza positiva o negativa al processo in corso. Soprattutto, non vogliamo dare nessun giudizio o valenza psicopatologica né interpretazioni o soluzioni. Vorremmo semplicemente, come sempre cerchiamo di fare nella nostra pratica clinica e formativa, sottolineare rischi e possibilità di questo e di ogni momento della vita, di ogni fase positiva o negativa, semplice o difficile. Questo è  il nostro piccolo compito che cerchiamo di portare avanti insieme a tutti voi. Tessere fili che cuciono e tengono l’esperienza, sedimentano memoria, cercano senso, producono presenza.

Una parola chiave di quel capitolo sulla mania e di tutta la nostra teoria e pratica gestaltica è ‘sostegno’: il punto è di quale sostegno abbiamo bisogno per non essere preda degli angoscianti macigni della paura e di quale sostegno abbiamo bisogno per cogliere le potenzialità di un momento che sicuramente sarà, e già è, nel bene nel male, una fase di cambiamento di molti aspetti e presupposti della nostra vita quotidiana, anche per il futuro.
Possono essere tante le forme di sostegno e questa è sicuramente una di esse, almeno per noi: il fatto di esprimere quello che viviamo e pensiamo, il fatto di condividerlo con voi, il fatto di aspettarci dei vostri feedback, il fatto di dare un senso – non una giustificazione o una soluzione – a quello che stiamo vivendo, in modo da trovare, intravedere, delle vie da percorrere, per quanto dolorose e faticose. In questo modo compiamo il primo passaggio che ci costituisce come esseri umani: creiamo un mondo comune. Questa appartenenza ad un mondo comune non è più immediata, scontata, ovvia nelle emergenze. Per questo vi scriviamo.
E qui ci connettiamo all’altro sfondo teorico, che non a caso chiamiamo sfondo: quello  delle atmosfere. Siamo rientrati in Italia a fine febbraio e abbiamo trovato un altro mondo. Innanzitutto, prima di ogni cronaca o evento, percepibile come una diversa atmosfera: tesa, sospesa, in attesa. Un qualche cosa nell’aria che teneva tutti con il fiato sospeso. Un’atmosfera che ci pervade e ci prende, che sentiamo travalicare e comprendere, contemporaneamente, la nostra ipotetica singolarità. Da tempo sappiamo che in terapia della Gestalt la relazione precede la persona, poi abbiamo iniziato a chiarire che è l’intero campo relazionale e sociale a precedere il singolo essere umano, a contribuire a formarlo. Ora la nostra sfida teorica ed esperienziale è quella di parlare di atmosfere, attraverso le quali possiamo cogliere e sentire i movimenti del campo relazionale, sociale, umano e non umano. L'affettivo che circola fra noi e inton, dà il 'la', al nostro sentire. Da questa dimensione la nostra esperienza emerge.

Quante volte in questi giorni abbiamo sentito o pensato che stiamo vivendo in un film, in un’opera letteraria, in una distopia costruita da altri. Che ha una propria specifica atmosfera ed è un dare all’atmosfera una forma conosciuta, un quadro che possiamo capire e a cui ci possiamo connettere. Quello che avviene in modo concentrato e in qualche modo predeterminato in una visione cinematografica, nella nostra esperienza di spettatori e di partecipanti alle forme d’arte, avviene anche nella vita, che è una sorta di opera d’arte che ci travalica con le sue atmosfere. Il film però finisce e si esce dalla sala: lì ci accorgiamo che siamo stati presi dalla storia, abbiamo tremato, sperato, odiato, amato, stretto i braccioli della poltrona quando il protagonista era in pericolo estremo. Ma poi usciamo dalla sala, commentiamo, ridiamo, creiamo una cesura fra l’esperienza cinematografica, artistica, creatrice  di atmosfere, e la nostra vita. Ci differenziamo e ci distacchiamo. Parlandone, creiamo fili condivisi, anche quando abbiamo opinioni diverse, non importa. Creiamo fili che tengono l’esperienza. Il film diventa memoria, possiamo voltare pagina e andare in pizzeria.

Questo accade dopo che il film è finito. Durante, siamo immersi, presi, i nostri pensieri, le nostre sensazioni ed emozioni emergono dalla pellicola. E se non è un film? Semplicemente non possiamo uscire dalla sala, e quindi dobbiamo imparare ad abitarla. Ed ecco che il passaggio fondamentale è diventare consapevoli dell’atmosfera che stiamo vivendo, altrimenti siamo solo giocati da essa. Percepire il potere delle atmosfere consente di riconoscerle, e riconoscerle consente di non subirle, di non farle inconsapevolmente circolare e amplificare. La scienza è di grande aiuto in questo perché è la grande differenziatrice: guarda tutto da una posizione di distacco, oggettiva, impersonale. Per questo è la grande soccorritrice in questi momenti di emergenza. Ma non basta. Innanzitutto perché la scienza stessa genera una atmosfera tipica di cui è bene essere consapevoli. L’atmosfera scientifica trascende le soggettività e può dunque diventare inumana. Abbiamo esempi innumerevoli nella storia, fino alle azioni estreme per il bene della scienza dei medici nazisti. Ma la scienza non basta anche perchè essa è autorevole finchè ha qualcosa di esatto da dire o almeno di probabile da predire. Ma c’è così tanto di più in gioco nei vissuti, nelle angosce, nelle paure, nelle incertezze, nella rapidità dei cambiamenti di scenario che non basta tenere la barra dritta seguendo la scienza. Siamo chiari: questo è fondamentale. Ma occorre anche nutrire gli spazi relazionali in cui narrando ci differenziamo, non ci lasciamo prendere e basta, riconosciamo il presente, non perdiamo lo sfondo, ci ricordiamo di essere solidali, di essere fragili, vulnerabili, limitati.  È solo grazie a questi spazi tra-di-noi che riusciamo a non perderci: perché ci ricordano che la nostra vulnerabilità e il bisogno di relazione in fondo non sono una novità. Ci riportano alla dimensione di insufficienza individuale e bisogno dell’altro che non è altro che la forma fondamentale e imprescindibile del nostro essere umani. In questo senso, nulla di nuovo sotto il cielo.  Ma in questo modo tessiamo anima e futuro. Curiamo il nostro abitare la polis. Facciamo politica al tempo del coronavirus.

 

 

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1 commento

  1. federicadefi

    Carissimi Gianni e
    Carissimi Gianni e Michela,
    accolgo il vostro delicato invito a co-intessere la tela del senso possibile, in questo momento storico dalle “atmosfere soffocanti”.
    In rete imperversano numerosi scritti a tal riguardo anche da parte della nostra categoria professionale. La maggior parte di questi sono interessanti, d’altra parte il dibattito accademico lo è sempre: interessante ed utile, si spera, per la ricerca e la costruzione di interventi concreti in favore di un sostegno… corposo (incarnato, mi vien da dire, paradossalmente per questi giorni). Ho letto articoli che tentano una traslazione teorica della nomenclatura psicopatologica individuale sulla società (alla ricerca di un significato possibile); ne ho letti molti altri che interpretano i fenomeni cui assistiamo seguendo le teorie junghiane; non si contano le consolanti – quanto vane – teorie complottiste più o meno apertamente orientate alle conoscenze esoteriche; ma un appello come il vostro – tale chiamata alla condivisione di risonanze personali con il fine di tessere un senso narrativo senza aggiungere rassicuranti schematismi, ancora non lo avevo letto.
    Ed a questo, rispondo.
    Vorrei anche io tentare di farlo senza incespicare in griglie di lettura automatiche, attenendomi invece alla descrizione di quanto vivo ed osservo: così come vorrebbe il nostro amato incedere fenomenologico; così come ci sforziamo di fare insieme durante il lavoro condiviso al Centro Clinico Mattia Maggiora che citavate nell’articolo; così, senza sentirci ne santi ne eroi, accogliendo invece la vulnerabilità e la mancanza di riferimenti (potremmo dire: “Oltre le colonne d’Ercole”, citando un lavoro di Gianni dedicato al mondo-della-vita in psicosi).

    Iniziando a scrivere ho definito questa atmosfera come soffocante… non per caso. Sono per lo più respiratori i sintomi caratterizzanti l’influenza prodotta dal Covid-19. Questo virus che si espande ed impone un drastico arresto a quasi tutta la “produttività” nazionale, concretizza molti limiti e rallenta il nostro incedere quotidiano tra impegni, doveri, e necessità (io stessa ho pensato più volte in passato di scrivere su questo blog, ad esempio, ma non ne ho mai avuto il tempo!). Un’epidemia che, de factu “soffoca i nostri affanni” in un meraviglioso e vitale paradosso che permette di far emergere dallo sfondo delle ovvietà qualcosa che alla consapevolezza non era ancora così chiaro. Mi pare infatti che possiamo adesso notare chiaramente alcune dinamiche sociali non tanto “nuove di-per-se” e dovute all’emergenza, quanto “evidenti” poichè finalmente spogliate dal velo della rincorsa quotidiana al successo personale. Ma su questo aspetto taccio, per insufficienti competenze specifiche e sopratutto per non tradire le premesse narrative che mi sono data.

    Quando si soffoca arriva tangibile il senso del limite. L’angoscia accompagna la sensazione di non poter controllare gli eventi e la rabbia segue velocemente questo incedere emotivo nel tentativo di difendere le proprie conquiste territoriali. Questo ho osservato dall’inizio della quarantena, in me, in altri, in contesti diversificati.
    Infine, mi è soggiunta una profonda tristezza nel constatare che l’istinto di sopravvivenza può soverchiare la ragione fino al punto tale da costituire e rafforzare quello stesso circolo vizioso dal quale si ergeva come “meccanismo di difesa” (e mi riferisco all’esodo incontrollato delle ultime ore in cui molti sono corsi via dalle zone più colpite dai contagi senza però usare sufficienti strumenti di respons-Abilità).

    Eppure, se spengo la televisione (ed anche necessariamente il cellulare che, tra continue ricezioni di comunicati drammatici e vignette sdrammatizzanti, ormai da una settimana devo ricaricare 2 volte al giorno affinchè arrivi ancora acceso all’ora di cena) e guardo fuori dalla finestra, allora mi accorgo dei mandorli rosa e dei primi grandi fiori delle magnolie: la primavera non aspetta il nostro (buon?)senso. Se mi concedo, insomma, di “essere incarnata”, quasi mi sorprende e mi stupisce la coltre di angoscia che un’attimo prima pareva risucchiarmi. Attenzione, largo ai fraintendimenti: con questo non voglio assolutamente negare la gravità dei fatti ne la necessità di questa quarantena italiana. Piuttosto, voglio evidenziare che

    MENTRE SOFFOCO E NON POSSO RESPIRARE, ALLORA SPALANCO GLI OCCHI, E FORSE RIESCO AD APPROFITTARE PER VEDERE MEGLIO.

    La mole soverchiante di informazioni riguardanti il corona virus, le opinioni che nessuno di noi risparmia, il rumore che facilmente generiamo, ancora una volta ci allontanano dall’incarnare l’esistenza; ci allontanano dalla dimensione del fare, e del fare-bene che corrisponde anche al pensare-bene. Come ben sappiamo i nostri pensieri generano reazioni biochimiche, e modificano i campi elettromagnetici intorno a noi.
    Carlo Rubbia, nostro connazionale, ha ricevuto il Premio Nobel nel 1984 per aver scoperto che il rapporto tra energia e massa è di 1 miliardo a 1. La scienza dunque testimonia che se ci si ferma ad osservare soltanto la materia indagabile con mezzi chimici e meccanici, si sta in verità osservando solo un miliardesimo della realtà. Tutto il resto è energia, nello specifico, fotoni connessi ai sistemi viventi che prendono il nome di biofotoni.
    Nonostante siano trascorsi quasi 4 decenni dall’assegnazione di questo Nobel, e si siano raccolte numerosissime ulteriori evidenze in tal senso, a noi ancora pare di parlar di “magia” o di “credenze popolari”.
    Mi chiedo, infatti, come mai non si agisca ancora in tal senso.
    Ogni giorno il nostro sistema immunitario combatte numerosissime battaglie sotto la soglia della nostra consapevolezza. Chissà quanti di noi, tra i più giovani in particolare, hanno avuto l’influenza dovuta al covid-19 senza accorgersene. A proposito del potere creativo del linguaggio, delle significazioni e delle categorizzazioni… certamente vale la pena chiedersi quale ruolo abbia effettivamente svolto l’informazione mediatica sulle reazioni dei singoli, e quale tipo di ruolo avrebbe potuto svolgere se fossero state sfruttate le conoscenze umanistiche esistenti riguardo al comportamenti sociali e “delle masse”.

    Stiamo sprecando la grande conoscenza scientifica raggiunta, forse perchè ancora una volta la lasciamo seppellita in quello sfondo che contiene tutto ciò di non facilmente misurabile? Forse perchè significherebbe ammettere un limite dell’uomo alla controllabilità delle variabili naturali? Evidentemente, questo l’uomo ancora non riesce a concederselo. D’altra parte la natura, come la sua primavera, non aspetta i nostri comodi, e il limite ce lo impone inesorabile.

    Ogni bravo terapeuta sa che le risorse della persona, e della personalità perfino, si sviluppano proprio a partire dalle vulnerabilità (questo vale per il paziente ma tanto più e tanto prima vale per il terapeuta).
    Rumi diceva che “dalla ferita entra la luce”, e io credo che questo non valga solo nella coscienza individuale, semmai esista una coscienza puramente individuale.
    Allora, nella migliore delle ipotesi e con il miglior sostegno possibile da parte delle professioni preposte, la drammaticità di questo momento storico potrebbe essere sviluppata in favore della riscoperta di molte risorse: individuali, dell’unione dei cittadini, del contatto con la natura e con la sua gratuità, del rispetto e dell’adattamento ai suoi cicli essenziali e alle distanze spaziali. La decrescita felice e la rilocalizzazione di Latouchiana memoria, sono solo un esempio della ripresa e rivitalizzazione possibile per il nostro mondo.

    Questa nostra specie, sarebbe ancora in grado di prendersene cura, lusso, diritto e dovere, nel lungo periodo?
    Qualcuno assimila il dubbio alla vulnerabilità; per me invece ogni domanda custodisce il sapore della verità (con la sua ineliminabile parte di mistero) molto più di mille teorie forti, e sempre uguali a se stesse.
    Così io preferisco vacillare, dare tempo al tempo, ed aprire gli occhi un pochino di più.

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