Le più alte cariche istituzionali in materia di salute pubblica consigliano di ridurre i rapporti sociali allo stretto necessario, di non frequentare discoteche e teatri, di lasciare scuole ed Università chiuse.
Insomma, un bollettino da guerra, in cui si chiede esplicitamente di cambiare modo di vivere. Il virus, appunto, è virale. Questo evento, portatore di crisi sanitaria, economica e relazionale, globale nella sua portata, subdolo nella sua contagiosità, sembra offrirci, tuttavia, spunti di riflessione su quella condizione ipermoderna in cui abita il cittadino del XXI secolo.
Certo, appare oramai non più appropriata la concezione di sur-modernità, quel mondo caratterizzato da cittadini che si incontrano, per così dire, in non-luoghi quali aeroporti, centri commerciali, fast food. Sembrava che il cittadino fosse, alle soglie del XXI secolo, immerso in una beata superficialità di legami, in un fugace scambio di battute e di saluti. La stretta di mano era ancora possibile, anche se poi non si ricordava il nome di quel tizio lì a cui ti eri presentato senza interesse.
È venuta poi la crisi economica, la grande recessione, si è parlato di turbocapitalismo, di robber barons del XXI secolo con conti e yatch alle Caymans. Insomma, una nuova sollevazione contro capitale e capitalisti sembrava alle porte. Ma niente, la crisi economica è stata alleviata su Facebook, Instagram e TikTok (che ammetto di non avere, come quasi tutti i neo-adulti).
Abbiamo quindi pensato che forse sì, in fondo, tutte queste problematiche erano reali, ma che gli effetti si sarebbero riversati sugli adolescenti, su quella i-generation iperconnessa. Loro, gli adolescenti, erano destinati alla dipendenza da Internet e dagli smartphone ed alla loro sostituzione con l’Intelligenza Artificale, con cyborg e robot umanoidi ed empatici. Ma, tutto sommato, neanche questo è avvenuto, anche se gli adolescenti non ascoltano più De André o non apprezzano più il cinema di Fellini o Luchino Visconti.
Insomma, al netto delle più dettagliate indagini sociologiche, niente di così imponente è sembrato turbare le coscienze degli abitanti del primo ventennio di questo secolo. Diciamoci la verità, siamo andati avanti con gli ultimi smartphone, in viaggio per il mondo con voli low-cost, a divertirci per le strade della movida.
Lo scenario più simile a questa condizione pare quello di Twin Peaks, una soleggiata cittadina di montagna in cui la vita trascorre tra tradimenti, inganni, segreti, piccoli momenti felici ed imbrogli mai svelati. Ma ecco che, appunto, un evento sconvolge la serena comunità. Chi ha ucciso la ragazza ritrovata nel fiume? Praticamente tutti avevano rapporti con lei. Quindi tutti sono potenzialmente colpevoli.
Ecco che oggi, allo stesso modo, un evento imprevisto sta sconvolgendo il nostro modo di vivere: il COVID-19, meglio conosciuto come coronavirus. È il virus del contatto. Per prevenirne il contagio meglio evitare strette di mano, abbracci, assembramenti pubblici. Insomma, la cosa migliore è stare a casa. Come in Twin Peaks. Il punto è che, nel caso del coronavirus, e proprio come nella serie TV di David Lynch, non c’è stata alcuna atmosfera premonitrice, alcuna aura di sospettosità o pre-delirante – come diremmo noi psicopatologi in maniera un po’ tronfia. In breve, in questi casi un evento sconvolge, scardina, sradica le abitudini di vita di una cittadina, come Twin Peaks, o di un mondo intero, come nel caso del coronavirus.
Ora, dovremmo chiederci, da un lato, quali sono quei fenomeni resi evidenti dall’evento e, dall’altro, come è strutturato quel terreno su cui l’evento agisce. Dunque, in Twin Peaks, l’omicidio di Laura Palmer smaschera gli inganni, i misteri, i sotterfugi, che, in fin dei conti, portavano avanti la vita della città. Di fatto, la sospettosità, l’inquietudine, l’ansia, sono intollerabili tanto in Twin Peaks quanto nella condizione ipermoderna. È l’evento a rendere visibili le paure, radicate in un essere connessi ma decontestualizzati, social-networkizzati ma privi di vere reti sociali. Insomma, l’evento rende manifesta la paura. E qui il discorso si fa radicale, in quanto parliamo di paura e non di ansia. Le inquietudini del XX secolo – dai racconti di Kafka alle poesie di Quasimodo, dai romanzi di Musil ai dipinti di Francis Bacon – sembrano lasciare il posto al realismo della paura.
Se quindi l’invisibile, nel XXI secolo, sembra emergere soltanto dalle analisi dei big data per orientare le nostre paure verso qualcosa di pre-definito e pre-confezionato, la follia sembra deviare – riacquisendo forse il suo carattere più originario – da paura dell’indefinito e del misterioso a definita paura del vivere, paura di essere-nel-mondo, di essere con gli altri.
La paura del contagio, infatti, fa nuovamente materializzare antichi timori. Non più l’inquietudine di Pessoa o l’ansia epocale di Auden, quanto la paura di Bergman, il chiudersi nella fortezza del Settimo Sigillo. In Twin Peaks, l’agente speciale Cooper è incaricato di risolvere il mistero, che sembra più quello della vita nella città che quello di scovare l’assassino. Nel caso del Coronavirus, invece, non si sa ancora a chi affidarsi. In ogni caso, l’evento ha scoperchiato quei vissuti di paura, precisi, costituitivi del terreno su cui l’evento accade, che in qualche modo vengono esorcizzati dall’ansia e dall’inquietudine. Ma questa è una sfida decisiva, poiché la paura, per essere accolta nella sua portata dialogica e narrante, richiede delle risposte, delle strategie per contrastarla e per comprendere quel terreno su cui appunto focolai virali possono radicarsi ed espandersi.
La paura del contagio, la ricerca dell’immunità, il timore dell’evento stesso, ci pongono, in fondo, di fronte alla questione del nostro essere, del senso della nostra vita. La paura dell’evento sembra riferirsi alla paura di dare un senso alla vita su cui l’evento stesso si inserisce, ad una vita che è la nostra vita.
Se l’epoca delle grandi narrazioni è terminata – con il ridimensionamento della religione, della politica, della famiglia –, e se l’età dell’ansia, dell’inquietudine e dell’incertezza è stata sedata dalla frenesia, dalla corsa agli acquisti, dalle comodità tecnologiche e dalla movida, l’evento ci mette a nudo di fronte alla più radicale paura dei nostri tempi, quella di dare un senso alla nostra vita in questo mondo. Mondo caratterizzato dalla ricerca dell’immunità, dal ritrarre la mano, dal donare solo in cambio di qualcosa, dalla paura stessa come fondamento del vivere e, quindi, da rabbia ed aggressività diffuse. La fenomenologia della paura – l’età della paura come condizione ipermoderna – ci ripropone la domanda sulla morte, riarticolandola come domanda sulla vita.
Sembra, dunque, che il terreno su cui, in maniera così fertile, l’evento – con la sua carica di virulenza, chiusura in sé e blocco di scambi e frontiere – può accadere è in fondo quello della paura dell’esserci. Paura che, come detto, non è un vago timore, un’indefinita inquietudine, ma una diretta e consistente paura della vita, in assenza di narrazioni ed identità predefinite, nella liquidità dei legami.
Ecco che però il fronteggiare un nemico visibile, rendendo manifeste alcune dinamiche, offre indicazioni sulla possibilità di affrontare paure invisibili, quelle che si manifestano con rabbia, rancore ed odio. Ma la sfida che ci pone il COVID-19 è proprio quella di ribaltare le tattiche difensive: dedicarsi a ciò che riteniamo importante per noi, far vivere sentimenti ed emozioni, affidarci a chi mette a rischio la propria vita per noi, come i tanti medici, infermieri ed operatori sanitari che sono al lavoro in questi giorni.
Di fatto, in Twin Peaks, l’omicidio di Laura Palmer ha una sorta di effetto catartico: amori, verità non dette, buoni propositi, vengono finalmente alla luce, dimostrando di avere un senso proprio in momenti di crisi. È la portata del visibile, con la sua carica di paura, a rendere manifesto l’invisibile, nella sua natura che, per dirci la verità, il più delle volte è molto più bella di quanto pensiamo.
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