In questi giorni è impossibile, leggendo giornali e soprattutto guardando la tv o i siti internet dei quotidiani, evitare di essere inondati da notizie sull’emergenza coronavirus. I siti, i post, i brevi comunicati dei giornalisti fanno a gara per dare qualche scoop in merito a iniziative del governo, ai pareri degli esperti più in vista, quando non addirittura sulle statistiche più aggiornate circa il numero dei morti causati dall’epidemia. È una forma di comunicazione che induce a riflettere sullo stato dei nostri media e sui motivi più profondi che li muovono nella loro attività, al di là degli specifici fatti di cui si occupano che a volte possono essere realmente preoccupanti, come quello di queste settimane.
Per affrontare un atteggiamento che non è tipico solo di questo momento ma costituisce a mio avviso la malattia principale dei nostri mezzi di informazione, vorrei partire da alcuni concetti base.
I media hanno una capacità di influenzamento della pubblica opinione, e questo è un dato acclarato da molti studi condotti nel corso della seconda metà del Novecento. Non si spiegherebbero altrimenti i grandi investimenti che i politici fanno da sempre sulle campagne elettorali e per garantirsi una presenza massiccia sugli organi di stampa e le trasmissioni televisive. Questa capacità di influenzamento però non consiste, come alcuni potrebbero ingenuamente ritenere (e come si pensava all’inizio del secolo scorso), nella capacità di far cambiare di sana pianta opinione a chi recepisce le informazioni trasmesse dai media, per il semplice fatto di essere esposto costantemente a determinate informazioni. Si tratta di una concezione semplicistica e ormai obsoleta detta “teoria ipodermica”, secondo l’efficace immagine di un ago che penetra lentamente ma inesorabilmente sotto l’epidermide del pubblico e genera i suoi effetti. Essa poteva avere un senso solo al tempo di una popolazione in gran parte analfabeta e priva di strumenti per potersi documentare e difendere dalla stessa. Gli studi hanno invece dimostrato nel tempo che è molto più difficile far cambiare opinione su un certo argomento a un pubblico che ha una sua convinzione perché ben definita (siamo in genere legati alle nostre convinzioni e le cambiamo difficilmente) oppure in base ad altri fattori soggettivi come l’esistenza di pregiudizi, il grado di interesse verso certi argomenti, il livello culturale ecc. è più facile invece convincere gli indecisi, che non è un dato secondario, dato che a seconda delle circostanze e delle tematiche oggetto di informazione, essi possono anche essere molti. Quindi le campagne informative martellanti non sono inutili e possono spostare gli equilibri dell’opinione pubblica in certi momenti per il semplice fatto di essere ripetute.
Detto questo, c’è anche da dire che un altro effetto evidenziato dalle ricerche, centrale per ciò che si vuole qui sostenere, è che i media creano nella mente delle persone uno schema interpretativo preferenziale della realtà: forniscono alcune coordinate di fondo, e soprattutto stabiliscono una priorità relativamente a ciò che è rilevante nella realtà che viviamo, un effetto questo che prende il nome di agenda setting. Col fatto di concentrarsi ogni giorno su determinati argomenti e ripetere sistematicamente certe informazioni, i media riescono a creare una mappa cognitiva nella mente di molte persone, un’agenda appunto di priorità da tenere in considerazione per orientarsi nella realtà e capire verso dove dirigere la propria attenzione. È facilmente comprensibile quanto questo effetto possa influenzare l’atteggiamento abituale delle persone o le loro reazioni comportamentali in situazioni come questa.
Ebbene, cosa può creare un tam-tam mediatico come quello a cui stiamo assistendo a tutte le ore del giorno da quando, alcuni mesi fa, è iniziata l’emergenza coronavirus in Cina? A mio avviso, che si è tutti in pericolo di vita, dato che la prima informazione che viene data è il bollettino sul numero dei morti che di giorno in giorno, come in tutte le epidemie che si diffondono, continuano a crescere. A poco vale poi il recente tentativo, piuttosto ridicolo perché tardivo, di migliorare l’informazione fornendo prima il numero dei guariti giornalieri rispetto a quello dei deceduti, dopo l’assalto ai negozi per accaparrarsi mascherine e disinfettanti vari. La notizia della morte infatti, specie dopo essere stata diffusa così insistentemente, rimane comunque più impressa nella mente delle persone, essenzialmente per ragioni evolutive: per il nostro sistema cognitivo infatti la notizia di un pericolo è sempre più interessante, in quanto potenzialmente più rilevante ai fini della sopravvivenza. Né è meno grave la tendenza a fare da grancassa a determinati politici senza fungere da filtro preliminare ai tentativi di disinformazione da parte degli stessi; politici che, pur di mantenere visibilità o guadagnare qualche facile consenso, sono capaci di dire tutto e il contrario di tutto nel giro di poco tempo su questioni molto delicate su cui spesso non sono informati e che dovrebbero invece rimanere, quando sono ancora in evoluzione, di stretto dominio dei tecnici.
Il problema non è poi solo nella modalità, ma anche nella qualità delle informazioni diffuse. Se si decide di citare il numero dei morti bisognerebbe anche dire ogni volta definirli: precisare che caratteristiche avevano, se erano o no in buona salute, per quanti di questi il virus è stata la causa principale del decesso ecc., altrimenti la collettività è indotta a pensare genericamente di essere tutta in pericolo o, nel migliore dei casi, a non sapere cosa esattamente pensare. In entrambe le situazioni la reazione più logica è lo scatenarsi di comportamenti irrazionali, di confusione se va bene (con gli esperti che non sempre dicono cose sovrapponibili), di panico (vedi le fughe da nord a sud nonostante i consigli o i divieti delle istituzioni) o al contrario di negazione del pericolo (ad esempio con la normale continuazione delle attività pubbliche e ricreative), un po’ come avviene coi fumatori che non guardano più le immagini terrorizzanti sui pacchetti di sigarette oppure ci scherzano su per esorcizzare il pericolo costantemente posto sotto i loro occhi. Si tratta di effetti rilevanti, che contrastano lo scopo di indirizzare le persone a comportamenti più utili e adeguati per fronteggiare una situazione di emergenza o di rischio, e di cui le ricerche in ambito di prevenzione hanno da tempo rilevato la non efficacia o addirittura la possibilità di effetti paradossali. Eppure, nonostante ciò, tali strategie comunicative continuano ad essere messe in pratica.
C’è poi un altro effetto da considerare che gli studi sembrano confermare: oltre agli indecisi, i più suscettibili a certe informazioni allarmistiche ampiamente diffuse e ripetute sono i soggetti che si trovano, da un punto di vista emotivo, in una condizione borderline. In pratica le persone più fragili e sofferenti, che possono crollare da un punto di vista psichico e attuare comportamenti imprevedibili e potenzialmente pericolosi per sé o gli altri. È quanto avviene ad esempio nel fenomeno dell’imitazione del suicidio, che si verifica in modo crescente quando vengono diffuse notizie di suicidi in un certo territorio (ovviamente tra i soggetti già a rischio). È quindi assolutamente controproducente centrare l’informazione sulle emozioni, specie sulla paura. Si tratta tuttavia di effetti notori che tutti i giornalisti e i responsabili dei principali media di un paese dovrebbero conoscere, traendone le dovute conseguenze deontologiche; ciò che si rileva però nel nostro è una scarsa conoscenza o rispetto di tali acquisizioni, cosa che del resto non stupisce più di tanto considerato che la nostra stampa occupa posizioni medio-basse nelle classifiche internazionali della libertà di stampa (che include diversi indici tra cui autocensura, regolamentazione interna, indipendenza, pluralismo…).
A prima vista sembrerebbe una situazione di cui vergognarsi e ci si potrebbe chiedere: ma a quale fine attuare questa disinformazione (o informazione distorta)? Avanzo due ipotesi. La prima è di portare acqua al mulino della parte politica verso cui alcuni media tendono, gettando benzina sul fuoco della paura per mettere in cattiva luce la parte politica a cui tocca gestire l’emergenza. La seconda è invece di tipo meramente commerciale e forse ancora più grave: attirare l’attenzione sui propri media della fetta più ampia possibile di pubblico attraverso la diffusione di notizie allarmanti (che come detto attirano di più), al fine di aumentare i ricavi degli accresciuti introiti pubblicitari legati ai maggiori ascolti. A questa se ne potrebbe aggiungere infine una terza, più difficilmente comprensibile al giorno d’oggi ma comunque sempre possibile, data la scarsa meritocrazia che vige in diversi ambiti lavorativi del nostro paese: l’ignoranza o la noncuranza di questioni teoriche e deontologiche che stanno alla base della propria professione.
A mio avviso non c’è altra soluzione a questo stato di cose che lo studio e l’approfondimento razionale delle questioni da un lato, e dall’altro un’operazione di disintossicazione, autoregolandosi nell’accesso, dalla fruizione quotidiana di media che trasmettono notizie fuorvianti o di bassa qualità, centrate sulla parzialità ideologica, la scarsa precisione delle informazioni diffuse, la spettacolarizzazione a fini economici del pericolo e della paura.
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