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Il mio-corpo obbiettivato

29 Mar 20

Di Danilo-Cargnello
Questo è il quarto ed ultimo capitolo del famoso simposio milanese di Danilo Cargnello sulla corporeità. L’opera presentata e letta dal maestro nel 1968 è stata ricomposta e – su pol.it. psychiatry on line Italia [01] – ha finalmente raggiunto la sua originaria unità. Confesso di aver lavorato lungamente per averla ricopiata con cura, attenzione e pazienza, parola per parola, tal quale l’intesi all’epoca e ancora la rammento. Lo scritto è difficile, non lo nego. La punteggiatura dovrebbe agevolare la lettura, i puntini sospensivi, le caporali, le lineette, ecc. Per evidenziare maggiormente il pensiero del maestro mi sono preso l’arbitrio di profanare il testo evidenziando maggiormente il corsivo rinforzandolo col neretto. Sicuramente la correzione delle bozze saranno state per lui un vero tormento. Camilleri amava raccontare le sue lotte contro il PC che accusava di slealtà per nascondergli gli errori. Mio padre Ernesto, diceva che i refusi erano come i pidocchi più ne estirpavi e più ne trovavi. Ora ho finito, ma mentre lavoravo sul testo diligentemente, m’è tornata alla mente la Maestra della prima elementare, a Bologna, in via Carducci, che girava amorevolmente tra i banchi sorvegliando noi che riempivamo pagine intere di aste, stando bene attenti – arricciando le labbra dietro la lingua arrotolata e quasi protrusa – a farle dritte senza che sporgessero dalle righe. La Signora Béccàri, c’insegnava ad intingere bene il pennino nel calamaio, strisciando bene sul bordo per togliere l’inchiostro in eccesso. Badavamo che fosse quello giusto, il pennino e ben  inserito nella parte più larga del legnetto affusolato che mordicchiavamo in punta per … pensare. Già! Pensare cosa? Quei bambini, dopo l’ubriacatura degli annunci dal balcone iniziata nel 1936 «… Ascoltate! Il maresciallo Badoglio telegrafa… » e peggiorata con l’altra del 10 giugno 1940 – sempre con studiatissime pause e smorfie – «… Un'ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra Patria. L'ora delle decisioni irrevocabili … », che fu catastrofica, esiziale.
Anche questo scritto, l’ho riletto l’ennesima volta, concentrandomi nello sforzo per seguire il ragionamento dell’estensore, ma riemergendo, alla fine, sempre soddisfatto, a prender fiato. Un lungo respiro, da questo incredibile tuffo introspettivo nelle profondità dell’Io. Negli abissi dell’anima, forse? Come definire altrimenti, la radice dell’essere, il nocciolo dell’avere, l’incipit dell’ontologia. Il bandolo da dove l’essere tenta di afferrare la lunga scala di corda della filogenesi nella legittima, umana, indefettibile curiosità, di andare alla ricerca del principio che ha generato il tutto. Un esercizio eterno e antico di cui ci giunge eco dai presocratici. Come chiamare altrimenti questo luogo recondito, misterioso – al contempo dentro e fuori di me – che “sempre mi precorre senza che io possa sorpassarlo”; questo spazio mio, dove io posso ospitare chi voglio senza ch’egli sia fisicamente presente, il binswangeriano essere-nell’amore. Poi m’arresto e m’interrogo su che razza di pensiero sia mai questo, che sorta di linguaggio. Indo-europeo? Greco-romano? Certamente elitario, sicuramente europocentrico. Lo abbiamo appreso e tramandato pensando che fosse quello giusto, anzi l’unico al mondo. Hybris umana europea. Superbia, in questo mondo globalizzato dove giriamo come trottole per spargere inconsapevolmente le “10 piaghe d’Egitto” (una più, una meno): virus sconosciuti, pestilenze, locuste, pioggia di fuoco e di ghiaccio… per punire la schiavitù
Ma lasciamo gli affanni contemporanei e torniamo alle carte della storia, agli atti dei Congressi. Dopo oltre 1 ora di incredibili rivelazioni filosofiche ad un consesso di psichiatri ancora troppo succubi della neurologia (e del positivismo), eppure attenti, perchè intuivano, per la prima volta, che si stava cambiando registro, tramontava un’era, un sistema di pensiero … Ecco, dopo il “prodigio fenomenologico”, prendeva congedo dall’uditorio Danilo Cargnello, rammaricandosi di non poter “ulteriormente distendersi” per investire questioni specificatamente psicopatologiche. Riteneva di doversi arrestare “per ragioni di misura” alla mera enunciazione di alcuni dei principali argomenti di psicopatologia fenomenologica. Ulteriori precisazioni venivano rinviate alla discussione. Danilo Cargnello, aveva gettato un sasso in piccionaia. Per la prima volta si affacciava alla ribalta di un Congresso di psichiatria il pensiero fenomenologico, la psicologia come postulato della filosofia, liberata dalla sperimentalità wundtiana. Al di fuori dei cimeli museali del maestro, dei suoi libri di studio che documentano il corso di studi tenuti presso l'università di Lipsia i preziosi Belegbogen, indicati religiosamente dalla guida del celeberrimo Istituto di Psicologia Sperimentale di Lipsia.
Sarebbero venute poi – dopo la “grappa di Folgaria” e la “piccola pattuglia” che si riuniva al Caffé letterario di Firenze Paszkowski – la terapia, le scuole ad indirizzo psicoterapeutico fenomenologico, la schiera di studiosi entusiasti. Bisognava attendere 32 anni (2000) perchè s’inaugurasse la stagione dei “Corsi Residenziali” di Figline Valdarno (dopo qualche anno di rodaggio pistoiese), voluti da Arnaldo Ballerini ed a lui intitolati.
Da non trascurare la dimensione accademica della psicoanalisi che, anch’essa, si affacciava alla con piena dignità di disciplina autonoma alla ribalta della SIP, per merito di Dario De Martis e Fausto Petrella, il suo aiuto, allora fortemente sostenuti da Carlo Lorenzo Cazzullo, il “Cavour della psichiatria italiana” (copyrigt R. Rossi).
Sergio Mellina 
 
IV
 
IL MIO-CORPO OBIETTIVATO
 
Ciò necessariamente premesso, vediamo ora più a fondo che cosa veramente esperiamo quando, nell’autoesperirci «cogliamo» [02] il nostro corpo.
 
Nell’esser-per-il-dentro, delle due qualificazioni del Leib emerge di certo più nettamente quella dell’avere (come nell’essere-per-il-fuori quella dell’essere). È, infatti, soprattutto nell’autoesperirci che accediamo più nettamente all’Erlebnis di un nostro processo corporale. Allora il nostro corpo – come «qualcosa che ci appartiene, che abbiamo» – diventa termine del nostro intenzionare. Si attua così, come già si è accennato, una trascendenza immanente, in quanto ci «superiamo» (Ueberstieg) in un alcunché – diciamo pure in un «oggetto sui generis» (ma non per questo destituito di oggettualità anche se non assimilabile a qualsiasi altro oggetto) – che inalienabilmente possediamo e che è l’arché di ogni altro nostro possesso.
 
Gli studiosi moderni – soprattutto per sollecitazioni provenienti da Husserl – da decenni sono impegnati a discriminare ciò che «in essenza» diversifica il Leib da qualsivoglia altro oggetto, da qualsivoglia altro corpo di natura (minerale o vegetale o animale), compreso quindi anche il corpo a cui si interessa l’anatomico (che non è però come si disse una realtà «propriamente» umana).
 
Non bisogna mai confondere il Körper, il Körper della generica naturalità dell’uomo (ma non propriamente della sua umanità), cioè la cosa corporea, il Körperding, con quel «qualcosa» che nell’autoesperirci si dà come una nostra propria inalienabile appartenenza e che nel linguaggio corrente, non solo tedesco, io designo come mio corpo (mein Körper). Quest’ultimo infatti nel suo apparirmi si pone subito come termine del mio esistere, tanto è vero che posso dire intercambiabilmente: «ho un corpo affaticato, riposato, pronto, ecc.» oppure «sono affaticato, riposato, pronto, ecc.»
 
Le opposizioni che qui seguono contraddistinguono ciò che «in essenza» discrimina il Leib da ogni altro corpo-cosa (compreso il corpo nell’accezione anatomofisiologica) e non già da quel certo qualcosa di corporale che ritrovo in me e che mi si offre come termine di un mio particolare esistere, cioè di una trascendenza immanente [03] .
 
Chiediamoci: di questo oggetto « unico », «sui generis», diverso da qualsiasi altro in quanto soggetto-oggetto a un tempo, quali sono le peculiarità? Quali le caratteristiche che lo contraddistinguono dagli altri oggetti, pur essendo essenzialmente «irrapportabile» a qualsivoglia di essi? [04] Da Husserl in avanti fino a Merleau-Ponty [05] tutti i somatologi moderni si sono interessati in proposito. Di queste «essenziali» caratteristiche in parte si è già detto; qui, appunto, ci limiteremo – riassumendo – a completarne l’elenco:
 
       È un qui che non ha altro fuori di sé, è un qui assoluto, l’assoluto punto di riferimento di ogni altro da sé e condizionante ogni là [06].  ( Le cose sono appunto tutte là: per lui).
       Non mi abbandona mai: non può essere allontanato da me, né  io allontanarmi da lui [07].  (le cose invece possono esser allontanate da me ed io posso allontanarmene).
       L’esser presente del mio corpo esclude la possibilità della mia assenza [08]. – (la presenza delle cose non esclude la possibilità del mio assentarmi.  
       Si presta molto difficilmente alla mia esplorazione, tende anzi a sottrarvisi: mi è dato «in una percezione curiosamente incompleta» [09] ; la percezione del mio corpo è sempre indistinta, né io posso disporre a volontà di questo o quel senso nello sforzo percettivo. – (Le cose invece mi si offrono alla percezione in molteplici prospettive e possono essere colte volontariamente da questo o quest’altro senso).
       Detto in termini di Gestaltpsychologie: non riesco mai a staccarlo dal fondo, ed è per questo che la sua percezione mi è indistinta. – (Al contrario di quanto avviene per gli altri oggetti).
       Costituisce la spazialità correlativamente a una determinata coesistenza: « abita » lo spazio – Le cose invece sono semplicemente « immerse » nello spazio [10].
       È nelle sue essenziali capacità di muoversi liberamente e spontaneamente, ed è nella sua esistenziale spontaneità che viene appreso [11].  (Le cose invece devono venir mosse, si danno come meramente presenti)
        Non posso mai sorpassarlo e nello stesso tempo il mio corpo racchiude ed esprime ogni slancio di sorpasso. È sempre precorrente, cioè per qualcos’altro da sé; ed è nel suo precorrersi che mi schiude le possibilità di comunicazione. – (Le cose invece io posso sorpassarle o anche abbatterle; mi si pongono nella loro inerzia, mi ostacolano) [12].
 
 
La diversità essenziale che intercede tra Leib e Körper (anatomo-fisiologico) si può cogliere anche col chiederci come si chiede Zutt  [13] ciò che – per così dire si trova « dentro » il Körper.
«Per quanto Leib e Körper siano tra di loro irrapportabili, la loro irrapportabilità (la loro diversità essenziale) si può additare anche in questo, cioè nel cosa noi riteniamo essere il loro interno (Inneres). Nel caso del Leib l’interno è l’essenza individuale dell’uomo che si manifesta in carne ed ossa (Leiblich); nel caso del Körper questo interno è dato dalle strutture di cui consiste come continuità di parti» [14]. Ne discende, quasi a corollario, che se il Leib si manifesta in diversi aspetti ognuno di essi rivela però sempre una globalità umana che si esprime e si dischiude. Il Körper invece è un insieme di parti contigue, poste cioè in una successione di continuità, ma che si possono benissimo pensare come a se stanti (come nel caso dell’anatomico, del fisiologico, ecc.), e anche di fatto separare, nessuna delle quali però corrisponde a una qualsiasi realtà umana.
 
Altro discorso va fatto invece per il corpo come «mio» (mein Körper) per quel «qualcosa» che «assolutamente e inalienabilmente » (v.i.) mi appartiene e che, seppur esperito come un alcunché, è in essenza diverso da qualsivoglia altro oggetto e pertanto « unico » (v.i.) [15]. Mai, infatti, questo qualcosa-che-è- il-mio-corpo può assimilarsi, anche per deliberata volontà, col corpo-mera-cosa dell’anatomia.
Nel nostro muoverci [16] (e non solo coll’apparato locomotorio ma anche con la percezione, la rappresentazione, l’immagine, con il pensiero o nella memoria) esso di solito ci resta opaco, «passa sotto silenzio» (Sartre). Allora, io, sono – «per lui» a tramite di tali funzioni – «nel mondo»: tuttavia «in quel mondo e a quel modo» che il mio corpo (in quanto propriamente fungente per me) mi dischiude, hic et nunc.
Il corpo però può lui stesso diventare termine del mio intenzionare. Il mondo che prima mi appariva come fuori di me ecco che mi si rivela in me e tuttavia non con me identificabile. Prima col corpo mi mondanizzavo in ogni altro-da-me, ora mi mondanizzo col corpo in un altro-da-me che ritrovo nel mio corpo.
Ed è appunto così che io – in questa sorta di trascendenza immane –accedo all’esperienza (Erlebnis) del mio stesso corpo. Accedo contemporaneamente anche a un’altra esperienza, che prima mi era del tutto sconosciuta: tra me e il mio corpo (diventato ora termine mondano del mio esistere) esperisco una certa distanza, che si rivela sempre più netta quanto più protraggo la riflessione, quanto più io mi mantengo trasceso (o sono costretto a mantenermi trasceso, come ad es. nel caso di una malattia fisica) nel mio «ambito» corporale.
Questo processo tuttavia non destituisce la mia istanza corporale del suo (inalienabile) carattere di «mia». Però, protraendosi a lungo, esso finisce per colorirla di estraneità, tuttavia senza riuscire mai del tutto a farle perdere il suo essenziale e costitutivo, connotato egoico. Il mio-corpo, diventa così per dirla con le parole di Husserl: mia estraneità. Il processo di distanziamento può arrivare fino a un punto massimale, in cui tutto il corpo o una sua parte tendono ad apparirmi come mera cosa corporea. Tendono: senza peraltro che a detto traguardo mai si pervenga in quanto è un limite irraggiungibile. Il mio corpo pur così estraniatosi non perde mai del tutto le sue connessioni con l’Io. L’arco intenzionale che lo collega al polo egoico per quanto allungato e allentato si mantiene sempre. Questo punto va tenuto ben fermo specie quando queste nozioni verranno riprese nel contesto di un discorso psicopatologico.
 
Dalla lettura delle opere di Zutt abbiamo creduto utile dedurre al riguardo la seguente tabella, che succintamente e pan otticamente prospetta ciò che testé si è detto [17].
 
Il mio corpo come:

 
 
In questo processo di riflessione il corpo si propone in effetti come oscillante tra percepito e rappresentato [18]; ognora però come procedente dal nucleo egoico, anche se via via nei suoi confronti sempre più distanziantesi [19]. Non viene infatti mai perso il riferimento all’Io, anche se – come nella situazione di certi casi patologici o quanto meno desueti – il corpo possa proporsi come molto distanziato rispetto all’istanza egoica, che nei suoi confronti sembra allora ritirarsi in una sorta di anacoresi [che vive appartato, eremita] (Winkler) [20].
 
Quanto finora si è detto può essere assunto anche come tema di un discorso topologico. Ricollegandoci per esempio alla psicologia dinamica di Kurt Lewin (Feldtheorie) e al ripensamento antropologico che ne ha fatto il Kisker [21] (nella prospettiva di psicopatologo, potremmo così rappresentare i rapporti che intercedono tra nucleo egoico e l’istanza corporale che vi corrisponde.
 

 
 
(N.B. – In questa rappresentazione topologica non trova ovviamente posto il corpo come corpo-cosa, come Körperding, in quanto essenzialmente estraneo alla fenomenicità dell’umano).
 
In tale rappresentazione topologica troviamo
  Al centro il nucleo egoico (Io), termine polare di ogni-esser-nel-mondo; qui il termine mondano viene a risultare lo stesso corpo. Tale nucleo egoico appare fortissimamente costituito ed esperito in qualsivoglia manifestazione dell’esistenza (Io-sono). (Cerchietto piccolo centrale a tratto grosso).
  Attorno a questo nucleo si situa l’ambito egoico, fortemente connesso col nucleo egoico e a questo sempre fortemente riferentesi. La riflessione sul proprio corpo o anche particolari processi psicopatologici possono portare a esperienze di restringimento di quest’ambito, la cui barriera tuttavia non è possibile mai infrangere finché sussiste coscienza. (cerchietto più grande a tratto grosso).
  Attorno a questo ambito vengono a disporsi le varie falde del corpo proprio (Leib): sempre più superficiali rispetto alla centralità, via via meno iuxtaegoiche, però mai destituite di connotato egoico, in quanto sempre collegate da un arco intenzionale (vettori) coll’Io. I limiti delle varie falde del Leib risultano al contrario pervi all’autoriflessione, fino a vanificarsi (o quasi) in certi processi psicopatologici (per es., nella cosiddetta «depersonalizzazione somatopsichica»). (Cerchi via via più ampi: a tratti sottili).
  I cerchi più esterni rappresentano le falde più proculegoiche del corpo (mein Körper) ove più netto si palesa, pur sempre accanto al senso di essere, il senso di avere un corpo (mia-propria-corporale-estraneità). Tali falde sono ancor più pervie all’autoriflessione (cerchi ancor più ampi: a tratti sottili discontinui)
 
 
Il discorso potrebbe ulteriormente distendersi e approfondirsi, investendo questioni specificatamente psicopatologiche ed entrando così nel vivo del tema del nostro simposio. Ma per ragioni di misura credo doveroso arrestarmi a questo punto. Nella mia qualità di moderatore, di proposito mi sono limitato a delle precisazioni concettuali e metodologiche di ordine generale per dar avvio il più possibile chiaro a una problematica di avvincente e attualissimo interesse, si, ma che – come si è detto all’inizio – per la prima volta (o almeno così esplicitamente) si affaccia alla ribalta di un Congresso Nazionale di Psichiatria
 
Note
01. I precedenti sono stati pubblicati su POL. it Psychiatry on line Italia nell’ordine seguente: 1) Il problema della corporeità. La mano come esemplificazione (20 gennaio, 2020). 2) Corporeità. La somatologia (12 febbraio, 2020). 3) Il Corpo proprio (20 febbraio, 2020).
02. Viene usato in proposito il non impegnativo verbo “cogliere”, perché per ora è meglio lasciar impregiudicato se si tratti di percezione o di rappresentazione o di memoria, oppure anche – non volendo per il momento abbandonare un ormai frusto e opinabilissimo termine – di schema.
03. Queste opposizioni specie in riferimento alle formulazioni che si ritrovano nell’opera di Merleau-Ponty, sono state elencate in un mio antecedente scritto (Fenomenologia del corpo, Ann. Fren. e Scienze Aff. Vol., 77, n. 4, p. 365-379 – 1964), in una tabella che si riferisce al paragrafo iniziale (ove il richiamo) e nelle cui testate delle due finche ricorrono appunto gli stessi termini del titolo del primo paragrafo (la tabella per ragioni tipografiche è stata stampata, poche righe più avanti, nella pagina seguente). In Merleau-Ponty non si tratta come qualcuno ha creduto – dell’opposizione tra Leib inteso come “corpo che sono” e Körper “come corpo che ho”, ma del Leib come “corpo per me” e di Körper preso di per se stesso (non fungente per me né termine del mio intenzionare), cioè del corpo naturalisticamente inteso, ridotto a cosa. Ovviamente si può avere il corpo come lo ha l’anatomico o il fisiologo: questi però lo “hanno” come mero oggetto e non già come quell’oggetto “unico”, quell’inalienabile, assoluta appartenenza che ritrovo in me quando affermo di « avere il mio corpo » oppure quando mi articolo “in carne ed ossa” con un socius.
04. L’Io… « “ha” un corpo proprio: esiste una cosa materiale di siffatta natura che non è mera cosa materiale, bensì corpo proprio». «Il Leib si presenta come un alcunché di genere particolare, tanto che non si può ordinare nella natura come un elemento tra gli altri». (Husserl, Idee ecc. II, par. 40 e 41).
05. Phénoménologie de la perception, p. 106 e segg.
06. Husserl, Ibidem, par. 41.
07. Husserl, Ibidem, par. 41.
08.  Merleau-Ponty, op. cit.
09. «Il mio corpo che mi serve da mezzo percettivo (organo), mi è di ostacolo alla percezione di me stesso: l’ho per questo come mia cosa costituita in modo curiosamente incompleto». (Husserl, Ibidem, par. 41).
10. Merleau-Ponty, op. cit.
11. Husserl, Ibidem, par. 41 – «Il corpo proprio… è organo di volizione, l’unico oggetto che la volontà del mio Io possa muovere liberamente e spontaneamente». (Husserl, Ibidem, par. 38).
12. Merleau-Ponty, op., cit.
13. Di Jürg Zutt sia qui citate due opere fondamentali:
Auf dem Wege zu einer anthropologischen Psychiatrie (V. Springer, Berlin/Göttingen/Heidelberg – 1963). È una raccolta di saggi, di cui particolarmente importanti per il tema in discorso sono i seguenti: Gedanken über der menschliche Bewegung etc. (1956), Vom gelebten welthaften Leibe (1958), Ueber den tregende Leib (1958), Zur Anthropologie des Vegetativen (1960), Der Leib der Tiere (1963).
Ueber Verstehende Anthropologie (in: «Psychiatrie der Gegenwart», Bd. ½ V. Springer, Berlin/Göttingen/Heidelberg – 1963), pp. 704-852. Particolarmente importanti per il tema in discorso il cap. III par. 4 (Ueber Leib und Körper etc., p. 789 e segg. e tutto il cap. V (Vom gelebten Leben und vom gelebten, welthaften Leib, etc., p. 803 e segg.).
Dell’opera di Jürg Zutt e scuola ha dato ampio ragguaglio, in Italia, Adolfo Bovi, che ascolteremo tra poco e ai cui scritti si rimanda.
14. Op. cit sopra, cap. III, par. 4, p. 792 (liber. trad.).
15. «… se esso sembra, lui pure, essere una cosa, esso non lo è mai in quanto mio corpo, fintantoché è esperito» (De Vaelens, loc., cit. p. 384.) «È una soggettività-incarnata: una modale unità e non già un composto di soggettivo e di corporeo». (Marcel, op. cit.). 
16. «Io non posso essere a un tempo Leib, Leib che si muove (beweglich) e avere contemporaneamente questo Leib, oggettivarlo … ad adeguata distanza » (Zutt, Ueber Leib und Körper, in: op. cit., p. 795).
17. Crediamo non indispensabile indicare la corrispondenza tra la terminologia zuttiana e quella di altri fenomenologi, lasciando in proposito il non difficile compito all’attento e accorto lettore.
18. Forse tanto più come rappresentato e meno come percepito quanto più si protrae la riflessione.
19. Entichung = disegoizzazione.
20. Ich-Anachorese (Winkler = anacoresi dell’Io; Ich-Rückung = ripiegamento dell’Io.
21. Kisker Klaus. Peter. Der Erlebniswandel des Schizoprenen. V. Springer, Berlin/Göttingen/Heidelberg, 1966.

 
 
 

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