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COVID-19: IN UN MONDO VISSUTO RESO INABITABILE, TRAVERSARE LA NOSTRA SOGGETTIVITÀ MENOMATA

2 Apr 20

Di Dafne-Buttini
“Nessuna notte può essere eterna. Anche questa notte andrà verso l’alba, e quelli che di noi la vedranno, la vedranno anche con gli occhi di chi non ce l’ha fatta” (G. Di Petta)
 
Siamo evidentemente impreparati ad accogliere l’evento-virus che, nella sua traumaticità improvvisa, penetra con l’irruenza di un corpo estraneo all’interno delle nostre esistenze, interrompendone la continuità storica e minando, alle sue fondamenta, il tessuto della nostra soggettività.
Esperiamo la presenza, attorno e dentro a noi, di un’invadenza passivizzante, di una turbolenza inattesa, di un’impotenza soverchiante e, rimasti in scacco di fronte a una violenza di tale spessore e di cui abbiamo ben manifesta la portata allarmante e continuativa, ci lasciamo impregnare dall’angoscia e dallo sperdimento, rischiando di rimanerne fagocitati.
In ragione di questo situativo del tutto peculiare nel quale siamo attualmente immersi e conseguentemente all’attuazione repentina di misure cautelari (massimamente inflessibili quanto necessarie), ci troviamo di fronte ad una modificazione profonda, seppur transitoria, delle usuali categorie spazio-temporali che involontariamente abitiamo e che orientano silenziosamente il nostro “modo-di-essere-nel-mondo” (Husserl).
Le strutture di base che sostanziano la nostra esistenza (in particolare temporalità, spazialità, alterità) hanno smarrito momentaneamente la propria usuale significatività ossia, se solitamente queste dimensioni (che costituiscono il senso sedimentato di ogni singola esperienza) ci situano all’interno un mondo fruibile e condiviso, attualmente stiamo sperimentando una loro differente declinazione, nella quale possiamo disporre unicamente dello spazio perimetrale angusto e isolato relativo alle nostre abitazioni e (limitatamente a precise disposizioni governative) al nostro luogo lavorativo.
La strenua ambizione all’immunità mediante una rigida profilassi e l’inevitabile produzione di un assetto fobico e paranoide collettivo (funzionale al contenimento del contagio) ci immette e accomuna in una condizione che eccede l’ordinario e, de facto, scardina i nostri consueti punti di repere, infrangendo la concezione intuitiva dello spazio/tempo che abitualmente condividiamo.
La nostra spazialità vissuta è attualmente prepotentemente dominata della prossimità con la possibilità d’infezione, la minaccia è onnipresente, non delimitabile né confinabile a uno specifico oggetto; siamo indistintamente ed endemicamente esposti al pericolo, potenzialmente illimitato, del contagio che si diffonde grazie una capacità espansiva e una celerità difficilmente arginabili.
A partire, quindi, da una consequenziale e collettiva riorganizzazione dello spazio-vissuto attorno al focus infettivo, ci affidiamo al nostro bisogno protettivo e, impegnati nell’obiettivo di un movimento difensivo indispensabile, ci ritiriamo all’interno della nostra roccaforte casalinga per impedire a questa “contaminazione” (Straus) di proseguire e, per sfuggirne l’assedio, ci auto-confiniamo in una ristretta zona protetta, la sola in cui il timore si affievolisce.
L’unico mondo abitabile diviene la nostra casa, rinfrancata da un “al di fuori” popolato da oggetti spaventanti, sinistri che hanno perso la loro innocenza in quanto forieri di un processo infettivo in costante accelerazione e avanzamento, perfino il nostro stesso corpo cessa di intesserci e veicolarci nel mondo e ci arresta assumendo il carattere di principale agente di contagio; il corpo diventa indistinguibile rispetto alla sua minaccia e giunge a confondersi con essa.
È questa peculiare condizione che slatentizza la concretezza di una morte presente attorno a noi, possiamo percepirne l’alito soffocante, è qui che sentiamo la vita in prossimità della morte, il punto in cui i due lembi di questo “indiscernibile” (Stanghellini) si toccano e il momento in cui noi veniamo dolorosamente a contatto con questo indissolubile intreccio che abita la nostra materia.
Una cristallina “epifania dell’informe” (Stanghellini) ci mostra il senso crudo del reale nella sua nudità, ossia quanto il corpo e il mondo siano intrisi di mortalità indiscernibile dalla vita stessa, questa esperienza del tutto inconsueta ci svela, quindi, la commistione ossimorica di vita e morte, esse si fanno tangibili in una tensione indistinguibile; inconciliabili ma coesistenti nel fremito del nostro corpo-vissuto.
Vitale e Mortifero si danno insieme, al nostro sguardo, nella loro consustanzialità.
L’alone emotivo che ci avvolge e che diventa il fondo di ogni nostra giornata è l’inquietudine che talvolta tracima, così rischiamo di rimanere sopraffatti da un’angoscia di frammentazione e sprofondamento, tanto è complesso sostenere lo sguardo di fronte all’orrore della morte che incombe, che ci sfiora.
Una morte che, inesorabilmente, giorno dopo giorno, ci strappa via i nostri affetti, in nostri padri, le nostre madri, i nostri amici senza la possibilità di un congedo reale che non sia immaginato, i nostri cari sono consegnati ad una morte anonima, nell’assenza di una cerimonia che celebri la dignità della loro vita vissuta e che conceda a noi un momento per poterli piangere dentro il caldo abbraccio di chi ci è vicino.
II carattere perturbante di questa condizione entra nelle pieghe intime della nostra esistenza portando con sé la perdita della significatività delle cose mondane che adesso ci risultano inattingibili, un’atmosfera di profonda estraneità e rarefazione avvolge l’esterno, divenuto un paesaggio muto e desertico in cui risuona unicamente la totale assenza di presenze, un territorio privo di irrorazione vitale in quanto essa è potenzialmente contaminante e della quale ognuno sente il bisogno di farsi schermo.
Lo spazio-vissuto assume i caratteri di una pura estensione spoglia di punti di ancoraggio in cui le possibilità di movimento sono negate, in cui viene meno il nostro coinvolgimento con il mondo poiché non ci è consentito abitarlo e l’unica tonalità emotiva possibile è il terrore della possibilità del contagio, ci sentiamo spaesati e deprivati di un luogo in cui esperire riconoscimento.
All’interno di questa deformazione della nostra spazialità anche il tempo vissuto risulta alterato nel suo fluire, privo del suo slancio, di quel élan vital che connota il “sentimento di armonia con la vita” (Minkowski), perde la sua connaturata ritmicità e si dilata in una infinitudine incapiente.
Quello di adesso non è più il tempo della partecipazione spontanea e del vibrare all’unisono con l’ambiente che ci circonda, non è più il tempo del divenire dinamico dell’esistenza; in questa parentesi la componente conativa del tempo cessa di innervare il mondo e di significarlo con la sua naturale ritmicità.
Esperiamo l’impedimento al nostro coinvolgimento nel mondo, ci è vietato inerirlo, non risuoniamo implicitamente con esso, ci spogliamo di ogni nostra possibilità pianificante, e, in questa mancata sintonizzazione contestuale, smarriamo il senso e la direzione stessa della temporalità.
Diventiamo i testimoni passivi di tempo privo di maturazione storica, che arresta la nostra dimensione progettuale e non scandisce più la nostra esperienza vissuta ma ci situa entro un "ora" assoluto e isolato che perde profondità e significato esistenziale.
Questo momento presente, privo di estensione perché disarticolato dal passato e in attesa di un futuro, abolisce la nostra continuità storica e ci getta nell’esperienza opprimente della “noia profonda” (Heidegger) che ci lascia vuoti, storditi e sopraffatti da un tempo inarticolato che non consente di realizzare connessione reale alcuna e che riflette un profondo svuotamento esistenziale, dentro quello che ci appare essere un mondo momentaneamente siderato.
Privata della possibilità del divenire, questa temporalità offusca la nostra capacità di mettere a fuoco i suoi contorni e il suo senso, ci consegna a tempo figée che, nella sua immobilità, ci consente ciclicamente solo uno stampo ripetuto di quello che è diventato il nostro cliché pragmatico: restare nell’unico spazio appropriabile, la nostra casa.
In questa sosta imposta, in questo logorante auto-isolamento quotidiano e nella concitazione di questi giorni febbrili siamo costretti a costruire una differente narrazione che parte dalla dimensione digitale, essa acquista una concretezza assoluta e paradossalmente allarga la possibilità del nostro spazio perimetrale, diventando momentaneamente il nostro mondo della vita sostitutivo, il luogo principale che consente la necessità del nostro incontro, la necessità di toccarci gli uni con gli altri (anche se solo virtualmente), la necessità di intrecciare i fili dei nostri affetti e colmare, anche se solo parzialmente, questo vuoto di senso.
La medesima valenza palliativa la acquista il tentativo si ricostituire l’interumano momentaneamente perduto attraverso l’ausilio dei balconi di casa e la comunanza dei loro canti, degli striscioni appesi e colorati del monito della speranza, delle luci accese nel buio della notte e dei silenzi condivisi a distanza, come gesti parlanti per omaggiare un sacrificio comune, dando corpo alla nostra urgenza di sentire e risuonare con l’altro e di percepirci tutti assieme ingranati nel mondo, anche quando questo eclissa la sua normatività e regolarità.
Proprio dentro questa particolare connotazione spazio-temporale e sulla base del nostro bisogno di costituire l’altro si fa primario il tema del “senso comune” (Callieri) in quanto nostra coscienza incarnata e situata entro un mondo condiviso rispetto al quale esperiamo l’appartenenza e la nostra corrispondenza alle cose mondane, attraverso un’implicita e patica sintonizzazione con esse.
Questa massa anonima e basale di “evidenze naturali” (Blankenburg) è la trama di fondo sempre presente che forma il terreno su cui si radica la nostra vita e costituisce gli assiomi della nostra quotidianità, la nostra possibilità pragmatica, la continuità storica della nostra ipseità.
L'esperienza naturale rappresenta il tessuto connettivo della nostra esistenza e ci situa in un mondo a noi familiare che condividiamo con l’altro all’interno di un comune orizzonte intersoggettivo di significati, è l’architrave su cui poggia la nostra possibilità di essere-nel-mondo, attraverso una spontanea apertura intenzionale all’altro.
In questo stato emergenziale noi tutti ci troviamo a sperimentare, seppur sul piano esistentivo e non ontologico, la messa tra parentesi di quelle che sono le valenze abituali del mondo, nostro malgrado subiamo un’epochè fenomenologica in quanto viene sospesa la nostra abituale inclinazione a considerare il mondo sulla base degli assunti del senso comune: gli automatismi e le abitudini che definiscono la routine della nostre giornate si arrestano improvvisamente, ciò che a noi era dato di più banale e scontato come il gesto porre la mano al prossimo per salutarlo, sfiorare distrattamente un passante per strada, la libertà di passeggiare l’uno accanto all’altro adesso sfugge alla possibilità della nostra quotidianità.
In questa perturbante “sospensione del mondo” (Di Petta) in bilico fra la riva del noto che ci sembra adesso lontana e la sponda dell’ignoto che ci fa attendere, il nostro vissuto è connotato dal senso dello spaesamento, derivante dalla dolorosa esperienza disgiuntiva della perdita momentanea dei nostri riferimenti pratici e, di conseguenza, della capacità di tessere la trama della nostra storia.
La relazione di intimità e familiarità che ci ingaggia al mondo viene lacerata dalla breccia dell'inconsueto, dalla morsa di uno sradicamento improvviso e dato dalla fatticità di questa condizione epidemica, rispetto al terreno che supporta il nostro essere-nel-mondo.
L’orizzonte dei nostri significati perde le sue caratteristiche usuali, ci muoviamo annaspando come in apnea, ci manca l’attrazione alle cose di tutti i giorni che, al momento, sono per noi inaccessibili, infatti, a partire da questa “incrinatura della naturalità” viene meno la nostra possibilità di utilizzarle; esse non sono più gli utensili della nostra esistenza, non sono più funzionali alla nostra presa sul mondo, ma all’opposto, ci risultano inservibili in quanto potenzialmente contaminate e contaminanti.
Al nostro corpo non ci è più concesso di atteggiarsi al mondo poiché esso risente dello strappo alle operazioni ovvie del quotidiano, allo stesso modo la nostra intenzionalità non si protende più al di fuori di sé stessa né attecchisce agli oggetti, subisce un’interruzione e rimane in attesa, ci ritroviamo “sospesi fra l’intenzione di significare e il compimento di significato” (Callieri); non lo riconosciamo più come nostro questo mondo che non ci è concesso calpestare, ci scopriamo (sempre onticamente) significanti senza significato, siamo una disperata “noesi noematicamente vuota” (Kimura Bin).
Costretti ad una basica dimensione di “animalità” e mera sopravvivenza, i movimenti della nostra giornata sono ridotti al soddisfacimento del sostentamento fisico e (sempre se possibile) lavorativo; assistiamo inermi alla messa in scacco della “pulsione vitale” (Scheler) che permette il nostro coinvolgimento pratico con il mondo e la manipolabilità delle cose in quanto strumenti indispensabili ad agire nel nostro quotidiano.
La menomazione drastica, imposta alla nostra agentività, porta con sé anche una temporanea evanescenza della dialettica “Leib/Körper” laddove il corpo-che-sono si eclissa di fronte al corpo-che-ho che predomina sulla scena: un corpo privo di dinamismo, arroccato sulla medesimezza di un tempo che non muta, al centro di una stereotipia comportamentale che ogni giorno si ripete meccanicamente entro il nostro circoscritto e limitato perimetro di azione.
In questa perdita contestuale, alla nostra carne non è dato più intrecciarsi con quella altrui dal momento che per l’altro la nostra corporeità vissuta diviene potenziale minaccia di morte e viceversa, il corpo dell’altro è tenuto a distanza, è un corpo da evitare e di cui si teme la portata contagiante, è un corpo da cui proteggersi; sia esso indistintamente il corpo di un altro sconosciuto oppure il corpo di un nostro caro.
All’interno di questa drammatica deformazione della corporeità, il vissuto persecutorio e accusatorio del paranoico e la condotta auto-assediante e purificante dell’ossessivo perdono la loro connotazione strettamente psicopatologica ed entrano prepotentemente nella nostra esistenza come parte attiva della nostra quotidianità, diventano i nostri gusci comportamentali difensivi.
Così l’esperienza corporea su cui è radicato il nostro senso implicito, basico, immediato dell’esistere (la nostra ipseità, che è indiscernibile dall’abitare il proprio mondo) adesso sia trova priva di ancoraggio, menomata di una realtà intersoggettiva che la costituisce e caratterizza.
Siamo pericolanti sull’orlo di un mondo-del-nulla, deprivato della propria matrice regolativa e pragmatica e che risente di una eccezionale perdita di libertà individuale e relazionale.
Attraversando questa mancanza e nella precarietà di tale momento, tocchiamo direttamente la “nuda struttura della nostra esistenza” (Di Petta), ossia la condizione insopprimibile di possibilità del mondo, diventata adesso tangibile perché evidente nella sua essenzialità, svestita di ogni “orpello” pragmatico del nostro quotidiano, le cui ovvietà sottintese ci hanno abbandonato d’improvviso.
Allora, da questa deriva esistentiva ci rinveniamo di colpo e ci troviamo ad essere nudi, inermi, privi dello sfondo sovrastrutturale delle nostre consuetudini, dei nostri impegni prestabiliti e perfino delle più banali situazioni di socialità; siamo senza il “ça va sans dire” (Ballerini) ossia ciò che nella nostra giornata fluisce da sé, in modo naturale.
Ecco che, proprio da questo spaesamento indotto, da questo annullamento emerge in tutta la sua vividezza la nostra occasione: l’occasione di prendere posizione di fronte all“eidos” della nuda struttura, di fronte a questa esperienza nativa ritrovata, di fronte a questo nucleo essenziale, originario ed autentico che ci appartiene intimamente, ci definisce e che si dischiude, adesso, ai nostri occhi.
Partendo fenomenologicamente da un’operazione di riduzione che ha epochizzato il mondo, l’immagine eidetico-strutturale iper-densa che ne emerge ci permette di cogliere la nostra qualità essenziale ossia la nostra capacità di ospitare, assimilare, costituire l’altro, il mondo e “le sue condizioni di possibilità” (Di Petta) dentro di noi, anche nella loro assenza.
Sebbene l’esperienza della non attingibilità dell’altro materico e concreto sia adesso quotidiana, la nostra spinta e il nostro desiderio verso di lui sussiste con una vitalità insopprimibile quanto inesorabile.
Continuiamo ad appartenere e a donarci all’altro, ad accoglierlo come parte costitutiva e sostanziante della nostra stessa essenza e presenza nel mondo, non rinunciamo veramente mai ai nostri legami imprescindibili e al nostro fondante progetto-di-mondo poiché essi conferiscono un senso e un significato co-condiviso alla nostra esistenza.
Una volta che ci ritroviamo al di fuori del regime dei nostri ritmi imposti e connotato da una meccanica, ipertimica e riverberante declinazione, diventa un nostro monito ineludibile quello di non dichiararci perduti, di non farci passivizzare e predominare dall’angoscia di frammentazione identitaria (possibile prodomo del nostro crollo strutturale).
Ci sforziamo di percepire la luce radente e la portata ri-creativa di questo stato di eccezione.
Anche in questo “essere-nel-nulla” (Di Petta) è possibile volgersi a nuovi concatenamenti che rendono meno greve e più leggero il dolore attraverso l’intimità del legame con l’altro, cogliere le vibrazioni sottili e le risonanze quasi impercettibili dei corpi altrui, sempre presenti nel campo soggettivo della nostra coscienza intenzionale.
II nostro vissuto è caricato di uno slancio che non si esaurisce nell’urto con il vissuto dell’altro ma lo penetra fino a creare, all’unisono con il suo, quel “Mit-Erlebnis/Mit-Stimmung” (Di Petta), quell'esperienza atmosferica dell’“essere-con” che si coglie unicamente nell'atto di un reciproco disvelarsi.
Proprio di fronte a una perdita devastante, ascoltando la nostra fragilità e conservando con cura quei brandelli di intersoggettività che ci sono rimasti attaccati, comincia il nostro posizionamento, si palesa la possibilità di cogliere la potenzialità aurorale di questo evento.
Si tratta di ridefinire questa esperienza terrifica e dolorosa in quanto nostra irripetibile occasione: l’evento ci offre il privilegio di dislocare lo sguardo, abbiamo l’opportunità di decentrare la nostra prospettiva e di accogliere per noi una differente ermeneutica, accettando e integrando il carico di debordante dolore e di inopinata alterità dell’evento nella nostra storia di vita.
La narrazione trasforma l’evento da causa di frattura biografica a ragione di evoluzione esistenziale; da accadimento puramente contingente ad avvenimento necessario per mobilizzare, attraverso l’assunzione dell’imprevedibile, la dialettica della nostra identità e consentirne il processo storico-maturativo. 
“Là dove c'è il pericolo, cresce anche ciò che salva” recita un verso del poeta tedesco Hölderlin; siamo chiamati ora a sentire la potenza piena di questo evento e a rispondere all’appello a esserne all’altezza, prendendo la nostra posizione.
Questo evento-virus può essere connotabile come una “situazione-limite” (Jaspers) ossia quel momento drammatico in cui si frantuma il nostro abituale guscio difensivo e che comporta la dissoluzione della nostra usuale visione del mondo (attraverso cui viene mediata la comprensione di noi stessi e del nostro mondo-vissuto).
In quanto atto di lucidità epistemica e di “chiarificazione dell’esistenza” (Jaspers), questa situazione-limite ci rivela la nostra finitudine e ci pone davanti alla nostra condizione di fragilità.
Di fronte a questo “scacco del chi” (Stanghellini) possiamo deflagrare, liquefarci sotto il calore di questa temperatura eccessiva oppure, sul limitare della rottura dei nostri rifugi esistenziali e con l’affiorare della nostra struttura vulnerabile, possiamo attribuire a questa esperienza aberrante la nostra auto-ermeneutica e farne oggetto di assimilazione e di appropriazione.
Sopravvivere a questa interruzione drastica della nostra continuità ed esperienza storica è come ritrovarsi in vita dopo che il nostro terreno è franato, dopo un'improvvisa e profonda lacerazione della carne; ci scopriamo sensibilizzati al nostro comune destino vulnerabile.
Prendendo in prestito l’immagine heideggeriana della “Lichtung”: entrando in un bosco di alta montagna l’aria manca, il cielo scompare tra le faggete, il gioco delle fronde oscura i raggi solari e si resta in questa perturbante penombra fino a quando, dopo uno spossante errare, ecco una radura, ecco, finalmente, il suo chiarore.
In modo improvviso il viandante giunge in questo luogo sacro, aperto nel cuore di una foresta, custodito dal suo intreccio, il cui spazio e la cui luce danno senso al sentiero percorso, alla salita e all’attesa.
Così, anche noi, dopo questo assordante naufragio, forse approderemo ad una sponda nuova e forse il ritorno al mondo sarà, per tutti, l’atto di ri-creare frammento dopo frammento il tessuto della nostra esistenza, un rinnovarci e un ri-donarci all’altro e al mondo, consegnati ad una rischiarante e perenne donazione di senso.
 
 
Bibliografia
 
BALLERINI A., “Patologia di un eremitaggio. Uno studio sull’autismo schizofrenico”, Bollati Boringhieri, 2002
BIN K., “Scritti di psicopatologia fenomenologica”, Giovanni Fioriti Editore, 2016.
BIN K., “Tra. Per una fenomenologia dell'incontro”, Il Pozzo di Giacobbe Editore, 2013.
BLANKENBURG W., “La perdita dell’evidenza naturale. Un contributo alla psicopatologia delle schizofrenie pauci-sintomatiche”, Raffaello Cortina Editore, 1998.
CALLIERI B., “Corpo esistenze mondi. Per una psicopatologia antropologica”, Edizioni Universitarie, Romane, 2007.
CALLIERI B., "Quando vince l’ombra", Città Nuova,1982.
DI PETTA G., “Il mondo vissuto. Clinica dell’esistenza. Fenomenologia della cura", Edizioni Universitarie Romane, 2003.
HEIDEGGER M., “Essere e Tempo”,1927, Longanesi Editore, 1976.
Husserl E., “Idea per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica”, Einaudi Editore, 1965.
Jaspers K., “Psicopatologia generale”, Il pensiero scientifico Editore, 1964.
Scheler, M., (1928), La posizione dell’uomo nel cosmo. Tr. It. Armando, 1997.
STANGHELLINI G., “L'amore che cura: La medicina, la vita e il sapere dell’ombra”, Feltrinelli Editore, 2018.
STANGHELLINI G., “Noi siamo un dialogo. Antropologia, psicopatologia, cura”, Raffaello Cortina Editore, 2017.
STANGHELLINI G., MANCINI M., “Mondi psicopatologici. Teoria e pratica dell'intervista psicoterapeutica”,
Edra Editore, 2018.

Straus, E., (1948), Sull’ossessione. Uno studio clinico e metodologico. Tr. It. Giovanni Fioriti, 2006.

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