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IL CASO DI ALBA. TRA FLACCIDITÀ DEL SÉ E PASSIONE FERITA

2 Apr 20

Di Dafne-Buttini

 
        La gelosia più temeraria e veemente è un ingrediente dei più comuni nella psicologia del carattere paranoico, quando ha occasione di esplicitarsi e di primeggiare, può dar luogo a vere esplosioni di delirio persecutorio.(E. Tanzi.)
                                                                                                         

 I. IL NOSTRO PRIMO INCONTRO
Il mio iniziale contatto con Alba risale a uno dei primi giorni di gennaio dell’anno 2018 quando, in tardo pomeriggio, vengo contattata telefonicamente da una voce femminile che, piangendo in modo concitato al punto da rendermi immediatamente difficile la comprensione delle sue parole, esordisce impetuosamente: “ho bisogno il prima possibile di un appuntamento con lei perché non riesco a smettere di controllare quello che fa Marco (il mio ragazzo) e quello che fa Sara (che Marco mi dice essere solo un’amica), li controllo usando 2 telefoni in contemporanea tutto il giorno, vivo in funzione di un telefono e non posso andare avanti così! sto tanto male”. In queste concise parole è espressa con drammatica chiarezza la richiesta iniziale di un’Alba disperata; percependo la sua urgenza comunicativa e il suo bisogno di un aiuto impellente, fisso l’incontro per il giorno venturo, il lunedì, giornata che diventerà (assieme al giovedì) il momento ritmato del nostro tempo condiviso, che perdura tutt’ora.
Squarciando il velo telematico, di fronte alla porta del mio studio si materializza una donna adesso calma e rassicurata dall’accoglimento celere della sua richiesta, mi sorride in modo cortese, non forzato, porgendomi la mano saldamente con sicurezza, diventa palpabile il suo entusiasmo (che fa da sfondo sottile a questo nostro nuovo incontro e che la accompagnerà quasi ad ogni colloquio), si accomoda sul divano e, nel corso della nostra ora (e anche nelle sedute successive), un sorriso caldo e dal sapore ammiccante è sempre presente rivolto a me e accompagna il suo sguardo ininterrottamente fisso sulla mia figura, esso non viene mai distolto, neppure per un istante; Alba scruta dettagliatamente il mio livello attentivo dall’interno dei suoi grandi, leggermente protrusi e iper-vigili occhi neri.
Da subito è disinibita e ben disposta alla comunicazione, il suo eloquio non è rallentato né accelerato ma normale e ben scandito e articolato, esteticamente la sua corporatura è normale, l’abbigliamento è casual e non appariscente, il suo aspetto è curato ma non vistoso (il viso di una carnagione chiara è truccato in modo tenue in contrasto con le unghie che esibiscono un smalto rosso caldo, che alterna nel corso delle sedute ad un nero corvino), è una donna complessivamente gradevole fisicamente, porta dignitosamente i suoi 40 anni ravvisabili, nonostante tutto, in qualche ruga di troppo che le solca il volto.
Aprendo autonomamente la conversazione con una breve premessa autobiografica, Alba mi racconta che intrattiene con Marco (50 anni) una relazione sentimentale da 1 anno a questa parte, lui è residente a Milano e ingegnere, lei originaria e abitante a Verona è segretaria presso uno studio notarile, ha un’unica sorella maggiore, Alessandra (48 anni), titolare di un negozio di vestiti; Alba e Marco si raggiungono vicendevolmente nei week end.
Alba, quando giunge nel mio studio (del tutto casualmente, dopo aver trovato il mio numero online senza una particolare ricerca) porta con sé una lunga storia di terapeuti abbandonati, 3 per l’esattezza che (a suo dire) hanno mantenuto una concentrazione totale e asfissiante sul suo passato, tale da farla “fuggire” dopo pochi incontri percepiti da lei come improduttivi.
Probabilmente uno dei punti di forza della nostra terapia è proprio la mia valorizzazione del -qui e ora- della relazione e l’essermi avvalsa della rilevanza del passato in chiave paradigmatica (in quanto prospettiva possibile per comprendere il suo presente); il tutto avviene in una cornice terapeutica stabile e regolare che, priva di un’integrazione farmacologica (data la riluttanza della paziente nei riguardi della figura dello psichiatra), per i primi 6 mesi ha previsto 2 incontri settimanali (a causa della gravità del quadro clinico) per poi passare a una seduta settimanale, nel momento in cui sono stati ravvisati considerevoli miglioramenti.
Alba afferma, fin da subito e con forza, quella che lei ritiene, adesso, essere l’unica motivazione che l’ha mossa a rivolgersi ad un aiuto psicoterapeutico: “il mio problema è che Marco mi tradisce con Sara e mi ha sempre tradito con altre donne, è solo un traditore e io ogni giorno devo scavare fino a che non trovo le prove”; è palese la totale assenza della domanda iniziale (telefonica) di Alba che, per “scavare”, monitora costantemente durante la sua giornata l’attività di Marco e Sara (una vecchia amica di Marco che risiede a Treviso e con la quale Marco si sente telefonicamente, di rado) su diverse piattaforme (Facebook e Messenger, Instagram, Whatsapp) e mi porta alcuni esempi, per lei prove certe e inconfutabili, del tradimento del suo compagno e dell’ingerenza, all’interno della loro relazione, delle “donnine” ma, in particolare appunto, di Sara (che Alba nomina spesso con l’appellativo di “disturbatrice”):
 
P: “Marco il mercoledì va a giocare a basket e dice di fermarsi dopo a mangiare un boccone con gli amici, ma secondo me ha le sue donnine, l’altra settimana mi ha mandato su Whatsapp una foto con orario 23.34 di lui con gli amici e va bene… ma poi non mi ha più contattato e ha rifatto l’accesso su Whatsapp alle ore 00.25 per darmi la buonanotte, in quel lasso di tempo di sicuro ha lasciato i suoi amici ed è stato con una donna”.
 
P: “Sara l’altro giorno ha rilasciato una recensione su Tripadvisor su un ristorante giapponese a Treviso e da questo ho dedotto che lei ci è andata con lui perché Marco ama il cibo giapponese e da Milano sicuramente ha preso un treno di quelli veloci per andare a Treviso, si è fermato da lei e poi è tornato; la sera dopo era nervoso (mi ha detto che era nervoso perché non avrebbe giocato a basket e lo infastidiva non poter giocare), ma io ho capito: il problema non era il basket, ma che si erano visti”.
 
Così, nella peculiare modalità di esperienza e conoscenza della realtà che risulta essere il delirio di Alba (all’interno di un processo di auto-evidenza che si alimenta autonomamente), è chiaro come l'individuazione di indizi pregnanti sia il prodotto di una focalizzazione estremamente esclusiva, in virtù della quale essi vengono isolati dalla loro originale cornice situazionale per essere attribuiti ad un altro differente contesto.
Sulla base di questa scotomizzazione, Alba costruisce un sistema coerente e acquisisce la certezza del proprio postulato (il tradimento); il terreno della sua realtà diviene omogeneo e privo d'ogni asperità in un sistema che non contempla l’imprevisto e l’indefinito ma, all’opposto, risignifica ogni dato all'interno di una stessa mappa di referenza, nella quale l’inesauribile ricerca di segnali in oggetti anonimi è funzionale a proclamare una verità confermativa e dove “attraverso movimenti ameboidi, le teorie deliranti fagocitano aspetti del reale” all’interno di “una verità totale che può solo ripetersi secondo l’enunciato stereotipico del tema delirante” (Rossi Monti).
 
II. LA VITTIMA, IL TRADITORE, LA DISTURBATRICE
 
                                                 Sull’humus del carattere paranoico germogliano lentamente i singoli deliri.
                                                                                                                                            E. Tanzi.
 
P: “questa settimana me ne sono capitate di tutti i colori: mi si è bloccata la macchina, non funzionava la cassa automatica del supermercato… sono certa che è tutta colpa di Sara che mi fa i riti Woodoo perché è gelosa di me, mi augura ogni male possibile; lo ha anche tolto da Facebook, lo ha fatto per mettere zizzagna nella nostra relazione, per crearci problemi perché sapeva che io lo avrei visto e poi avrei capito”.
 
Alba (auto-identificata come “vittima”) appare drammaticamente e inizialmente immersa in un’esperienza di autoriferimento (ravvisabile nella lettura degli eventi della propria vita attraverso una prospettiva persecutoria, essi vengono imputati ad una figura femminile che si intromette forzatamente nella coppia in modo minaccioso e catastrofico) e attribuisce a Sara (rappresentata in quanto “disturbatrice”) non solo il ruolo di amante gelosa e possessiva di Marco (emblema “del traditore”) ma anche la responsabilità delle sue disavventure quotidiane. All’interno di un’esperienza di doppia persecutorietà (ascritta a Marco che si sottrae alla fedeltà, inganna e tradisce e, contemporaneamente, a Sara che intrude nella coppia e malevolmente nella sua vita), la paziente, attraverso un ferreo sistema pseudo-deduttivo, costruisce un mosaico di idee dimostrato fino all’evidenza.
Il suo delirio di gelosia organizza la propria struttura sulla base della rigidità sistematica della passione che ne costituisce il perno e si delinea come uno nodo ideo-affettivo impermeabile e ribelle ad ogni evidenza dal quale Alba non può prescindere, tanto da rimanerne assorbita e da rielaborare la sua intera biografia pregressa sotto la luce illuminante del paradigma delirante, all’interno della tipica distorsione retrospettiva del passato (propria del paranoico) per cui, come Alba stessa mi spiegherà, ogni singolo uomo con il quale lei ha intrattenuto una relazione sentimentale l’ha sempre tradita.
Dentro questa trasformazione della relazione amorosa da duale in una situazione invariabilmente triangolare, il delirio è l'assunto apodittico che esprime e organizza il mondo in cui vive la paziente e si configura come la plausibile, ordinata e coerente conseguenza di una posizione originariamente assunta: a partire da una rete di “deduzioni” (espressione che utilizza Alba in modo straordinariamente pertinente) intorno a un punto di aggregazione cruciale, si intrecciano idee ed emozioni che trovano la loro collocazione nel romanzo delirante centrato, appunto, sull'infedeltà.
Sulla base di un'idea passionalmente investita e di tale impasto ideo-affettivo scaturisce un delirio a settore (de Clérambault) che rimane contenuto nei limiti della vita amorosa e nel quale è possibile ritrovare quell’aspetto formale dirimente che travalica il criterio contenutistico (la veridicità o meno del tradimento): l'articolazione interpretativo-deduttiva dell'argomentazione si basa, infatti, sul “come” ossia sulla peculiare e distorta modalità deduttiva attraverso cui la paziente produce il suo pensiero e giunge ad una convinzione dal significato ineludibilmente confermativo.
Infatti, quella della paziente si configura essere una forma di ragionamento interpretativo di tipo pseudo-sillogistico o paralogico in quanto la deduzione avviene sulla base dell’identità dell’attributo e non del soggetto; questa paralogia evidenzia quanto l'interpretazione delirante rappresenti non la ricerca di un significato contestualizzante ma un'attribuzione aprioristica e assolutamente gratuita di senso, laddove “la forma sillogistica di cui si riveste il suo ragionamento è la verniciatura attraverso cui il delirante comunica e cerca di accreditare socialmente il suo delirio” (Del Pistoia).
Il caso clinico di Alba è definibile psicopatologicamente come un delirio di gelosia secondario (quindi deliroide in quanto esasperazione quantitativa del tratto pre-morboso) sviluppato sulla base di una preesistente configurazione personologica paranoicale con agiti che si mantengono sufficientemente moderati (appostamenti e telefonate anonime) tali da non esitare, come avrebbero detto Serieux e Capgras, nella condotta gravemente drammatica del “delirante dell’azione”, al centro della propria solitudine rancorosa e distruttiva.
Nel corso delle sedute Alba si rivela immersa in un’oscillazione persecutoria sul crinale del rimuginare dubitativo e dell’evidenza deliroide, talvolta sembra essere completamente assorbita all’interno del suo vissuto delirante, talvolta questa dimensione appare maggiormente psicologizzabile.
La possibilità dialogica è individuabile nel prevalente polo astenico presente all’interno della sua configurazione paranoicale, la quale è definita dalla giustapposizione di una primaria posizione caratteriale astenica (espressa in una delicatezza temperamentale manifesta e nella marcata difficoltà a sopportare il confronto interpersonale) in conflitto con un tratto stenico, a sottolineare la permanente disomogeneità tipica dell’organizzazione sensitiva della paziente, all'origine di una vulnerabilità all’esperienza della vergogna che (al cospetto del mondo esterno) sottolinea in Alba, come vedremo, la propria insufficienza percepita.
La paziente non transita mai completamente nel polo stenico di rivendicazione ipertrofica che seppur presente (altrimenti non sarebbe evidente l’esteriorizzazione della colpa per proprie mancanze e la sua proiezione all’esterno) non è pienamente definito e strutturato; in lei è ancora evidente il tema della perdita e dell’inadeguatezza e, proprio l’essere transitoriamente in contatto con il proprio marcato vissuto di inferiorità, apre alla mia possibilità di allearmi in terapia con questa autentica parte depressiva (che, come si nota nella richiesta iniziale, la paziente ha chiaramente presente a sé stessa).
In questa “fiacca” paranoia passionale (rispetto alla paranoia sensitiva sistematizzata) la polarità astenica non è completamente assorbita dalla parte di pura grandiosità ma, all’opposto, proprio il polo stenico conserva la funzione di maschera orgogliosa a protezione e schermo del nucleo astenico; come sarà chiaro nel corso dell’elaborato, l’idealizzazione irrealistica dell’altro e l’elemento tossicomanico (rispetto alla relazione con l’altro e alla sfera alimentare) aprono alla dimensione patico-passionale del quadro clinico.
 
III. IL MONDO DELLA VITA DI ALBA
 
                                                                                                                                                                                                                                                                       Essere malati significa, per il paziente, una nuova e malata visione del mondo (…) Il paziente è malato e subito il mondo è malato con lui, nel descriverci il suo mondo egli ci descrive senza inganno sé stesso.
                                                                                                                                                J. H. Van Der Berg.
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In questo paragrafo è presente la ricostruzione fenomenologica della Lebenswelt della paziente (attraverso le sue dimensioni di temporalità, spazialità, corporeità, ipseità, alterità e materialità) che rende comprensibile e significativa la peculiare modalità con la quale Alba abita ed esperisce il proprio mondo vissuto.
 
iii. i. tempo vissuto
La stasi, fra il fuoco della passione e il ghiaccio del tempo.
 
“Ogni giorno io mi sveglio, entro su Whatsapp e Facebook e guardo a che ora era online l’ultima volta, guardo quante ora sono passate e fino a che non trovo l’orario preciso continuo a cercare, durante le pause lavorative guardo gli accessi, controllo una volta ogni mezz’ora, quando sono a casa ci sto fissa a controllare; se vado in palestra o esco con le mie amiche il tempo scorre lento, mi sembra sempre di stare via un’eternità anche quando esco per poco, sto male e non sono rilassata perché non posso controllare e non posso sapere cosa sta facendo Marco! appena torno a casa ricontrollo, la notte dormo poco per controllare e se poi mi sveglio ricontrollo”.
 
Alba mi descrive così la sua quotidianità, che drammaticamente si ripete identica ogni singolo giorno e al suo interno il tempo è scandito in modo esclusivo non più dall’esperienza vissuta ma dall’unico bisogno di controllare (al fine di trovare indizi comprovanti una relazione fra Marco e l’altra donna e corroborare la certezza del tradimento subito). Così, condannata ad una ripetizione del suo trauma (l’inevitabile ricerca del tradimento, il comportamento vessatorio nei confronti del partner che condurrà irrimediabilmente alla rottura e a una nuova deduzione di tradimento e di torto subito), Alba (come è tipico del delirio del paranoico), si trova immersa in una temporalità non più lineare ma, invece, tristemente ricorsiva.
All’interno di questa dimensione il delirio, racchiuso “en secteur” ossia nel settore vertebrato del postulato passionale (de Clérambault), potentemente spezza i suoi argini interni e diviene totalizzante in Alba permeando la sua intera dimensione esistentiva e (prendendo in prestito l’espressione di Sérieux e Capgras) “si espande” (fino ad inglobare tutto il suo accadere mondano in una rete centrata sul modulo ripetuto del tradimento) “ma” “non evolve”. La temporalità di Alba non progredisce ma è siderata in un tempo immobile attraverso la ripetizione infinita del medesimo tema (il tradimento, appunto) che investe tutto il fronte di realtà all’interno una struttura interna “en réseau” ossia a rete, la quale si articola, però, dentro il settore della sfera amorosa (su cui si incardina l’intera identità della paziente, fagocitata da una dimensione affettiva inglobante e assoluta).
In questa ciclicità temporale (cristallizzata sul momento in cui Alba deve esercitare il controllo, all’interno della sua acribica attività di scavo) non è ravvisabile alcuna maturazione storico-narrativa ma all’opposto il tempo della vita viene arrestato e reso inabitabile; lo schema delirante rappresenta, dunque, un assunto che si ripete identicamente e non una storia che si sviluppa, uno stampo continuo dello stesso cliché all’interno di un tempo a-biografico.
Quando Alba non si trova nella condizione oggettiva di poter agire l’impulso controllante, il tempo viene percepito da lei come massimante rallentato ed estenuante all’interno di un’attivazione angosciosa e priva di scarica, laddove in questo tempo collassato il suo bisogno impellente e la sua motivazione primaria rimangono insoddisfatti.
II livello psicotico (coglibile massimamente proprio dalla pervasività, ripetitività e impossibilità di alternative che caratterizza Alba, nonché dall’indubitabile certezza soggettiva con cui sostiene il suo dato) permette alla paziente di esprimere di sé stessa unicamente la tautologia totalizzante del suo delirio.
All’interno di questa temporalità disarticolata e congelata, la biografia di Alba cessa di essere una storia di vita e il suo racconto diviene uno stereotipo vuoto, racchiuso all’interno di una certezza ripiegata sul proprio momento sospeso che, per utilizzare l’espressione di Del Pistoia, si configura come “quel presente eterno descritto nell'inferno dantesco: il tempo del tutto già accaduto”.
All’interno di questa dimensione (completamente scardinata dalla normale ritmicità del mondo vissuto) si possono individuare tre livelli temporali coesistenti: dapprima, se quella di Alba può essere definita innegabilmente una temporalità circolare e figée, una seconda particolarità risiede nel fatto che la sua certezza non si rivela essere mai piena ma, piuttosto, alla perenne ricerca di un riscontro (in quanto il suo postulato ha la necessità di essere validato) e questo margine dubitativo (della certezza insatura) spezza il blocco e la monotonia del post-festum.
È questa indeterminatezza (propria del dubbio) che mette in movimento una terza modalità temporale ossia quella dell’istantaneità e dell’immediatezza: l’impulso a controllare coglie la paziente nel qui e ora, immediatamente, la attiva e la muove alla dettagliata indagine; la certezza di Alba è, quindi, un post-festum continuamente mosso dall’impulso improvviso e ricorsivo di ricercare la conferma e, all’interno di questa urgenza pulsionale, è possibile cogliere un ulteriore aspetto cardine dell’habitus di Alba: il godimento nel riscontro del suo sospetto e del suo assunto di partenza. La paziente indaga non al fine di avere la disconferma della sua quasi-certezza (ossia la rassicurazione che il suo compagno non sia un traditore), ma desidera trovare l’ulteriore prova che colma la sua verità, ambisce all’incontrovertibilità del fatto di aver visto le cose come effettivamente sono, di essere nel giusto di una verità convalidata; è proprio questo bisogno di dimostrarlo che relativizza l'assoluto delirante: sebbene il postulato passionale sia precipitato a certezza obiettiva, tale evidenza (asserita in tutta la sua perentorietà) non è incrollabile, in quanto lei stessa ne attende ineludibilmente la dimostrazione.
Alba, attraverso la sua inesauribile attività controllante, allontana la vulnerabilità a cui il dramma del dubbio la espone e, all’interno di una realtà solidificata e cristallizzata attraverso il paradigma delirante, afferma una percezione di sé stessa come grandiosamente acuta e capace di frugare la realtà in ogni sua piega più recondita, il cui sguardo è l’unico capace di scorgere l’invisibile che si cela dietro l’orizzonte.
Inoltre, come risulterà massimamente evidente dalla seguente analisi della spazialità, Alba si percepisce come tagliata fuori dalla dimensione vissuta (in questo frangente dalla temporalità) del suo oggetto amato, desidera ardentemente intrudervi e allora si include e coarta dentro un tempo non proprio ma (vivendo il tempo del suo “traditore” attraverso la dimensione virtuale) esaudisce quel desiderio di coincidenza del suo tempo con il tempo del suo “amato”, illudendosi peraltro di partecipare alla vita di Marco, il quale si configura, nell’iperbole delirante di Alba, non solo come interamente controllabile, ma anche conoscibile nella sua totalità.
 
iii. ii. spazio vissuto
Al centro di un mondo della vita digitale…mancano i popcorn!
 
“La mia casa sono solo due stanze ma ci sto tanto bene, è bella luminosa e mi dà sicurezza anche se è piccolina perchè è l’unico posto dove mi sento completamente libera e posso controllare Marco e le sue donnine, anche al lavoro quando sono sola ogni momento lo passo a controllare dal computer il Facebook di Marco (…) quando esco sto male perché non posso controllare e se c’è tanta gente mi sento molto a disagio, non riesco a relazionarmi e penso sempre a cosa starà facendo Marco”.
 
Alba è mossa ricorsivamente dalla ricerca di una dimensione sicura e protetta in cui poter agire il controllo e dare, così, pieno respiro al bisogno di intrusività; la casa è il suo spazio intimo e rappresenta uno squarcio privato sull’unico mondo abitabile per Alba (quello virtuale) dove può insinuarsi silenziosamente nella spazialità vissuta del suo oggetto amato e delle “sue donnine”.
Al di fuori di questo guscio difensivo, la dimensione spaziale viene esperita dalla paziente come angosciosa e decontestualizzante in quanto intrisa di un profondo senso di estraneità; per Alba i luoghi esterni sono fonte di sofferenza, proprio a causa dell’impossibilità di agire indisturbata e con segretezza la sua necessità di controllo e intromissione nella vita di Marco.
Inoltre, in questa situazione di assente familiarità, gli spazi aperti rappresentano l’occasione dolorosa di un mancato incontro a priori per Alba che rifugge il confronto interpersonale e patisce la variabile contestuale perché essa le mette in evidenza il proprio vissuto di insufficienza e di inettitudine relazionale; questa atmosfera confusiva e esponente favorisce, nella paziente, l’emergenza di un profondo sentire di inadeguatezza, legato alla sua percezione di inferiorità personale nel confronto con l’altro.
Alba non trova la giusta misura per occupare un suo spazio autonomo e indipendente, né all’interno della dimensione domestica né tantomeno in quella corporea (percepita, come vedremo, come difettosa), non possiede una collocazione che le consenta di abitare il proprio mondo della vita ed è priva di un posto in cui esperire un auto-riconoscimento.
Quella di Alba è una posizione sfuggente che manca di individuazione e caratterizzazione anche relativamente alla dimensione lavorativa, all’interno della quale la paziente sembra essere immersa come un automa, in un grigiore amorfo, accidentale e privo di motivazione alcuna, ad eccezione del momento, per lei privilegiato, che sfrutta per controllare.
 
“Sabato alle 12.02 lei ha cambiato la foto su WhatsApp tutta truccata, lui è entrato sabato pomeriggio e si è sorpreso del cambiamento della sua foto perché si è collegato e subito dopo è uscito; poi è rientrato la sera e si sono messaggiati come matti, il momento clou me lo sono perso andando in palestra ma dalle 20 alle 22… un continuo”.
 
La dimensione virtuale (esplicita nelle piattaforme di Facebook, Instagram, WhatsApp) si configura come una spazialità che, seppur astratta e meccanica, per Alba acquista una consistenza assoluta e le rappresenta un alternativo mondo della vita (digitalizzato), una estroflessione del suo spazio psichico e un allargamento illimitato del suo spazio vissuto.
In questa dimensione virtuale, esperita da Alba come sicura e protettiva, la paziente circoscrive essa stessa lo spazio percorribile e, calandosi interamente al suo interno, tra un pallino verde di Facebook e un accesso di WhatsApp, stabilisce i suoi personali punti di repère che delimitano il perimetro del “tutto torna”, ossia dell’assoluta verità confermativa del suo delirio; al di fuori di tale margine niente ha più accesso, fino alla coartazione completa del suo spazio vissuto ed esistenziale.
In questo mondo della vita digitale sostitutivo, la lebenswelt reale si impoverisce sempre più e contemporaneamente si arricchisce la dimensione fittizia (straordinariamente sincrona) del computer/cellulare che permette ad Alba, attraverso il dispositivo social asservito al suo immaginario delirante, di insinuarsi dentro la vita altrui. Così, il segno verde di Facebook del contemporaneo accesso di Marco e della “sua donna” acquista inizialmente per Alba un preciso valore polisemico in quanto esprime contemporaneamente sia il banale accesso e la permanenza usuale alla piattaforma (conserva il suo significato comune del nostro quotidiano condiviso) sia (all’interno del suo personale sistema di rimandi che ricalca la paralogia) una dimostrazione inoppugnabile di un dialogo passionale fra i due, comprovante il tradimento.
Essendo lo spazio altrui originariamente impenetrabile e ipersignificante, il paranoico (per allontanarsi da questa opacità e inacessibilità del dato reale) è costretto a ricostruire il mosaico delirante dagli indizi che riesce a cogliere e questa attività ricostruttiva comporta una decontestualizzazione dei segni che vengono, quindi, espunti dal comune contesto di appartenenza e reinterpretati secondo il paradigma delirante. Lo stimolo, cioè, acquista il significato privato del delirio e diviene una chiara emittente di segnali univoci ed inequivocabili (perdendo la “koinonìa” binswangeriana, la possibilità della condivisione di una lingua comune); all’interno di questa rigida ri-contestualizzazione la modalità combustiva della psicosi si auto-alimenta.
La polisemia iniziale, dunque, si richiude sul delirio all'interno di un sistema monosemico, racchiuso in un unico significato ed è in tale senso che il paranoico si sente, nella sua spinta megalomanica e narcisistica, in diritto pieno e nella possibilità di entrare nella vite degli altri, attraverso un circuito auto-espansivo che affonda le sue radici nell’immaginario filmico del mondo dello spionaggio dove la sospettosità degrada a certezza e mette il malato fuori gioco; così il paranoico si impone e risignifica a suo modo, totalmente personale (citando Di Petta) “proprio come un Dio imponente al di fuori del contesto umano”.
Allo stesso modo, lo spazio digitalizzato abitato dalla paziente diviene il cinematografo delle infinite, ricorsive e identiche scene prodotte e dirette da Alba, di cui lei è l’unica regista e spettatrice, all’interno del suo film drammatico ed erotizzato; è facilmente prevedibile un piacere voyeuristico che anima Alba nello scrutare cosa fanno i suoi due personaggi preferiti, l’entusiasmo come motore della sua scoperta, la suspence per la scena appassionata non ancora vista ma immaginata in ogni minimo dettaglio e, infine, la delusione di non aver partecipato allo spettacolo racchiusa nella pregnante espressione “mi sono persa il clou” che può appartenere solo a una spettatrice fedele (totalmente assorta nel proprio film privato e personale, che dona un succulento piacere alla sua vita, altrimenti misera).
Mancano davvero solo i pop corn a questa cinefila mossa da un invasamento eccitato che, quasi all’interno di una modalità consumatoria e cibatoria dell’altro, gode nello sceneggiare il suo romanzo e manipola l’evoluzione dell’intreccio storico dei suoi personaggi; il tutto si verifica con la finalità di ricreare sempre lo stesso stampo, ossia il modulo della scena idilliaca che Alba si prefigura (di un Marco gratificato e spensierato che l’ha esclusa dalla sua vita senza il minimo scrupolo, umiliandola e non cessando mai di tradirla attraverso molteplici relazioni con donne sensuali e accattivanti).
In ultimo, rinchiudendosi nella dimensione fittizia e virtuale del computer, Alba evita il confronto con l’inevitabile delusione derivante dall’incontro con altro che non corrisponderà mai i suoi desideri e bisogni interamente (questo aspetto verrà approfondito attraverso l’analisi dell’esistenziale -alterità- ) e, rifuggendo la dimensione reale, si auto-tutela includendosi in un sistema indubitabile che, nella sua distorta logicità, non ammette scacchi relazionali e da cui trae, anzi, soddisfazione narcisistica poiché esso rappresenta l’unico scenario in grado produrre e nutrire un’immagine di sé grandiosa, al centro di una verità potente.
 
iii. iii. corpo vissuto
Un Sé flaccido alla ricerca spasmodica di una spina dorsale.
 
“Non mi piaccio, non mi piace niente di me, ho il faccione troppo grande rispetto al corpo, non ho il corpo tonico; quando ero bambina ero grassa, poi dimagrita, poi ringrassata e da dimagrita mi è rimasta la pancia molle, esteticamente faccio maschere viso, lampade, massaggi, palestra, ma rimango flaccida, non mi sento mai in forma, non mi sento sicura, è sempre stata una lotta con il mio fisico”.
 
La percezione corporea di Alba è legata ad un profondo vissuto di difettosità e all’angoscia del proprio corpo esperito come squallido e danneggiato, la paziente si mostra assolutamente sprezzante nei confronti della propria corporeità (da lei stessa definita come “flaccida”) e, a ciò, consegue un estenuante impiego inconcludente di energie a scopo migliorativo; così, i continui ricorsi agli affezionati trattamenti cosmetici per il viso e il corpo e la regolare e intensa attività sportiva in palestra risultano comunque insufficienti a risanare l’egodistonia del suo corpo vissuto, espressa nella percezione di flaccidità che concerne proprio il modo in cui Alba vive la sua carne di donna: si sente amorfa, messa in scacco dalla perdita fantasmatica del corpo desiderato e dal mancato conseguimento di un Sé tonico, al centro di un vissuto dismorfofobico che concerne il suo viso, percepito di proporzioni eccessive.
All’interno del suo paradigma valoriale imperniato sulla bellezza fisica (connotata come proporzione e tonicità della forma corporea), Alba non raggiunge mai l’ideale estetico desiderato (lo stesso che riconoscere dolorosamente essere esplicito in qualsiasi altra donna, ipervalutata e invidiata in quanto più avvenente di lei).
La paziente, irretita dal luogo comune di una bellezza, costituita da misure e dallo standard sociale di desiderabilità, si vive come l’unica portatrice di un corpo astenico che ha il suo fulcro nell’inadeguatezza e nell’inferiorità percepite del proprio Sé, nonché nel bisogno di dare consistenza al suo molle involucro.
Questo Sé flaccido è, infatti, perennemente in attesa di trovare una colonna vertebrale, una pienezza che colmi la sua essenza difettuale; ecco che, dal fondo di questo bisogno, emerge lo strumento principale utilizzato da Alba per placare questa mancanza: il cibo.
 
“Ho un rapporto strano con il cibo: in dei momenti mangio molto poco, in dei momenti divoro tutto; la  notte quando non riesco a dormire vado in cucina e mangio… mangio un vasetto intero di nutella, tanti dolci tutti insieme… è una cosa più forte di me, ogni volta ho la necessità di mangiare (…) in infanzia io dormivo in camera con Alessandra che la sera, prima di andare a dormire, nascondeva i dolci sotto il letto perché, se la notte doveva andare a fare la pipì, aveva paura e, allora, mi svegliava per farmi mangiare quei dolci mentre lei andava in bagno (…) Alessandra, per tenermi lontana quando uscivo insieme a lei con il suo fidanzatino o con le sue amichette, mi dava i soldini per comprarmi le merendine”.
 
II cibo, che si configura come il mezzo utilizzato da parte della sorella Alessandra per manipolare Alba, avvicinandola e allontanandola secondo il proprio desiderio, acquista fin da subito la medesima valenza utilitaristica all’interno della vita della paziente, che tenta di controllare la consistenza del proprio Sé corporeo attraverso l’astinenza oppure l’eccesso di cibo, il quale le rappresenta uno strumento di regolazione emotiva.
Infatti, Alba, guidata nella gestione della distanza interpersonale da una fatua idealizzazione della relazione affettiva e ricercante una presenza costante da parte della sua figura di riferimento, attraverso la sfera alimentare (racchiusa nei suoi episodi bulimici notturni) raggiunge una compensazione dell’assenza e dell’indisponibilità dell’altro. L’assunzione eccessiva di cibo (all’interno di una spinta tossicomanica) si verifica unicamente quando il suo oggetto di amore è mancante oppure percepito come emotivamente distante, rappresenta il tentativo di riempirsi (assicurandosi una presenza continua e una stabilità del proprio Sé).
Questa modalità viene utilizzata dalla paziente congiuntamente al ricorso alla dimensione relazionale del controllo dell’altro significativo (nel tentativo di farsi presente nella vita altrui per colmarsi attraverso l’assimilazione dell’esistenza dell’oggetto) e rende esplicito quanto, in un’Alba dal sapore un po' infantile (sia nella scelta dei cibi tipicamente bambineschi di merendine e cioccolate, che nel continuo ricorso adolescenziale alla sfera virtuale), le radici della sua tendenza a controllare siano radicate nella percezione del suo corpo danneggiato.
 
iii. iv.
Alba di fronte ad Alba, al cuore del conflitto.
 
“Mi sono sempre sentita ingannata e tradita da Marco, ho tanta rabbia nei suoi confronti perché lui è lì che fa la sua vita felice e che si diverte, soddisfatto dopo avermi cacciato mentre io sono qui che guardo lui e mi trincero (…) ho rabbia nei miei confronti perché sto sprecando la mia vita, tutti gli uomini che ho avuto mi hanno sempre lasciato perché stringevo troppo, mi sento una persona da schifo, sono riuscita a distruggere tutte le mie relazioni con le mie mani”.
 
Una consueta Alba, sempre in primo piano e identificata come la vittima designata di un tradimento perpetrato, si sente fuorviata e mortificata dal suo traditore, abbandonata da lui e emarginata dalla sua vita; ancora immersa nei panni del ruolo della spettatrice rabbiosa e invidiosa dell’esistenza altrui, contempla il suo amato (sprezzante di fronte alla sua sofferenza) che adesso è finalmente appagato in virtù della sua assenza e al centro di una dimensione godereccia e dissoluta mentre Alba, lasciata a margine, non può fare altro che raccogliere e subire silenziosamente tutta la sua umiliazione mentre osserva di nascosto il prodotto della sua immaginifica scena (di un Marco felice, in compagnia delle sue attraenti e frivole donnine).
Accanto a questa preminente Alba si recupera ed affianca, con il progredire della terapia, una seconda Alba che, al di là dell’oggetto anonimo-Marco, è tristemente consapevole e profondamente insoddisfatta di avere profuso tutta la sua vita nel tentare di costruire relazioni che in realtà, all’opposto, vengono demolite proprio a causa della sua modalità relazionale oppressiva e intrusiva. Questa Alba, osservandosi attentamente dal suo pertugio, è insofferente e reagisce con rabbia e sdegno alla vista che le si mostra allo sguardo: una lei flaccida e amorfa che, invece di internalizzare la sua mancanza, la esternalizza nella figura maschile (che diviene “chi tradisce”) e nelle altre donne (che assumono le caratteristiche di “malevolenza e provocazione”).
Proprio quell’Alba gelosa è incessantemente pronta a ricercare, nella proiezione sull’altro della propria angoscia, una soluzione alla sua problematicità personale; ecco l’auto-descrizione di Alba:
 
“Ho sempre avuto una grande insicurezza, tutte le altre donne sono sempre state meglio di me, più attraenti e interessanti per sguardi degli uomini (…) mi sono sempre sentita inferiore rispetto a tutte le donne, prima rispetto a mia sorella per il suo bellissimo fisico, poi a scuola ero la più grassa di tutte, e anche adesso qualsiasi donna che passa per la strada è più bella di me”.
 
A fronte della percezione di inferiorità del proprio corpo vissuto, la paziente (mossa da una finalità riparativa) produce il sintomo comportamentale (il controllo) attraverso cui tenta di saturare la propria mancanza, delegando all’altro la funzione ausiliaria di riempimento del proprio Sé. Ecco che il nucleo patogeno (che porta all’habitus controllante) è proprio la percezione di inadeguatezza primariamente corporea, la quale ha accompagnato negli anni la paziente, che ha avuto da sempre la sensazione che “le mancasse qualcosa”.
Adesso un’Alba cresciuta, esattamente come allora, patisce per l’assenza dell’aspetto fisico anelato e mai raggiunto; questa angoscia si sostanzia in un riferimento costante alla figura femminile sistematicamente invidiata in quanto asintotica, al cui confronto la paziente è inevitabilmente carente poiché la donna ideale (che Alba si prefigura e rappresenta) non può che fare emergere la propria fallibilità percepita, inscritta all’interno di una ferita narcisistica sempre esposta e non rimarginabile.
 
iii. v. altro vissuto
La figura maschile indifferenziata e la donna originaria.
 
“Marco è solo un vigliacco, è sempre stato un falso, un bugiardo, mi ha lasciato perché voleva stare con la sua donnina, gli auguro tutto il male del mondo, è un essere indegno di stare sulla faccia della terra”.
 
Nella sua descrizione ricorrente si profila un Marco che diviene il perno di una polarizzazione affettiva fortissima in senso svalutativo e colpisce come si palesi, in lui, la mancata attribuzione di qualsiasi qualità umana fino a configurarsi, nell’immaginario delirante di Alba, disumanizzato (in tutta la sua “ripugnanza”).
In questo tratteggio di Marco come disprezzato e avvolto da un alone di sdegno (in quanto colpevole assoluto di aver cessato la loro relazione), la forza con la quale Alba sottolinea l’esclusiva responsabilità del suo “spregevole” partner nella chiusura del loro rapporto rivela quanto, per lei, sia intollerabile recuperare in sé stessa questa sofferenza.
Scompare nuovamente, allora, quell’Alba iniziale e si staglia sulla scena l’Alba immersa al centro di un sistema emotivo permeato potentemente dall’emozione del rancore (per l’altro che la abbandona per l’amore di un’altra donna) e dall’invidia (in quanto, dopo il suo distacco, la vita di Marco continua a fluire in modo naturale e senza rimpianti ma, anzi, nel mosaico di Alba, rassomiglia quasi ad una continua festa orgiastica, mentre la dimensione vissuta di Alba è completamente appiattita e arrestata).
Questa visione altamente dispregiativa nei confronti di Marco si alterna ad una sua seconda rappresentazione, più concreta, umanizzata e sicuramente maggiormente riflettente il Marco reale:
 
“Al telefono Marco era sempre cupo, storto, è una persona che non parla mai di come sta, chiuso e introverso, però, quando ci vedevamo ci prendeva la voglia di stare insieme, si illuminava proprio! mi proponeva di fare tante cose, era molto presente ed affettuoso”.
 
A fronte di un Marco che mostra tutta la sua presenza affettuosa e un grande trasporto emotivo (assolvendo così al bisogno di dedizione di un’Alba bisognosa), la paziente (rassicurata da questo equilibrio) non ha alcuna necessità di farsi fagocitare dall’angoscia psicotica ma, all’opposto, è proprio questo Marco infrasettimanale “storto e cupo” che le fa percepire di essere in balia di un oggetto discontinuo, emotivamente indisponibile e slatentizza la persecutorietà, in un’Alba chiaramente incapace di gestire la distanza emotiva e impossibilitata ad accettare il distacco.
Così, se la presenza fisica dell’oggetto amato la aiuta proprio nella costituzione di questo altro rispecchiante le sue caratteristiche reali, nel momento in cui la paziente percepisce una minima distanza fra lei e il suo partner (sia pure essa trascurabile come una sfumatura nel tono di voce), non la attribuisce a normali oscillazioni all’interno della relazione di coppia o a problematiche personali che possono concernere la persona-Marco ma le ascrive immediatamente ad un’altra entità esterna (ossia l’inconfessato desiderio del suo altro amato di tradirla e la sua celata “pazzia d’amore” per un’altra donna).
Alba manca nella costituzione dell’altro concreto che, percepito come tanto lontano da apparirle irraggiungibile, sfuma i suoi contorni umani, si dissolve e, nella sua assoluta opacità, facilita la costituzione di un altro cattivo e persecutorio, più intuitivamente e semplicemente visualizzabile.
All’interno di questa drammatica incapacità della paziente di tollerare l’ambiguità e del suo personale processo di auto-corroborazione che si perpetua, la figura di Marco improvvisamente sprofonda e dalla crepa delirante emerge un oggetto totalmente maligno. Così, le violente liti telefoniche e il ricorso spasmodico alla dimensione controllante diventano espressione di una persecutorietà che, paradossalmente, riscalda il ghiaccio creato dalla distanza e riavvicina l’altro, nel tentativo disperato di ripristinare una vicinanza con l’oggetto sfuggente.
Alba ritrova consistenza nell’altro immaginato, al quale demanda la costituzione del proprio Sé: nel momento in l’altro reale si allontana, lei (dopo aver tentato infruttuosamente di appropriarsene, consumandolo e svuotandolo) e posta in una posizione totalmente asimmetrica (di fronte al suo oggetto turgido e adesso lontano) si indebolisce e affonda nel vuoto dell’abbandono, fino al momento liberatorio in cui ritrova il suo amato proprio nella costituzione paranoicale e in cui lei risorge nuovamente come una fenice maestosa e pura.
 
“Con tutti i miei ex, da che mi ricordo, quando loro non mi rispondevano al cel. e non mi volevano vedere o percepivo qualcosa che non andava dalla voce, mi scattava il controllo, pedinavo con la macchina e passavo le ore al freddo sotto la loro casa o sotto il loro ufficio perché pensavo subito ad altre donne! Quando, invece, andava tutto bene perdevo interesse e li consideravo poco, per esempio con Marco i primi due mesi in chat mi tartassava lui di messaggi, io inizialmente non ero gelosa, anzi stavo benissimo! Poi quando lui ha iniziato ad essere meno geloso di me e quando ho sentito il distacco lo sono diventata io gelosa, in maniera pesante”.
 
A fronte della pretesa idealistica di una simbiosi totale con l’oggetto significativo, all'insegna dei valori e delle regole che lei stessa pone (rispondenti alle logiche di un amore narcisistico autoreferenziale e cieco di fronte all’altro-da-sé), l'amato per Alba rappresenta meramente una comparsa nel suo scenario sentimentale, immesso al suo interno al fine di colmare un vuoto identitario e soddisfare un bisogno adesivo relazionale.
Ogni partner, per la paziente, si configura indistintamente come uno specchio riflettente iper-caricato di responsabilità e portatore del senso della sua stessa esistenza, non è riconosciuto in quanto -altro- (foriero di una separatezza individuale e di una storia personale) ma, all’opposto, viene continuamente assoggettato al bisogno di Alba di sentirsi validata; proprio da quella frattura umana (che nasce dall’interno del suo desiderio per l’altro, inattingibile e non riconducibile mai totalmente ad esso) emerge il paradigma delirante, teso a saturare l’inconoscibile e renderlo prevedibile nel suo schema invariante dell’altro-traditore.
Inoltre, nella paziente, l’oggetto di amore si rivela massimamente attraente e attivante in quanto mancante, quando lo ottiene e l’idealizzazione viene conseguentemente raggiunta, esso perde precipitatamente di interesse (le appartiene già, per cui diviene vano e insoddisfacente) e frana poiché in ogni caso, l’alter sognato non può essere mai completamente incarnato nel reale.
Contrariamente, nel momento in cui l’altro si allontana, si riattiva il desiderio eccitatorio e inglobante (assieme all’angoscia abbandonica) e l’oggetto diventa nuovamente desiderabile, all’interno di un circuito auto-alimentante nel quale, se l’astrazione si cala nel reale, essa decade e appare completamente deludente, al punto tale da dover ricominciare a ricreare una situazione di asimmetria che favorisca l’elicitazione di una potente angoscia (nel momento in cui l’altro si sottrae nuovamente).
Quindi, Alba (il cui vissuto di iscrive in un profondo sento di solitudine), immessa all’interno di un rapporto parassitario con l’altro amato (improntato al suo sfruttamento per aumentare la propria autostima), messa in scacco di fronte alla non disponibilità e all’assenza di presenza dell’oggetto, non può fare altro che agire il suo bisogno di intrusività all’interno della vita altrui, che eccede il controllo e diviene un tentativo appropriarsi dello spazio dell’altro.
In una vita in cui è tutto così deludente (la dimensione di flaccidità corporea, la sfera lavorativa amorfa e la base esperienziale carente), il rapporto con l’altro viene iper-investito, come se dovesse risanare e rivitalizzare l’intera esistenza di Alba che, attraverso una modalità consumistica dell’altro, tradisce (proprio nella sua spinta eccitatoria e propulsiva) il godimento della mancanza.
Sulla scena relazionale di Alba si ergono, per rilevanza, altre due figure maestose e necessariamente centrali nella sua vita: la madre e (a dispetto di un padre descritto come totalmente “opposto rispetto alla mamma e non impiccione”, schivo, riservato, assente dal punto di vista relazionale, che sembra rivestire ben poca importanza nella vita della figlia ed essere vissuto da lei come assolutamente marginale) la sorella maggiore, Alessandra.
 
Dalle parole di Alba, relative alla madre:
 
“Appena ho potuto ho sentito il bisogno di prendere un appartamento da sola perché mia mamma è sempre stata invadente, pressante, ha sempre cercato di controllarmi, anche da grande dovevo renderle conto proprio di tutto (…) da bambina e adolescente, su ordine di mia mamma, dovevo controllare che cosa faceva Alessandra quando usciva fuori, dovevo seguirla e dire a mia mamma che cosa aveva fatto e con chi si era vista oppure dovevo accompagnarla ogni volta che usciva (…) mia mamma, se a mia sorella comprava una cosa, a me ne comprava due, mi viziava per accontentarmi per fatto che io ero quella grassa”.
 
La madre (che, così descritta, sembrerebbe ipoteticamente anch’essa una struttura antropologica di tipo paranoicale) sicuramente, per prima, introduce in famiglia la dimensione del controllo anziché dell’affetto e nega il calore a un’Alba bambina (eccessivamente responsabilizzata e del tutto impotente nei confronti del ripetuto mandato materno di esercitare il controllo sulla sorella maggiore) ma, anzi, le trasmette un messaggio fortemente svalutativo permettendole di godere di trattamenti di favore (che la paziente interpreta erroneamente e ingenuamente come “essere stata viziata”) in quanto grassa e venuta male.
Ciò avviene nel tentativo della madre di compensare (attraverso oggetti materiali) la carenza del corpo inadeguato di questa bambina le cui parti deboli vengono blandite, placate, saturate ma non riconosciute (all’interno di una modalità relazionale che, paradossalmente, accentua la sua percezione di difettosità e diversità, ovviamente connotata in senso peggiorativo).
Una lettura possibile per l’habitus comportamentale e relazionale di Alba (che diventa il proprio dispositivo identitario di auto-riconoscimento, incentrato sulla pervasività controllante) è proprio che questo iper-controllo (che la paziente esercita su Marco e, prima ancora, invariabilmente su qualsiasi figura maschile sentimentalmente significativa), non sia che una ripetizione di un copione involontario e inconsapevole di quel controllo che la madre esercitava su di lei (che, nella sua chiarezza e impressività paradigmatica, illumina l’attuale habitus di Alba).
Grazie al controllo la paziente tiene sotto scacco quel vissuto di oppressione dovuto all’iper-presenza della madre, appropriandosene grandiosamente (divenendo lei stessa parte attiva che intrude e disturba) e proiettandolo sull’altro significativo.
 
 
Le parole di Alba riferite alla sorella Alessandra e alle “altre donne”:
 
“Mia sorella Alessandra non la sopporto perché mi critica sempre in modo pesante dicendomi che sono una persona immatura, che le storie le ho fatte finire tutte nello stesso modo, che perdo tempo a guardare se il fidanzato mette mi piace a questa o se leva l’amicizia quell’altra; inoltre, ha un carattere tremendo: si impiccia sempre degli affari degli altri, fa la superiore e sa tutto lei di ogni cosa e non le si può raccontare niente che il minuto dopo lo sa mezzo mondo (…) Alessandra ha sempre avuto il fisico più tonico e snello e mi sono sempre sentita inferiore rispetto a lei che, adesso, ha una vita perfetta ed è felice (…) tutte le altre donne sono meglio di me, più slanciate, attraenti agli sguardi degli altri, quando esco di casa e passeggio guardo le altre coppie vedo che sono felici e le donne sono tutte belle, io non sono alla loro altezza”.
 
Alessandra (che propone una modalità giudicante e accusatoria costante verso un’Alba esasperata e intollerante) è rappresenta, per la paziente, come avente una vita gratificante e piena; verso lei la minore nutre un radicato e antico vissuto di inferiorità e di invidia, che verrà secondariamente esteso ed espresso attraverso un interesse spasmodico verso tutte le altre donne (le quali, aspecificamente, saranno vissute ognuna come maggiormente affascinante, vitale e sessualizzante di lei).
Pertanto, il confronto con la realtà esterna per Alba diviene fonte di sofferenza nella misura in cui potentemente evidenzia tutta quella bellezza (presente in modo così connaturato e apriorico nelle altre) a lei “non concessa”; similmente, le coppie sconosciute e casuali che incrocia per strada si prefigurano, nel giudizio della paziente, come “meravigliose e soddisfatte” per merito una felicità e un benessere che le rimangono sempre inaccessibili.
È sottolineato, così, il profondo vissuto di esclusione (da questo tipo di situazione appagante) proprio di un’Alba che si sente portatrice di un corpo svalutato e la cui insufficienza non potrà che portarla a mettersi in competizione, per poi franare rovinosamente, al cospetto delle altre donne, verso le quale nutre all’unisono ammirazione e rancore, poiché vissute come “migliori” rispetto a sé stessa.
La paziente è pienamente immersa all’interno di un mondo spaventante popolato Dalla Donna, ossia -un archetipo ideale e schiacciante- (che possiede naturalmente qualità in lei mancanti come un corpo funzionante e vitale, mentre lei ne esibisce uno danneggiato e sproporzionato rispetto al “faccione”).
Diventa comprensibile allora, calandosi nell’apparato ideativo di Alba, come il suo Marco possa essere amato (dalla paziente) solo se viene preventivamente o contemporaneamente reso desiderabile da altre donne, in quanto ciò gli conferisce un valore a fronte del fatto che, se viene amato unicamente dal Alba (che si percepisce come non amabile e indegna), ciò risulta assolutamente ininfluente; questo crea una saldatura circolare viziosa in cui più Marco è amato, maggiormente diventa oggetto desiderabile.
Quindi, nell’immaginario di Alba (immersa in una gelosia totalizzante tesa a mascherare la propria disistima), quel Marco-uomo-desiderato non può che preferire le altre donne dalle quali viene immediatamente irretito e captato mentre lei si vive come esclusa dalla possibilità di assimilare le loro caratteristiche desiderate.
In questa penosa condizione (in cui Alba sembra quasi sentirsi assediata dalla portata grandiosa della figura femminile che la investe), lei (ancora una volta trasfigurando l’impotenza in attività) si lascia andare al piacere disinibito di controllare spasmodicamente i loro movimenti (mediante, per esempio, l’analisi ciclica del profilo Facebook di Sara o le successive incessanti chiamate a Amalia), finendo così per lasciarsi dolcemente cullare dalle sue fantasie parassite che la svuotano, la esasperano e, contemporaneamente, le danno piacere.
Ma il suo primo confronto è stato proprio con la sorella Alessandra (definita come una donna che, al di là delle caratteristiche fisiche straordinarie, “non tiene particolarmente alla propria presentazione di fronte agli altri” e si mostra estremamente sicura di sé e realizzata) verso cui Alba nutre una potentissima ambivalenza: la sorella maggiore è idealizzata e fonte di rivalità perché vive la propria vita piena, prosperosa e gratificante ma è, in contemporanea, disprezzata e biasimata in quanto “impicciona a cui piacciono le chiacchiere da bar e saccente, non degna di fiducia” che, per giunta, giudica e umilia la sorellina ogni volta che le si presenta l’occasione.
Sembra plausibile, dunque, avanzare l’ipotesi che, alla radice questa idealizzazione invidiosa e rabbiosa della figura femminile, si prospetti la ripetizione di un antico contrasto con Alessandra (spostato fantasmaticamente sulla dinamica conflittuale con la figura di Sara) e che la sorella maggiore rappresenti, in Alba, proprio la metaforica costola dalla quale discende la sua “disturbatrice”, che la paziente definisce specularmente caratterizzata da un’arrogante strafottenza e che, in più, l’ha sempre “derisa e umiliata” cercando di incunearsi malevolmente nella coppia Alba-Marco al fine di creare conflittualità, esattamente con lo stesso stile “impicciante” ascritto proprio alla sorella Alessandra (la donna originaria).
 
iii. vi. materialità
Alba e la fisiognomica degli affetti.
 
“Grazie al computer e al cellulare guardo gli accessi di Marco, il suo numero di amicizie se è lo stesso, aumentato o diminuito, guardo Sara e le sue amiche con le quali potrebbe avere una relazione, se sono single o sposate, i loro nomi e di dove sono, guardo che cosa fa Marco e dove si trova (…) chiamo Amalia circa 15 volte al giorno con l’anonimo, quando lei risponde io sto in silenzio e cerco di capire se Marco è lì con lei, se il telefono è spento vuol dire che sono insieme, per questo non ha bisogno di tenerlo acceso (…) mi sono fatta un profilo falso e ho aggiunto tutte le amiche di Sara, vorrei chiedere a loro se conoscono una certa Sara T. che si scambia messaggi hot con mio marito perché si passino la voce per farla apparire una poco di buono (…) ho creato un secondo profilo falso dove mi chiamo esattamente come lei e ho aggiunto di nuovo tutte le sue amiche, fingendomi lei ho messo mi piace e commenti tipo -amazing, il top- come scrive sempre lei a posti strani tipo discoteche e a posti dove Sara era stata con i suoi ex, così magari con il passaparola Marco lo viene a sapere, si ingelosisce e litigano, poi lui la lascia”.
 
Come risulta cristallino dalle parole della paziente, gli strumenti telematici rappresentano per lei esclusivamente mezzi utilitaristici asserviti a molteplici scopi: dapprima e senza posa, un’Alba detective osserva segretamente la vita di Marco (al fine di raccogliere dati comprovanti il suo tradimento e corroborare l’immagine di un Marco bugiardo e libertino). 
Contemporaneamente (nel periodo in cui Alba concentra su Amalia la propria mira persecutoria), rompendo violentemente il silenzio, la paziente utilizza la funzione anonima delle chiamate telefoniche per controllare la sventurata e introdursi in modo dirompente nella sua dimensione spaziale e temporale privata per carpire indizi della presenza di Marco assieme a lei (di nuovo al fine di rafforzare la propria idea del tradimento ordito dal suo amato).
Ma, l’aspetto più drammaticamente interessante (chiaramente rivelatore del polo stenico che rimane sempre presente all’interno della configurazione personologica paranoicale) è proprio l’alone rivendicativo che muove Alba nel suo contorto disegno quando (dando completa apertura ad un’acuta intelligenza a servizio del dispositivo emozionale turbato della paranoia) costruisce, con modalità certosina, profili falsi e creati ad hoc con la finalità (da lei stessa resa esplicita) di porre Sara nella denigratoria luce dell’amante spietata e della malvagia “rovina famiglie”.
Alba spinge la sua ricerca al dettaglio morboso nell’arricchire il profilo Facebook da lei stessa creato in cui impersona questa “seconda Sara” inondandolo di icone religiose, richiami ecclesiastici e “santini protettori” (poiché la paziente descrive Sara come una persona che, fingendosi devota, mostra nel suo profilo numerose immagini di peregrinaggi in luoghi santi e citazioni clericali). In questo eccesso caricaturale, la paziente punta a mettere pubblicamente in risalto l’idiosincrasia di una Sara che, fra il sacro e il profano, si professa come  “pure e casta” ma, in realtà, è solo “una squallida puttana” che (grazie all’acume di un’Alba divertita e auto-compiaciuta del proprio operato) si rivela finalmente anche social-mente tale.
Infatti, la paziente (ricalcando lo stile di scrittura adolescenziale tipico di Sara e dopo aver acquisito su di lei tutte le informazioni necessarie, attraverso una puntuale rassegna biografico-storica di tutto il suo profilo Facebook) tesse sapientemente la propria tela sottile di commenti, like e cuoricini “compromettenti” (a luoghi “peccaminosi” e potenzialmente dannosi per l’integrità dell’immagine pubblica della “disturbatrice”) oppure nostalgici (sul viale dei ricordi passionali di Sara con i suoi partner precedenti).
Queste azioni vengono compiute con speranza che, attraverso il dispositivo infettivo del pettegolezzo, Marco venga a conoscenza di questo legame emotivo mai spezzato e la rabbia (commista a gelosia) lo spinga, dopo una furente litigata, a lasciare la donna per cui è “pazzo di amore”.
Se tutto ciò accadesse, un’Alba eccitata e frenetica (completamente immersa nel sistema delirante che diventa una chiave di lettura totalizzante del suo mondo) avrebbe esaudito il proprio desiderio vendicativo di distruttività nei confronti della “disturbatrice” (adesso sbugiardata) e di un Marco che, improvvisamente, si trova costretto a uscire dalla spirale gioiosa in cui si era inserito per affrontare la verità rivelata: essere finalmente consapevole di aver scelto accanto a sé una donna sbagliata, ipocrita e maligna.
La paziente (che non sopporta l’idea di un Marco completo in sua assenza), nell’intento di devastare la felicità del suo amato (che l’ha esclusa impietosamente dalla possibilità di parteciparvi) e tentando di infliggere la commisurata pena punitiva a Sara, ottiene un effetto restitutivo: all’interno di un movimento febbrile e megalomanico (che nutre la sopita spina stenica), ribalta sia l’esperienza di assoluta passività che l’identificazione nel ruolo di vittima inerme e reintroduce un controllo totalitario e onnipotente sugli eventi, nonché una possibilità di agentività.
Infatti, un’Alba rabbiosa e vendicativa (che, attraverso il disegno delirante, acquista un rinforzo narcisistico e un senso di coesione del Sé), si riappropria del ruolo attivo di carnefice che trama di ordine danni a proprio vantaggio e coltiva la fantasia grandiosa di manipolare, con il suo tortuoso operato, la dinamica interpersonale altrui.
La paziente, inoltre, agisce in nome di una giustizia incrollabile e assoluta (come accade al paranoico descritto da Tanzi: quel “cavaliere dell’idealità”, figura iconica e profetica desituata dal mondo della vita reale, il quale dedica tutta la sua vita a perseguire un ideale superiore che, in Alba, è espressione di un amore fusionale e incondizionato, nella sua impalpabilità perennemente ardente).
Del Marco reale, all’interno della dimensione materiale e sensoriale attorno alla quale si articola il mondo di Alba, rimane la tematica del “pacco”: una serie di oggetti di Alba rimasti nell’abitazione di Marco (ciabattine, accappatoio, spazzola per capelli), che Marco non le ha spedito dopo la loro rottura e che, per la paziente, rappresentano il deposito memoriale dei momenti, densi affettivamente, passati insieme.
Questa eredità biografico-sentimentale (al cui interno si concretizza tutta la complessità emotiva relativa allo spazio della relazione), nell’immaginario della paziente, deve permanere dentro Marco, esattamente come quella parte di Alba ancora assieme a lui, ancora presente nella sua vita.
 
“Sono concentrata sul fatto che lui non mi ha rimandato il mio pacco; sono legata a questo pensiero: se me lo dovesse spedire la relazione sarebbe chiusa, guardo sempre la cassetta della posta e ho paura che arrivi”.
 
Il “pacco” rappresenta, dunque, un barlume di vicinanza immaginata che esorcizza la chiusura definitiva e impedisce il distacco; tanto è sufficiente a Alba per illudersi ciecamente di un ipotetico riavvicinamento e per allontanare quell’angoscia derivante dalla presa di posizione nei confronti del proprio contributo intrapersonale che ha condotto alla rottura, il cui disvelamento la costringerebbe a toccare concretamente la propria parte astenica di insufficienza cronica.
In ultimo, è interessante, in antitesi con questa prospettiva dell’attesa riconciliazione, cogliere il significato scotomizzante e malevolo di cui sono intrisi gli oggetti immateriali presenti all’interno delle piattaforme virtuali (dai contenuti delle foto e delle citazioni di Facebook, alle storie di Instagram, alle didascalie di WhatsApp) che, estromessi dal contesto di riferimento, assumono, nello schema delirante di Alba, la connotazione di indicatori certi di intenzioni e comportamenti testimonianti la relazione perpetrata (impedendo alla paziente di esperire, ancora una volta, la sofferenza derivante dalla consapevolezza della propria condotta e tenuta della relazione interpersonale).
 
Quella che segue è l’analisi dettagliata del denso percorso terapeutico di Alba che, attraverso il dispositivo terapeutico e ripristinante del dialogo, mantiene proprio nella polarità astenica la sua possibilità dialettizzante e apre all’assunzione di una postura riflessiva nei confronti della propria vulnerabilità nonché a una differente ermeneutica rispetto alla propria condizione psicopatologica, all’interno di un iniziale bilancio del proprio percorso esperienziale di vita vissuta.                                                                                                         
 
IV. L’EIDOS RISCHIARANTE E LA TERAPIA
Il bivio: internalizzare la mancanza o esternalizzarla in Marco e nelle sue donne?
 
                                                                          Ciò che chiamiamo psicoterapia non è altro, in fondo, che una pratica intesa a far si che l’ammalato giunga a vedere la struttura complessiva dell’esistenza umana, il suo “essere al mondo” e a capire il punto in cui egli si è smarrito.   
                                                                                                                                                      L. Binswanger.
 
Approccio le primissime sedute accompagnata da un iniziale e alquanto penoso spaesamento, derivante dalla consapevolezza che la mia acerba esperienza (con un solo anno e mezzo pregresso di pratica terapeutica immediatamente successivo alla mia abilitazione all’albo) non avrebbe di certo facilitato il mio movimento lungo quel terreno psicoterapeuticamente sconosciuto, tanto denso di asperità e impervio, rappresentato da un’esperienza soggettiva trasfigurata dal delirio e dal dispositivo emotivamente turbato dell’organizzazione paranoicale che mi si ergeva, maestosa e infrangibile, di fronte. 
 
iv. i. t0: partire dall’essere “l’uno accanto all’altro”
 
Inizialmente, vacillando priva di un appiglio, mi ritrovo sorprendentemente immersa all’interno una singolare atmosfera allo stesso tempo coartante, captativa e torbida, mai esperita prima e che percepisco avvolgente attorno alle pareti del mio studio, unicamente in presenza di questa nuova paziente (che si mostra sospesa all’interno di una circolarità temporale viziosa e bloccata in balia di una certezza inscalfibile e indubitabile).
Così, quasi risuonando all’unisono con quell’arroccamento esistenziale, istante dopo istante sento distintamente il mio spazio di agentività mentre si restringe, drasticamente fino a giungere quasi ad una stagnazione che mi conduce ad un’impotente immobilità percepita mentre inizialmente la ascolto, cauta, limitandomi esclusivamente a porre domande tese a dispiegare maggiormente i vissuti che intessono e intrecciano il mondo della vita della paziente, serrata nella sua ferra ideazione (fatta di inflessibili e logore “deduzioni”) che, seppur contenutisticamente plausibile, mi appare così formalmente distante da sembrarmi irraggiungibile.
Sebbene Alba sia impegnata, fin da subito, strenuamente in un’opera meticolosa di persuasione nei miei confronti della correttezza e incontrovertibilità della sua tesi, io ho cura ovviamente di non colludere (né tantomeno collidere) con un tale sistema paralogico impermeabile, che nella mia fantasia assume presto la forma immaginata di una stanza di solo granito levigato, fredda, senza pertugi né possibilità di uscita alcuna e di cui la paziente è la prigioniera inconsapevole, non offre inizialmente anfratti perché io possa accedere al suo interno; così, non mi resta che rintracciare pazientemente una linea di frattura, la quale (una volta individuata e scalfita) induca la creazione di una crepa, favorente una possibile problematizzazione terapeutica.
Ecco un esempio delle molteplici volte in cui Alba tenta di convincermi dell’inconfutabilità della relazione fra Marco e Sara:
 
P: “Dottoressa, ma secondo lei Marco sta con Sara? È ovvio che sia così, non può dirmi di no perché veramente è chiarissimo, lo vedrebbe anche un cieco! Allora, lei cosa ne dice?”
 
T: “Vede Alba, a questa domanda così diretta io non rispondo né si, né no ma prendo questa sua ipotesi
(della relazione tra Marco e Sara) e la colloco in un punto; accanto a quel punto, in quel posto, vi sono contemporaneamente anche altre ipotesi tanto plausibili quanto questa, potremmo vagliare qualche alternativa insieme”.
 
Ponendomi come base etica della relazione terapeutica quella di non essere “contro” la paziente (con il rischio concreto di essere vissuta come un’entità persecutrice) né tantomeno “insieme” (con il probabile pericolo di essere inglobata dal suo vissuto e creare una dannosa sovrapposizione di ruoli) ma piuttosto al suo fianco, alla sua monosemica domanda io le rimando un monito alla riflessione (da sviluppare con il tempo insieme), mentre (sempre ricercando quella possibilità di dialettizzazione) la riconosco primariamente nell’immagine altamente dicotomizzata che Alba mi porta del suo oggetto amato.
Infatti, laddove è sempre prevalente un Marco rappresentato unicamente come la fonte inesauribile di “tradimenti e bugie", il quale non le ha mai voluto dare certezze né le ha corrisposto i suoi desideri di stabilità e progettualità in quanto “troppo impegnato con le sue donnine”, contemporaneamente, nella descrizione di Alba, se ne presenta uno stridente e sullo sfondo (presumibilmente più vicino al Marco reale) ritratto come una persona riservata, timida, insicura, incapace nella comunicazione dei propri stati emotivi, sempre “storto e cupo” (telefonicamente, durante la settimana) ma, all’opposto, propositivo, molto presente e genuinamente felice, che si sforza di darle presenza e si rivitalizza quando la vede durante il week end.
All’interno di una dinamica interpersonale fragile, spigolosa e pericolante, i momenti intensamente e freneticamente vissuti di pieno benessere e attività dei loro week end (fatti di una sequenza di uscite ed esperienze attivanti assieme, includenti cene, aperitivi, passeggiate, gite giornaliere) che sembrano effettivamente essere definiti del tutto entusiasticamente da Alba, si accompagnano a liti telefoniche violente e costanti nel periodo infrasettimanale (i cui i due rimangono fisicamente separati) che spezzano l’idillio del fine settimana passato assieme e introducono una conflittualità aperta e vigorosa (espressa da un’Alba incandescente che accusa instancabilmente Marco di mentirle e nasconderle una relazione con altre donne).
L’evidente frattura insita nella caratterizzazione di Marco (l’amato presente e premuroso del finesettimana e il crudele traditore infrasettimanale) è il primo cardine concettuale del quale mi avvalgo per favorire nella paziente una presa di posizione in merito all’inconciliabilità di queste due polarizzazioni.
Inizialmente, un’Alba sorpresa nel momento in cui questi due aspetti coesistono, risulta titubante e incapace di darsi una spiegazione di questo suo modo diplopico di vedere Marco e, subito, in lei prevale l’immagine del Marco traditore; la paziente non sembra, quindi, inizialmente essere in grado di mentalizzare l’idea che l’altro non si né interamente autentico e sincero (oggetto buono) né interamente falso e infedele (oggetto cattivo).
Il tutto avviene all’interno di una dinamica eccitatoria nella quale il motore vitalizzante di Alba nonché la finalità che la muove è proprio l’imperativo etico e gnoseologico di dimostrare che (all’interno della relazione sentimentale) il ritratto negativo “del traditore” è la sua totalità, unicamente a tale scopo la paziente “scava” al fine di trovare prove che rinsaldino la sua immagine dispregiativa della figura maschile, che acquisisce massimamente concretezza e sostanza nel suo persecutore (la persona di Marco).
Soffermandomi sulla seconda e transitoria rappresentazione che Alba ha del suo oggetto amato, le metto in evidenza quanto spesso siano le stesse parole della paziente a presentarmi un altro Marco che stavolta sembra esserle limpidamente dedito e che, nella sua incapacità comunicativa, cela verso lei un genuino trasporto emotivo (palesato, però, dai piccoli gesti di attenzione esibiti nei suoi riguardi).
Sembra davvero, in questo Marco, non esserci il minimo interesse a indulgere in altre relazioni e a Alba appare autenticamente sincero e cristallino mentre definisce Sara come sua carissima amica di vecchia data e nel momento in cui la dipinge in un modo alquanto poco lusinghiero definendola “una saccente, un po' infantile e arrogante” oltreché “un po' noiosa e bigotta”; effettivamente, questa (fornita da Marco e riportata da un’Alba convinta della schiettezza del proprio interlocutore) appare essere una caratterizzazione alquanto sprezzante di Sara (che, probabilmente, la rende assolutamente priva di attraenza per lui).
Dunque, nel tentativo di contenere il delirio, attraverso una rigorosa confrontazione critica e un paziente test di realtà (finalizzati ad aiutare Alba a riflettere sulle sue argomentazioni), la metto in condizione di avere perfettamente chiara di fronte a sé l’ambiguità dei contenuti che mi porta su Marco (le due rappresentazione antitetiche del suo amato) e la invito a scegliere una posizione; ciò avviene proprio attraverso un mio primo ripetuto ancoraggio a frammenti di realtà che la paziente scaglia (talvolta e distrattamente), che minuziosamente io raccolgo per ridonarglieli, nella speranza che da queste schegge di vetro taglienti e isolate, possa nascere un mosaico esperienziale e narrativo.
Allora, un’Alba (il cui sorriso iniziale, malizioso e beffardo, d’improvviso si spegne e la cui espressione diviene accigliata) dopo un iniziale smarrimento, chiosa con una prevedibile reazione:
 
“In effetti mi sembra sempre così sincero… allora potrebbe anche darsi che in realtà non ci sia questa relazione e quindi Marco potrebbe dire la verità”.
 
Dapprima sembra accettare una differente posizione e relativizzare la propria prospettiva ma, poi, il barlume di consapevolezza transitorio decade sotto la forza gravitatale del vissuto delirante e Alba si ripiega sulla sua familiare ideazione, a sottolineare non solo l’affezione e la dipendenza che la paziente mostra per il proprio sistema delirante ma, in tutta la sua evidenza, la debolezza di un approccio basato meramente su un’analisi contenutistica (e non formale) del vissuto della paziente:
 
“Inizialmente, dopo essere venuta da lei, pensavo di essermi sbagliata ma, poi, a casa mi sono ricreduta perché lui ha staccato Facebook alle 21.38 e lei alle 21.40 e questo vuol dire che erano insieme, che lui mi ha sempre ingannata… dottoressa hanno fatto l’accesso alle 21.15 e lei alle 21.16 e quindi sono a messaggiarsi”.
 
È evidente che, in un’Alba chiaramente impreparata a toccare il vissuto di fallimento e il vuoto esistentivo della propria condizione (nonché priva della cornice riflessiva della terapia), sia troppo penoso mantenere lungamente una posizione netta che la costringe a rivedere non solo la rappresentazione di Marco, ma, primariamente, il proprio personale operato, che l’ha costretta a una vita non vissuta e delegata al mondo della vita altrui.
La consapevolezza di essersi inclusa all’interno di un sistema autodistruttivo permetterebbe alla paziente di acquisire un contatto con la propria insufficienza (che sembra esorbitare dalla possibilità di Alba di fare, di essa, materia per la propria identità e di tesserne il senso nel significato della propria biografia e esistenza) e rappresenterebbe, quindi, il preludio di una reazione depressiva, che, però, non accade mai perché la paziente si attiva e rivitalizza ciclicamente attraverso il sistema delirante (che si riverbera continuamente in modo drammatico).
 
iv. ii. t1: transitare nell’essere “l’uno di fronte all’altro”
 
Come risulta palese fin dalle sedute iniziali, anche in Alba sono presenti due chiare rappresentazioni incompatibili di sé stessa: in seduta compare quasi esclusivamente un’Alba preminente che si sente ingannata e umiliata dal suo traditore, impiegante la totalità del suo quotidiano nella ricerca attiva di indizi che comprovino i molteplici tradimenti ad opera di Marco (che rappresenta solo l’ennesimo oggetto del tutto indifferenziato di una modalità relazionale persecutoria sempre agita).
Lei è completamente decentrata dal proprio mondo della vita e si proietta totalmente “in Marco e nelle sue
donne” (inizialmente racchiuse nella figura di Sara), che vengono controllati spasmodicamente e senza posa, con la fantasia totalizzante che la sua figura di riferimento sentimentale sia felice, appagata senza di lei e assieme ad un’altra donna, fonte assoluta di gratificazione per il suo amato.
Questa Alba, identificata pienamente nella posizione della vittima e riluttante di fronte all’alterità dell’altro (che le rappresenta unicamente un dispositivo riflettente, perno delle proprie proiezioni), non può che avere costantemente presente a sé quel Marco irreale e immaginato che, assolutamente disumanizzato, alimenta la tragica scena del suo romanzo delirante e la allontana, sempre più drasticamente, dalla possibilità effettiva di un mondo della vita vissuto.
All’opposto e raramente, affiora (dalle pieghe del lavoro terapeutico) un’Alba sofferente, conosciuta da me solo telefonicamente, disperata e in contatto con un vissuto profondo di fallimento personale, consapevole di essere unicamente la spettatrice di vite altrui e auto-esclusa dalla possibilità di costruirsi una relazione non fallace; esasperata e inerme (nonché sopraffatta da una primeggiante Alba vertebrata dal delirio) si esprime in modo del tutto impressivo, attraverso la seguente e dolorosa affermazione:
 
“Mi sono sciupata la vita, ho perso un sacco di tempo a stare dietro a quello che facevano gli altri e ho perso tutte le persone per il mio problema del controllo; se solo mi fermo a pensarci mi viene da ammazzarmi”.
 
Proprio per merito di questa “spaccatura” intima e autoriferita (racchiusa nella duplice rappresentazione che anima la paziente), immediatamente e fin dalle prime sedute, si tratteggia in me l’immagine eidetica rivelativa delle “due Albe”, la quale si fa imponente e, come uno squarcio di luce che trafigge il buio della notte, rappresenterà quell’essenza illuminante che costituirà la mia seconda via clinica (successiva alla prima, precedentemente descritta e implementata, solo transitoriamente efficace) e accompagnerà, poi, tutto il nostro percorso terapeutico.
E’ del tutto evidente la dicotomia espressa da queste due rappresentazioni antitetiche che, nella loro essenza duale, mostrano bisogni e desideri differenti: se un’Alba (identificata nel ruolo della vittima umiliata) ricerca nell’altro una soluzione al suo problema di mancanza, si satura incentrandosi sull’entità esterna Marco (di cui, autocompiaciuta, deduce torti e tradimenti) e si proietta interamente nella dimensione vissuta altrui, l’altra Alba è sofferente in quanto dolorosamente consapevole di essere egodistonicamente pressante ed oppressiva con la figura maschile di riferimento nonché insopportabilmente priva di uno spazio esperienziale e relazionale privato; questa secondo Alba è penosamente cosciente che primariamente di un’apertura al mondo della vita non digitalizzato e di un recupero di agentività necessiterebbe, a dispetto di una vita mancata che le si manifesta impietosa allo sguardo.
Infatti in Alba un iper-investimento nella dimensione affettiva (esplicito ovviamente nello scenario di Marco e delle sue coprotagoniste) si affianca ad una dimensione lavorativa svuotata laddove, dal racconto della paziente, diviene tangibile una totale assenza di interesse e coinvolgimento nel proprio lavoro e l’unico dato significativo inerente ad esso è rappresentato dall’impiego del computer che diviene oggetto attraente unicamente nella misura in cui, risignificato e asservito al paradigma delirante, rappresenta (nei momenti di pausa) l’unico mezzo attraverso il quale controllare, esclusivamente, Marco e sue donnine.
Parallelamente, nella paziente, è presente il medesimo disinvestimento per ogni aspetto del quotidiano che sottolinea ancora, con maggiore forza, quell’assenza di una dimensione esperienziale propria, resa insignificante da un’Alba che sembra vivere solo all’interno della dimensione virtuale (la quale ospita invariabilmente la stessa storia) e che, in nome di un assoluto ideale amoroso e di un dominante imperativo di giustezza personale e privata, sacrifica la propria occasione di vita pienamente vissuta.
Così, un’Alba-detective presa nelle morse di una febbrile attività di spionaggio (tesa a ricomporre sapientemente i pezzetti del proprio enigma) e iper-inclusa nella vita del suo oggetto amato (che viene sistematicamente assalito verbalmente e accusato di mentirle e perpetrare sordide “tresche amorose”) viene prevedibilmente lasciata telefonicamente (a fine gennaio) da un Marco risoluto ed esasperato, che le nega addirittura un confronto visivo.
La sua incessante ricerca prosegue invariabilmente anche dopo la rottura quando, nell’immaginario di un’Alba furente per l’umiliazione subita (dell’incontro non concesso) e per la notizia (per lei del tutto inaspettata) della fine della propria relazione, improvvisamente Sara scompare completamente dal suo scenario (quasi si fosse un personaggio logoro che ha esaurito il potenziale attrattivo e il corso della propria storia) ed emerge, subitaneamente e in tutta la sua potenza, la figura di Amalia (una seconda amica di Marco, residente a Monza).
Diviene manifesto come, all’interno della struttura ideo-affettiva alterata della paziente, i personaggi centrali (ossia l’uomo amato e l’altra donna) siano interamente immaginati e non conservino alcuna delle caratteristiche antropologiche delle loro persone reali ma, all’opposto, rappresentino unicamente oggetti anonimi (pertanto assolutamente fungibili, seppur nella loro fissità dello script traditore-vittima-disturbatrice) che, in questa arbitraria interscambiabilità, si rendono disponibili a essere assegnati alla posizione più consona, dentro quella mappa di referenza delirante che Alba ha meticolosamente tracciato.
Infatti, all’interno della storia di vita della paziente, diventa banalmente coglibile la ripetitività e la medesimezza del copione a stampo dell’altro amato (ogni partner precedente di Alba) il quale, secondo l’enunciato stereotipico del tema delirante, non può che configurarsi atemporalmente e abiograficamente come -il traditore-, all’interno di una verità definitiva e consolidata che, nel suo disegno triangolare, include necessariamente una terza figura, la quale mina intenzionalmente l’equilibrio di coppia e sulla cui immagine si proiettano risentimento e malevolenza.
All’interno di questo paradigma preordinato e circolare, il bisogno impellente che ha Alba di estraniarsi, adesso più di prima, non solo dal senso di passiva impotenza del dato reale (concernente la fine imposta della relazione) ma anche dalla problematizzazione del proprio atteggiamento (che, in misura sicuramente decisiva, ha condotto al distacco “repentino” e fermo di Marco), la porta ancora di più a richiudersi fra le morse stringenti e immobilizzanti del delirio.
In esse la paziente, paradossalmente, recupera un senso di attiva invadenza e possibilità manipolativa all’interno della situazione circostante attraverso la figura di Amalia che (in quanto suo nuovo e sfavillante oggetto strumentale per insinuarsi nella vita di Marco) diventa presto obiettivo di molteplici e quotidiane chiamate anonime “al fine di carpire dagli stimoli circostanti la presenza di Marco assieme a lei”.
 
“Non me lo toglie dalla testa nessuno che lui abbia una relazione con questa Amalia e che ce l’avesse anche prima perché lei abita a Monza, vicino a Marco e l’altra sera da Facebook ho visto che è andata ad un concerto di Iannacci a Milano con delle sue amiche, ho ricollegato che è andata da lui e hanno passato la notte insieme (…) si sono collegati su Facebook a 7 minuti di distanza e sono rientrati e usciti di continuo, dalle 16.05 alle 20.38 ho provato a chiamare lei, che mi ha risposto per un po’, poi era in segreteria telefonica, sicuramente era al telefono con lui e, da lì, ha spento il telefono e non si sono più ricollegati entrambi, allora ho capito che lui è andato da lei e sono rimasti insieme tutta la notte”.
 
All’interno del proprio romanzo delirante (che nega la categoria dell’accidentale), gli ingressi ravvicinati o contemporanei (così come i sincroni momenti di assenza) di Marco e Amalia sulla piattaforma di Facebook o WhatsApp sono interpretati da Alba come indicatori certi della loro compresenza e di una indubitabile relazione sentimentale consolidata fra i due, della cui esistenza la paziente coltiva il desiderio rancoroso e inappagato di informare la madre e la sorella di Marco, nell’atto imponente di rivelare loro la verità: le due hanno rispettivamente un figlio e un fratello traditore che, come dimostrato dalle molteplici prove virtuali, ha certamente una relazione con un’altra donna (sicuramente iniziata precedentemente alla loro separazione).
Di fronte ad un’Alba che naufraga in balia dell’ondata delirante e che non sembra più in grado di contattare l’appiglio metaforico di un’Alba transitoria problematizzata e riflessiva, all’interno delle sedute (nel corso dei primi mesi), i miei interventi sono tesi a mettere in luce e rammentarle quella che è stata la sua richiesta iniziale (con l’obiettivo di recuperare e rinsaldare proprio la sua seconda rappresentazione).
In seduta la conduco progressivamente e il più delicatamente possibile ad individuare la propria contraddizione interna e alla messa in evidenza dell’egosintonia implicita del suo comportamento, fissando sempre come cardine del nostro lavoro le stesse affermazioni antinomiche portate dalla paziente in relazione a sé stessa, che evidenzio a lei continuamente, per favorire una sua presa di posizione in merito.
Ecco un frammento che, nella sua essenza paradigmatica, esemplifica il cuore della prima parte del nostro lungo e faticoso ma, allo stesso tempo, stimolante lavoro terapeutico:
 
T: “Se si ricorda, quando mi aveva contattato la prima volta, mi aveva detto che il suo problema principale era che lei controllava Marco e che stava male per questo bisogno; mi sembra che ci stiamo allontanando da questo tema, mi sembra che, piuttosto che concentrarci su di lei, siamo sempre focalizzate solo su Marco, su quello che fa e, mi corregga se sbaglio, lei non mi sembra così preoccupata di continuare questa attività di controllo, mi sembra più incentrata sul metterla in atto in modo strumentale per acquisire informazioni a sostegno della sua ipotesi, è corretto?”
 
P: “Sì, sono anche preoccupata e mi impongo di non farlo ma… poi io devo sapere cosa fa, devo saperlo”
 
T: “Come mai è così importante sapere cosa fa?”
 
P: “Perché vorrei sapere la sua motivazione all’abbandono, oltre essere pieno dei miei comportamenti, c’è dell’altro, ha un’altra storia, ne sono sicura, lui mi ha tradito e preso in giro”
 
T: “Se, invece, ipoteticamente scoprisse che questo tradimento non è mai avvenuto ma che, in realtà, lui ha cessato la vostra relazione solo perché era esasperato da questo tipo di comportamento, come si sentirebbe?”
 
P: “Boh… io sono così, non ho indossato nessuna maschera, sono stata sempre me stessa”
 
T: “Lei è stata autentica, questo è un dato di fatto senza alcun dubbio, lei mi sta dicendo: -io sono stata autentica anche mentre lo controllavo-?”
 
P: “Sì, esatto”
 
T: “Dicendo questa frase sembra quasi voler dire -io mi vado bene così, anche mentre controllo-; da una parte vorrebbe eliminare questo aspetto (del controllo) e dall’altra lo accetta come parte integrante della sua personalità, come se mi stesse dicendo -accetto di essere così e mi va bene perché è un sintomo della mia autenticità-; è giusto?”
 
P: “Sì”
 
T: “Dunque mi pare che siano presenti due prospettive conflittuali tra loro perché quando mi ha contattato sembrava che il bisogno di controllare fosse per lei un grave problema; dobbiamo ragionare su questo: il suo bisogno di controllo e il suo comportamento conseguente è qualcosa di sé stessa che lei può accettare oppure no? mi sembra che non sia particolarmente chiaro”
 
P: “Infatti non lo è, in effetti non ci avevo mai pensato ma sono un po' ambigua…”
 
T: “In seduta è come se vedessi due Albe, un’Alba (che c’è più spesso) che si sente tradita, umiliata e passa la sua vita a vedere quello che fa Marco, quello che fa Amalia, a vedere che loro stanno bene e lei invece no; poi c’è un’altra Alba (che fa capolino qualche volta) che mi ha contattato all’inizio dicendomi di avere un problema perché soffre, lei non soffre per Marco e di Amalia, ma soffre perché si rende conto che la sua vita non è vissuta, impegnata come è a osservare quella di altri…”
 
P: “Sì è così, in me ci sono tutte e due ma non vanno molto d’accordo”.
 
Come è evidente, l’habitus controllante appare come sintonico con la propria sfera dei valori e iscritto naturalmente nell’“autenticità” di un’Alba immersa pienamente nel sistema delirante (che accetta e si avvale strumentalmente del controllo), ma, all’opposto (primariamente nella richiesta iniziale telefonica) si fa presente anche una seconda Alba, maggiormente auto-consapevole, che esprime con forza il voler smettere di agire il controllo (il quale rappresenta, per lei, un impulso egodistonico verso cui si descrive come riluttante).
È chiaro che le due prospettive siano in conflitto e, attraverso il dialogo terapeutico (sottolineata la debolezza dell’affermazione etica della paziente e del suo pseudo-valore dell’autenticità), senza indurre reazioni difensive le mostro che eideticamente sono compresenti in seduta due Albe; la mia funzione esplicativa non viene vissuta in modo persecutorio e intrusivo ma ha come esito un auto-riconoscimento e un’apertura riflessiva.
 
T: “Dato che nelle nostre sedute parliamo quasi esclusivamente di Marco vorrei proporle di concentrarci maggiormente su di lei Alba; vede…mediamente 40 minuti su 55 della seduta noi li spendiamo parlando solo di Marco e, sebbene io capisca che lei ha questa esigenza molto forte, dobbiamo anche prenderci del tempo per parlare di lei… il problema Marco non è veramente -il problema Marco- nella misura in cui rappresenta solamente l’ultima di una serie di relazioni sentimentali che sono state vissute da lei tutte nello stesso identico modo e che hanno avuto lo stesso esito; lei ha avuto lo stesso atteggiamento e comportamento nei confronti di ogni persona con la quale ha intrattenuto una relazione”
 
P: “Sì, questo è vero, le mie relazioni sono sempre andate così…però so anche Marco è un traditore”
 
T: “Lei, quando mi ha contattato, non mi ha detto -io sto male perché Marco è un traditore- ma mi ha detto
-io sto male perché non riesco a smettere di controllare- e stava male perché stava perdendo tempo, spazio, persone della sua vita; questa è una condizione che le reca un immenso dolore ma noi dobbiamo occuparcene, dobbiamo aiutare quell’Alba che mi ha chiesto aiuto… un’Alba che soffre terribilmente perché la sua vita non è propria ma vissuta all’insegna dell’osservazione di quello che accade nella vita altrui”
 
P: “Sì, infatti è proprio così… se mi ci fermo a pensare io dico -non posso vivere sempre con il telefono in mano e in funzione di lui-, tutta la vita ho fatto così e me la sono rovinata io sola”.
 
Com’è comprensibile (elicitando nella paziente un nuovo contatto con quell’Alba iniziale e latente) attraverso un paziente esercizio di dispiegamento, le offro un filo esperienziale e una possibilità narrativa che tracima il limite di Marco e ci permette di avventurarci cautamente in un terreno personale ancora non battuto, laddove (piuttosto che forzare bruscamente un decentramento) scelgo di affiancare ciò che Alba continua a portarmi sul suo amato, all’esplorazione graduale e delicata di altri aspetti cardine della sua esperienza.
 
iv. iii. t2: approdare all’essere “l’uno con l’altro”
 
Ha inizio la seconda fase della terapia, all’interno della quale, una differente prospettiva (incentrata quasi esclusivamente sui vissuti della paziente che esulano dalla dinamica Marco-donne) rende meno urgente a Alba il bisogno di parlare di lui, minor pressante la necessità di esternalizzare in questo oggetto proiettivo la sua insufficienza e ci permette di far emergere gradualmente l’esperienza vissuta della paziente.
Così, come risulta chiaro dall’analisi degli esistenziali, si svela fin da subito al mio sguardo un’Alba assolutamente svalutante nei confronti della propria corporeità, che si vive come la portatrice emblematica di un corpo difettoso e subisce la carenza percepita di una corporeità ideale che non riesce mai a saturare.
Un intimo vissuto di inadeguatezza e inferiorità ha accompagnato la paziente fin da piccola quando “si ingozzava spesso senza avere fame e poi vomitava tutto” e, in età adulta, Alba continua tutt’oggi a mantenere una condotta alimentare altamente sregolata: durante il giorno si alimenta in modo ipocalorico e con limitate quantità cibi sani (i suoi pasti diurni, che escludono rigorosamente carboidrati o grassi, sono costituiti da insalate e ridotte porzioni di carne bianca o pesce già pronti o precotti che Alba si limita a riscaldare senza mai cucinare) mentre la notte (spiegandomi che utilizza il cibo come uno strumento soporifero per procurarle il sonno), sovente presenta episodi bulimici di assunzione incontrollata di ingenti quantità di cibi dolci e ipercalorici, che vengono ingurgitati rapidamente e voracemente e non sono accompagnati da una necessità fisiologica di alimentarsi.
Queste abbuffate notturne, inizialmente inspiegabili per Alba e codificate da lei superficialmente come strumento necessario per l’addormentamento, acquistano ben presto (grazie al dialogo terapeutico) una nuova caratterizzazione inerente lo stato emotivo della paziente che, immersa all’interno di un’esperienza soggettiva di profonda angoscia abbandonica, sente il bisogno irrefrenabile di nutrirsi nei momenti di indisponibilità e assenza percepita (oppure fisica) della figura di riferimento sentimentale, all’interno dell’urgenza di riempimento di un corpo che non viene sentito come pieno e vivo ma come vuoto.
Alba sostanzia l’inconsistenza della sua corporeità femminile attraverso l’iper-assunzione di cibi tipicamente infantili e consolatori maggiormente quando, collegatasi nuovamente sulle sue affezionate piattaforme online, ritrova l’accesso di un Marco che si prefigura distante e ora più che mai impegnato a relazionarsi entusiasticamente con una delle sue donnine e, proprio per dirimere quel vissuto conseguente di bruciante esclusione e rabbiosa impotenza, trova la sua scarica emotiva nel cibo.
Alba, privata della propria dimensione usuale (la diade con Marco) e sofferente per l’umiliazione di non essere più accanto al suo altro amato, non trova altro mezzo per confortare sé stessa che riempirsi attraverso la pienezza del cibo.
Come un’altra donna e Marco adesso si appropriano l’uno dell’altra e si riempiono reciprocamente (attraverso una nuova e appagante storia d’amore), la paziente necessita di colmare la propria solitudine e frustrazione attraverso l’assimilazione di cibo, sovvertendo nuovamente la passività in attività.
In un’Alba incapace di richiamare alla memoria e di darsi una spiegazione di che cosa accada dentro sé mentre si innesca questo motore immediato verso la dimensione alimentare, a seguito della mia richiesta di riflettere (precedentemente o posticipatamente all’episodio bulimico che la muove) sul proprio stato d’animo, diventa chiaro che quel contenuto emotivo rappresenta il terreno fertile sul quale si radica e cresce il bisogno di alimentarsi eccessivamente nonché di gratificarsi, a seguito della frustrazione subita.
Questa apertura, terapeuticamente proficua, avviene all’interno di uno sfondo memoriale che viene faticosamente costruito tramite il lavoro terapeutico ed esteso attraverso nuovi frammenti mnemonici (temporalmente e narrativamente ordinati), che vengono immessi al suo interno per essere trattenuti saldamente.
Ecco il momento clinico che esemplifica efficacemente la dinamica dialogica che ha portato ad una ridefinizione del comportamento sotteso dall’episodio bulimico.
 
P: “La sera sto pensando quando mangio a cosa penso… ma non lo so… mi viene questa voglia”
 
T: “Poco fa, però, mi stava accennando che subito prima che succeda si sente un po' agitata…”
 
P: “Sì, in effetti mi ha dato fastidio che lei alle 23.43 ha chiuso Facebook e lui alle 23.26 ha chiuso WhatsApp, ho pensato che non fosse una coincidenza e che si sentissero e, poi, sono andata a mangiare”
 
T: “Vede qui c’è un antecedente…non mi sembra che sia una cosa che le capita quando non accade nulla di particolare, mi sembra che, riflettendoci, troviamo sempre un evento che ha scatenato il suo sentirsi angosciata e, quindi, poi ha sentito l’impulso di mangiare”
 
P: “Ho questo impulso quando Marco è lontano da me e mi immagino che possa essere con una donna”
                                 
T: “Quando l’altro le manca di notte sente il bisogno di mangiare, di riempirsi attraverso il cibo… si è soffermata a pensarci prima?”
 
P: “No, ero troppo inclusa nella vita di Marco per pensarci e non avevo ricollegato che questo sfogo così accanito nel cibo fosse dovuto a una mancanza emotiva, però mi torna, mi ci sento, sono io”.
 
Nella paziente, che evidentemente comincia a essere maggiormente consapevole del misero spazio che ha dedicato ad una dimensione privata e personale (in contrasto con la vastità di quanto ha sacrificato di sé stessa), si verifica un movimento di riconcettualizzazione dell’impulso bulimico che, da atto meccanico, aspecifico e non problematizzato, diviene un preciso e finalizzato strumento teso a colmare una radicata percezione di inferiorità corporea e un’angoscia imminente di abbandono ed esclusione (nel momento in cui l’altro è percepito come non disponibile, non sicuro nonché immaginato sideralmente distante, avvolto dalla dimensione gratificante e frizzante di una nuova relazione).
All’interno di questa nuova fase della terapia, le nostre sedute ci hanno permesso di donare spazio a quella seconda rappresentazione della paziente intimamente sofferente e maggiormente decentrata dalla scena totalitaria di Marco per incentrarsi sulla propria.  
Così, partendo la questa nuova posizione prospettica, è emersa un’Alba che mostra un’insicurezza caratteriologica profonda correlata al bisogno narcisistico di ricercare l’approvazione dell’altro per rispecchiarsi positivamente nel suo sguardo e assimilarne conseguentemente il proprio valore personale (risiedente nell’aspettativa dell’immagine positiva rimandata dall’altro).
Come si evince dal seguente episodio terapeutico, anche la banale preparazione di una cena per le amiche sembra rivelarsi un progetto emotivamente insostenibile in quanto la paziente non accetta di sé un risultato che non raggiunta il livello perfezionistico, nella finalità di fornire una rappresentazione pubblica della sua persona che si confermi all’altezza dello standard auto-imposto, all’interno di una struttura antropologica che tradisce un inflessibile ancoraggio alla scrupolosità (inerente a tutta la dimensione organizzativa e della sfera domestica), nel tentativo di arginare un più che evidente e intimo nucleo di autosvalutazione.
 
T: “A casa invita persone?”
 
P: “Molto poco, e soprattutto non a cena, perché mi fa pensiero: non so mai che preparare, non sono una di quelle che -quello che c’è c’è- …io sono come la mia mamma, bisogna che mi anticipi per bene e mi stresso, mi sta fatica”
 
T: “ha paura dell’immagine negativa che può dare, ad esempio qualora la cena non fosse gradita agli invitati?”
 
P: “Si, poi mi va che la casa sia tutta in ordine, pulita e sistemata, non riesco a presentarla come vorrei e ho paura che i miei amici la guardino e la notino male, mi entra questa agitazione”
 
T: “Questo succede perché sono gli amici ad essere un po’ puntigliosi oppure perché si sente in difetto lei per aver lasciato disordine?”
 
P: “Mi sento in difetto io”
 
T: “Mi sembra che lei tenga molto a dare un’immagine positiva di sé perché, probabilmente, si sente inadeguata rispetto all’immagine che vorrebbe dare agli altri e rispetto all’immagine che pensa gli altri si aspettino da lei”
 
P: “Sicuramente, è proprio così, non è un -voler apparire- ma devo dare una certa immagine di me”
 
T: “Ha paura di far entrare le sue amiche in casa perché ha paura che le amiche la possano giudicare come non adeguata?”
 
P: “Sì, il fatto di dover preparare le cose per il pranzo di mia sorella l’altro giorno, ad esempio, mi ha messo in agitazione, cosa che… mia sorella Alessandra invece se ne sbatte altamente, lei era ancora a farsi la doccia quando hanno iniziato ad arrivare gli invitati, io invece ero già tutta pronta e avevo preparato”.
 
T: “Questa osservazione che lei mi ha fatto è molto pertinente e, forse, tempo fa non me l’avrebbe fatta, presa come era a guardare solo la vita di Marco”
 
P: “No, infatti”
 
T: “Per cui, tornando alla sua affermazione, come ha detto lei -non è un voler apparire- ma è un ricercare attraverso l’approvazione dell’altro di approvare sé stessi, lei si sente bene se è guardata bene, le torna?”
 
P: “è vero, sì, e poi pensi che era il pranzo di mia sorella, doveva essere lei quella agitata per prepararsi e finire di preparare, invece se ne frega e io non so come fa”
 
T: “Probabilmente sua sorella può fregarsene perché è una persona molto sicura di sé”
 
P: “Si, io non sono come lei”
 
T: “Lei mi sta dicendo che non è così sicura come sua sorella…”
 
P: “Sì, io sono un’insicura, lo sono sempre stata”.
 
Si apprezza da questo stralcio clinico, in tutta la sua pienezza, la rilevanza del polo astenico che pervade Alba (la cui organizzazione personologica si rivela interiormente flaccida e attraversata da un’insicurezza di base) il cui risultato comportamentale (ossia la tendenza perfezionistica), come correttamente sottolinea la mia stessa paziente, non si riduce affatto a un bisogno superficiale dettato dalla mera “apparenza”, ma riflette la necessità profonda della paziente di dirimere (prendendo in prestito un’espressione di Kretchmeriana memoria)
-quell’angoscioso vissuto di trasparenza e di vergognosa insufficienza-, con il quale Alba si confronta in ogni occasione di incontro con l’altro.
In particolare (come sottolineato dall’analisi dell’esistenziale -alterità-), se ogni incontro potenzialmente slatentizza il suo nucleo nascosto di delicata vulnerabilità e se la paziente mostra una naturale attitudine astenica precostituita, quella con la sorella Alessandra rappresenta la competizione interpersonale per antonomasia; tale paragone implicito significa, per Alba, ogni volta dover subire irrimediabilmente uno scacco umiliante e tornare a contatto con propria parte insufficiente.
Su questo terreno di sensibilità intrapersonale che esploriamo cautamente, per la paziente arriva ad aprile l’occasione di un nuovo incontro importante a seguito un’insperata telefonata di Marco che, probabilmente resosi autonomamente conto di non aver affrontato in modo maturo la situazione di chiusura, invita (dopo diversi mesi in cui i due non si sono mai sentiti) Alba a “vedersi per un caffè per mettere un punto alla loro relazione, attraverso un confronto adulto e diretto”.
L’incontro avviene un pomeriggio dei primi giorni di maggio, al quale Alba si presenta titubante e confusa sulla propria aspettativa: la speranza illusoria di una riconciliazione amorosa è commista al desiderio di una serena assunzione di consapevolezza circa la chiusura definitiva mentre, sorprendentemente, la giornata si rivela scandita da un dialogo sereno (fatto di gradevoli, leggere e spiritose chiacchiere sul quotidiano e sulle reciproche famiglie).
L’atteggiamento di Marco, alquanto affettuoso e amicale (che perdura anche in un “messaggino” settimanale che spontaneamente manda a Alba fino a Giugno per un breve scambio vicendevole e di superficie, in cui conversano ancora “del più e del meno”) lascia la paziente piacevolmente colpita e sembra rappresentarle quella base contestuale sicura e favorente un’apertura terapeutica che la muove ad una significativa prima riconcettualizzazione della figura del suo ex partner; all’interno dell’obiettivo, faticosamente conseguito, di spostare l’attenzione dalle caratteristiche (denigratorie) di Marco alla funzione narcisisticamente riempitiva e rispecchiante che lui assolve per Alba, come si evince da seguente frammento terapeutico:
 
P: “Ho avuto poca voglia di controllare, sto meglio, adesso mi cucino e penso più a fare le mie cose, esco più volentieri la sera con le mie amiche, andiamo alle terme la domenica e faccio passeggiate… il tempo passa e adesso mi accorgo che Marco mi manca però meno, in determinati momenti e basta”
 
T: “Era abituata che le mancasse sempre?”
 
P: “Sì, prima mi mancava sempre, adesso senza sto abbastanza bene”
 
T: “Si sente diversa da prima per quanto riguarda questo aspetto?”
 
P: “Sì, diversa…”
 
T: “E questa consapevolezza come la fa sentire?”
 
P: “Bene ma confusa, il perché non lo so…”
 
T: “Lei è abituata all’Alba bisognosa di Marco, un po' dipendente da Marco, mentre con la terapia si sta affacciando un’Alba più autonoma e indipendente che, quindi, sente molto meno la mancanza di Marco e, forse, al momento lei non sa in quale riconoscersi maggiormente”
 
P: “Sicuramente, però devo dire che mi dà proprio fastidio non averlo il sabato sera, quando sono sola”
 
T: “Le dà fastidio non avere Marco il sabato sera o le manca avere qualcuno per passare il sabato sera, giorno che per lei sembra essere importante?”
 
P: “Direi qualcuno, perché infatti quando sono con le amiche sto bene e non ci penso proprio a Marco, anzi… sto proprio bene”
 
T: “Sembra quasi che lei non abbia bisogno di Marco in quanto tale ma della presenza di qualcuno per colmare quei momenti di vuoto in cui è insofferente di stare da sola”.
 
P: “Si, poi mi fa sempre piacere sentirlo per messaggio eh… ma adesso è diverso… non lo so”
 
T: “Mi sembra di capire che il messaggio che riceve non le dia più quell’attivazione di prima”
 
P: “Sì, anche se, quando ho visto il messaggio in cui mi ha scritto lui, devo essere sincera, mi sono attivata molto in senso positivo, ero gioiosa”
 
T: “Questo, secondo lei, è accaduto perché lei ha sentito un trasporto emotivo verso Marco o più per la gioia di sentirsi valorizzata dal messaggio in quel momento?”
 
P: “Più per la gioia del messaggio”
 
T: “Vede… c’entra meno con quello che lei prova per Marco e più con quello che Marco le fa sentire; mi sembra che il bisogno, da parte sua, di essere valorizzata sia superiore al riconoscimento, per lei, di un sentimento autentico per Marco”
 
P: “Sicuramente sì, mi ha fatto piacere perché mi sono sentita importante”
 
T: “Mi sembra che lei sia molto meno coinvolta da Marco ma quello che continua a premerle sia una valorizzazione della sua persona da parte di Marco, e riconoscere questo è importante perché non ha a che fare con Marco ma con il fatto di come lei viene percepita da un occhio esterno, quello di Marco”
 
P: “Cioè?”
 
T: “Di essere vista in modo accattivante dagli altri, in questo caso da Marco; le faccio un esempio: quando prima le ho chiesto che cosa pensava in relazione ad un altro ipotetico incontro le mi ha detto subito -di farmi la manicure, la pedicure- e, magari, mi avrebbe aggiunto anche un trattamento viso”
 
P: “Sì, sì esatto”
 
T: “Ecco…queste sono le solite cose che lei fa per apparire attraente e piacevole allo sguardo dell’altro, come se questa fosse la prima cosa per lei importante, per cui i sentimenti che lei prova per l’altra persona vengono messi in secondo piano rispetto a quello che l’altra persona ritiene di lei e all’immagine che lei dà all’altra persona, mi spiego?”
 
P: “Sì, in effetti io sono sempre stata così, con tutti, non solo con Marco e basta, anche con le amiche… io devo dare una certa immagine di me, a loro, a tutti”.
 
Alba, sensibilmente anestetizzata dal pensiero intrusivo e costante del suo oggetto-amato e uscente dal ripiegamento all’interno della sua creazione delirante, sembra acquistare lentamente e significativamente una dimensione esperienziale propria nella quale ha maggiore cura di sé stessa e propositività (recupera la sensazione di piacevolezza legata alla dimensione alimentare, costruisce una sua spazialità esperita attraverso passeggiate autonome, coltiva lo scambio interpersonale e condivide la propria dimensione quotidiana con le amiche in modo del tutto egosintonico).
Grazie al lavoro terapeutico pregresso, che ha messo in evidenza quanto incentrare continuamente l’attenzione sul suo ex partner fosse di ostacolo per una possibilità di avvicinamento alla propria sofferenza interiorizzata, Alba acquisisce a poco a poco consapevolezza che Marco le rappresenta unicamente un oggetto, utile alla finalità di colmare la mancanza emotiva percepita e, adesso, inizialmente riconosciuta.
Inoltre, se prima la paziente viveva le uscite con le amiche unicamente come un inutile nonché doloroso impedimento al controllo, adesso si mostra ben disposta verso questa nuova esperienza soggettiva soddisfacente e l’angoscia abbandonica per Marco non la attraversa, così come il conseguente bisogno di controllo (che si rivela, in questa occasione, assente).
Addentrandoci delicatamente nel suo vissuto di insufficienza, diventa possibile creare un’interlocuzione con quell’Alba in contatto con un profondo vissuto di fallimento e inferiorità che, transitando dal tema monocorde dell’inadeguatezza dell’altro alla possibilità di parlare della propria inadeguatezza (all’interno di un’immagine di sé stessa fallimentare, che le è adesso familiare), comincia a riflettere in merito alla propria necessità di acquisire consistenza attraverso la validazione e il rimando entusiastico (relativo a se stessa) da parte dell’altro, il quale assolve una funzione solidificante la propria flaccidità.
Come massimamente emerge dal prossimo scambio clinico, per Alba (che inizia problematizzare la propria condotta comportamentale, cessando di ascriverla al tradimento e ricodificandola come una sua necessità intima e personale), Marco non rappresenta che l’ultimo attuale specchio riflettente il proprio bisogno narcisistico di sentirsi rifratta nello sguardo ammirato e ammagliato altrui, in cui ritrovare la stabilità del proprio Sé vacillante (attraverso il bisogno soddisfatto del flusso continuo dell’esaltazione grandiosa che l’altro significativo le rimanda).
 
P: “Il mio comportamento oppressivo era dettato dal suo essere sempre storto e dal suo umore, mi venivano i pensieri, quando lo sentivo attivo e presente per me, non ci pensavo al tradimento. Se Marco non avesse avuto momenti di stranezza e di distacco io gli avrei creduto, io il controllo ce l’ho solo quando c’è qualcosa che non va; basta che abbia tranquillità e finisce il controllo”
 
T: “Cos’è per lei la tranquillità?”
 
P: “Per me la tranquillità è che l’altra persona c’è, che non è strana!”
 
T: “E nelle altre relazioni? c’era stranezza”
 
P: “Sì, quando non mi rispondevano al cel. e non mi volevano vedere oppure anche quando percepivo qualcosa che non andava dalla voce, di qui scattava il controllo, mentre quando andava tutto bene perdevo interesse e li consideravo troppo poco”
 
T: “Quando l’altro è lì per lei allora lei allenta la presa, se l’altra persona invece mostra assenza, imprevedibilità, non disponibilità per lei, allora lei stringe la presa…”
 
P: “Non ci avevo pensato ma è proprio così…lo faccio ogni volta”.
 
Dunque, Alba (che comincia fruttuosamente a riconoscere i suoi processi di pensiero) mostra una buona capacità autoriflessiva (congiuntamente ad una notevole risorsa intellettiva, non più plasmata dalla strutturazione delirante) che ci permette di favorire una ridefinizione del suo sintomo principale, la quale porta, conseguentemente, ad una significativa diminuzione del comportamento controllante stesso.
Avviene il passaggio dalla prospettiva in cui il controllo è messo in atto “in quanto Marco è un traditore” a una posizione in cui esso è agito egodistonicamente in quanto bisogno internalizzato della paziente, che le rappresenta la propria modalità privilegiata di scarica dell’angoscia (inerente ai suoi intimi vissuti).
In Alba lentamente il controllo non viene più esternalizzato nella figura di Marco (nel tentativo di dimostrare il suo ritratto disumanizzato) ma è riconcettualizzato in una luce diversa, come monito per riflettere sulla rappresentazione che Alba ha di sé e sulla sua modalità fallimentare di gestione della relazione interpersonale.
Nel momento in cui l’altro è percepito come fonte di imprevedibilità e mancata sicurezza, la paziente, che è incapace di tollerare non solo la non presenza, ma anche la discontinuità dell’altro significativo (seppur nelle sue normali e quotidiane oscillazioni) e che proietta su di esso il proprio schema ideale di fusionalità, si ancora alla dimensione relazionale, in cui il bisogno di controllo (e il contemporaneo tentativo di presentificazione) assolve una funzione di riempimento spasmodico di un vuoto emotivo e relazionale.
All’opposto, nel momento in cui l’altro (dimostrandosi iper-presente e colmo di attenzioni) rispecchia quel canone idealistico proprio di Alba, soddisfacendo pienamente il suo bisogno richiedente di dedizione continua nonché incarnando l’aspirazione alla completa adesione a sé stessa che lei ricerca, improvvisamente l’interesse della paziente viene meno, l’oggetto viene esautorato e collassa di colpo; così, contemporaneamente quel moto vitalizzante (che attiva la paziente nell’affannosa e perennemente insatura ricerca ideale) può riavviarsi quando l’oggetto si fa di nuovo irraggiungibile.
Inoltre, il vissuto di inadeguatezza personale attraversa l’intera configurazione paranoicale di Alba per cui, esteriorizzando questa vergognosa insufficienza e evacuando le parti cattive del proprio sé sull’altro, vive in un mondo costituito da oggetti relazionali che si configurano invariabilmente come maligni.
Come emerge dal prossimo frammento terapeutico (che vede la paziente acquisire un’iniziale consapevolezza di questa sua organizzazione), è sempre presente nel suo immaginario una donna disturbante (assieme un Marco traditore), pronti a riemergere contestualmente.
Infatti, la paziente è oramai abituata a ricevere l’usuale “messaggino” di Marco che, premuroso, si informa settimanalmente della sua salute e di quella dei suoi cari ma, non appena questa consuetudine si interrompe (a inizio luglio) e lei si ritrova priva di questo piccolo ma vitale conforto, ecco che si riaccende una transitoria
-fiammella- delirante: Alba non può fare a meno di spiegarsi quell’assenza immotivata proprio mediante il suo affezionato sistema delirante.
All’interno di esso, infatti, l’utilizzabilità del Marco immaginato è quella di fungere da oggetto spogliato della sua carne di essere umano e manipolato all’interno del suo personale paradigma (che le fornisce una giustificazione dell’assenza e che, invece di farle contattare una penosa esperienza abbandonica di solitudine, le conferisce una rabbia eccitante e la muove alla creazione di nuovi personaggi intriganti per il suo fedele romanzo).
Questa volta, però, in virtù di un lavoro terapeutico anteriore che, evidentemente, ha sedimentato con pregnanza nel terreno ideo-affettivo della paziente, non solo non mi è impossibile insinuarmi all’interno di questa nuova e spiacevole ripetizione ma essa si trasforma in una vera e propria occasione terapeutica per incoraggiare con più forza Alba a problematizzarsi e addentrarsi internamente al proprio polo astenico.
 
“P: Questa settimana non mi ha proprio cercata e allora adesso penso ci sia un’altra, anche se Amalia l’ho scartata del tutto oramai, quindi il controllo di Amalia per me non esiste più”
 
T: (tono ironico) “Abbiamo chiuso un’era! adesso chi è che fa capolino sul suo panorama?”
 
P: (ride di rimando) “Sì, infatti! c’è un’altra ora che io ho chiuso con Amalia, una certa Anna che guardicchio”
 
T: “E che contatti avrebbe con Marco questa Anna?”
 
P: “Nessuno” (ride)
 
T: (rido anche io) “nessuno…”
 
P: “Bè…  hanno messo tutte e due -mi piace- ad un video di un locale di Milano, non sono neanche amici su Facebook, è fra una quindicina di donne che ha messo -mi piace- a questo locale”
 
T: “E in che cosa spiccherebbe il profilo di questa Anna rispetto alle altre, come mai l’ha colpita tanto?”
 
P: “Perché è single… mah… poi boh… è un po' poco, in effetti magari neanche si conoscono…”
 
T: “è dunque possibile che, nel momento in cui Marco non si fa vivo con lei, lei Alba sente tanto l’angoscia di questa mancanza che ha bisogno di trovare una giustificazione -di questa assenza di Marco- in una frequentazione di Marco con una figura femminile?”
 
P: “Sì in effetti mi torna, perché io pensavo mi scrivesse… devo essere sincera, me lo aspettavo un messaggino! Poi non mi ha scritto niente…e mi è presa di nuovo questa cosa delle donne… sono ricaduta nelle donne”
 
T: “Mi sta dicendo che, se queste donne rappresentano il suo tentativo di rispondere all’angoscia per le assenze di Marco, il tema delle donne è un qualcosa che appartiene a lei e non a Marco?”
 
P: “Sì”
 
T: “Dunque, le va di descrivermi che cosa l’ha colpita fisicamente di questa Anna?”
 
P: “è una bella donna, magra…”
 
T: “è per caso snella? con il viso proporzionato rispetto al corpo…?”
 
P: “Sì esattamente, come fa lei a saperlo?”
 
T: “Sa, in verità l’ho immaginato… mi viene in mente che queste sembrano essere proprio le caratteristiche fisiche che, secondo lei, a lei mancano…pensa sia un caso?”
 
P: “Forse no”
 
T: “Lei, di sé, mi ha descritto tutto un altro tipo di fisicità… quindi, forse, lei ascrive a queste figure femminili quello che, secondo lei, a lei manca ed è ricercabile in altre donne da un uomo, non a caso sceglie sempre donne con delle caratteristiche che lei, secondo la sua percezione, non ha, o sono belle oppure sono come Amalia (che lei descriveva come sessualmente provocante, cosa che lei non sente di essere)”
 
P: “Sì, ma adesso Amalia mi è definitivamente caduta”
 
T: “Amalia le è caduta… come l’ha fatta sentire?”
 
P: “Sollevata ma anche stupida per averci creduto, ma il fatto è questo: anche quando le mie amiche mettono le foto su Facebook dove ci sono anche io, io sto male perché non mi ci vedo proprio, mi vedo brutta, non mi sento all’altezza”
 
T: “E, come dicevamo -dato che si sente così inadeguata- forse, per lei è naturale pensare che ci sia una figura femminile, fisicamente più attraente e prestante di lei, alle attenzioni della sua figura di riferimento dal punto di vista sentimentale, tanto più che questa si dimostra poco presente o assente per lei. Che ne pensa?”
 
P: “Sì, è vero, mi descrive proprio”.
 
La scelta dell’impiego, rischioso ma pienamente consapevole, dello strumento sottile dell’ironia (come via di accesso al vissuto di Alba) è sottesa a sottolinearle delicatamente e in modo non invasivo la stonatura implicita della sua esperienza soggettiva (di una paziente di cui oramai non solo ho la conoscenza profonda ed esclusiva ma con la quale la relazione terapeutica è a un livello di consolidamento tale da permetterlo) e ha come effetto una marcata presa di coscienza del crinale psicotico (sul quale, in quel momento, lei vacilla nuovamente) e delle modalità che, a questa posizione, l’hanno condotta.
Difatti, Alba si sintonizza naturalmente sulla mia modalità umoristica e me la restituisce, mostrando con grande semplicità una notevole capacità di insight laddove, dopo aver cessato di proiettare la propria angoscia sul Marco traditore, inizia a riappropriarsene e a ridefinirla in quanto esito in un suo personale vissuto abbandonico e di mancanza, in balia del quale ogni volta che si sente all’interno di questa straziante situazione affettiva, non può fare a meno di (usando la stessa espressione calzante della paziente) “ricadere nelle donne” ossia esternalizzare un vuoto emotivo in una figura ideale (altrettanto anonima e disincarnata come il Marco immaginato) che diviene un efficace e potente catalizzatore emotivo, proprio nella sua impalpabile astrattezza.
Così, per darsi un’immediata ed esterna spiegazione al silenzio fragoroso di un Marco improvvisamente svanito, la paziente è costretta a ritrovare, stavolta, il suo oggetto cattivo in quella donna tanto temuta quanto ammirata, perché avente le caratteristiche fisiche di cui Alba percepisce l’intima e dolorosa assenza (ossia la snellezza fisica e la proporzione del viso rispetto al corpo).
L’attenzione (a cui io porto Alba) su questa modalità proiettante da lei impiegata nelle situazioni percepite come abbandoniche, ha come risultato l’auto-riconoscimento e la conseguente assunzione di una nuova prospettiva responsabilizzante all’interno della quale Marco cessa di essere il traditore e la donna non è codificata più come una disturbatrice ma, all’opposto, sotto gli occhi consapevoli di Alba, essi vengono visti per ciò che rappresentano realmente ossia: strumenti atti a completare il proprio disegno, con la finalità di decentrare la paziente (che delega ad oggetti inconsistenti e iper-investiti il senso del proprio stesso esistere) dalla sofferenza e dall’umiliazione della sua esperienza soggettiva.
Un utilizzo coerente della propria capacità intellettiva e autoriflessiva permette a quell’Alba “nuova” (in cui si attiva saldamente la parte non psicotica e che si mostra maggiormente in contatto con il proprio vissuto, nonché al di fuori dal proprio coartante involucro) di apprezzare, in tutta la sua chiarezza questa sua dinamica altamente disfunzionale: il delirio rappresenta lo strumento principe a cui Alba ricorre nel momento in cui percepisce il distacco e la discontinuità dell’altro amato; rimasta sola, sotto l’influsso di esperienze frustranti, non riesce a porre un limite alla parte psicotica, che dilaga in tutta la sua potenza devastante.
All’interno di questa confortante ricostruzione dettata dal delirio, emerge con assoluta limpidezza il mondo vissuto di Alba in cui le figure femminili, come si palesa dal frammento clinico, acquistano una centralità assoluta in quanto idealizzate indistintamente, nonché ferocemente invidiate, perché più vive, accattivanti e sessualmente appetibili di lei; dunque, è intuitivo e prevedibile (nell’immaginario di un’Alba gelosa che esprime una radicata disistima per sé stessa) che Marco sia assente in quanto inequivocabilmente captato da una di queste maestose donne, dalla cui grandiosità la paziente si sente sopraffatta e verso le quali esperisce una profonda inferiorità.
Ricostruire la storia di questo modo di sentirsi inadeguata e storicizzare l’esperienza del vuoto e della mancanza è uno degli obiettivi terapeutici più impegnativi che mi propongo e che, toccato finora delicatamente, ha mostrato che, nella paziente, il vissuto di impotenza è presente e caratterizzante fin dall’infanzia nell’Alba bambina, intrisa di gelosia (per la sorella Alessandra, mitizzata come “la più bella” e la portatrice di una fisicità che lei può solamente desiderare e mai possedere) e di iper-responsabilizzazione da parte della madre.
Infatti, la paziente è costretta ad assecondare il quotidiano monito materno che le impone di spiare e seguire (oppure di accompagnare) la sorella, la quale mostra a Alba, fin dalla precoce età, di avere una vita piena e interessante al contrario della sua; la paziente rimane in scacco, reclusa nel ruolo di passiva spettatrice e spesso allontanata dalla sorella (che paga la propria libertà spaziale e temporale in “soldini per le merendine” che offre a Alba perché lei esca di scena).
Così, la sorellina sfoga il proprio senso di esclusione e passività attraverso quelle pastine e dolciumi (gli stessi che Alessandra le elargisce, poi, al fine di garantirsi la sua vicinanza nel momento ansiogeno notturno e che, da adulta, conservano per Alba la medesima funzione consolatoria e saturante il proprio vuoto esistentivo).
Inoltre, la paziente è oppressa dall’intrusione e dall’iper-controllo della mamma-matrona che si esprime, non solo attraverso l’esortazione a sorvegliare costantemente la sorella maggiore, ma anche in un ferreo monitoraggio di ogni attività di che include Alba (che perdura fino all’età adulta attraverso interrogatori sui posti, gli orari, le amicizie delle uscite fuori e sugli ingressi in casa di amici o fidanzati che prima dovevano essere rigorosamente vagliati dalla mamma).
In questa situazione così problematica, Alba sperimenta ben presto un vissuto profondo di impotenza dal quale diviene evidentemente incapace di distaccarsi e che, in età adulta, la paziente (identificata del tutto inconsapevolmente con questo habitus invariante) arriva a trasmutare in strumento attivo e a ripetete nei confronti della figura di riferimento sentimentale.
Ecco, qui riportato, un momento riflessivo, al quale io conduco la paziente, che introduce una frattura in questa costanza (rendendo consapevole e partecipe Alba di questa sua coazione):
 
T. “Mi descrive spesso sua madre come sempre presente e quasi oppressiva, una mamma che le ha sempre dato un ristrettissimo spazio personale e voleva controllare tutti i suoi movimenti…questo comportamento le fa risuonare qualcosa di sé stessa?”
 
P: “In effetti è come ho fatto sempre io con i miei fidanzati, volevo sapere anche io ogni spostamento e li chiamavo in continuazione, se non li trovavo al cellulare mi appostavo sotto casa o sotto l’ufficio”
 
T: “Forse, dato che questo comportamento intrusivo di sua madre l’ha fatta fuggire di casa perché ne era esasperata, può capire come possano essersi sentiti i suoi fidanzati quando, anche loro, venivano a essere oggetto di questo comportamento, forse non hanno trovato altra soluzione che allontanarsi…”
 
P: “In effetti è davvero pesante, anche io, fossi in loro, avrei fatto lo stesso”.
 
In un’Alba che inizia a rendersi conto dell’identica ritmicità inerente al proprio stile oggettuale con l’altro amato e che inizia a prendere posizione nei confronti di questo copione involontariamente reiterato, si amalgama un intrinseco sentire di difettosità personale nei confronti delle altre donne (la cui vita è immaginata come gratificante), che costituisce proprio la sua base astenica prevalente. È interessante notare come l’effetto della terapia (i cui punti più caldi, fruttuosi e stabili si raggiungono appunto tra maggio e luglio) giunge lentamente a modificare anche questa ideazione invariante concernente la donna (che nell’immaginario di Alba si unisce alla percezione della coppia connotata dalle medesime caratteristiche), approdando a una rappresentazione maggiormente concreta e realistica, come è evidente da questo breve frammento clinico:
 
Sono andata a fare un giro al parco da sola e osservavo i passanti, all’inizio mi è presa un po' la malinconia perché vedevo tante coppie e io ero lì da sola, ma poi le osservavo meglio: lei li era imbambolata col cellulare e lui dall’altra parte, coppie insignificanti e ho pensato: -bah… meglio da sola che cosi, tutto sommato da me non sto così male- e, poi, adesso quando esco non controllo più perché voglio godermi quello che mi sta intorno”.
 
E’ altresì apprezzabile, da questa affermazione, un’esperienza soggettiva e una posizione esistentiva molto differente che esprime la paziente (rispetto all’Alba incontrata mesi addietro): se, prima, il controllo veniva sentito come pienamente egosintonico al punto tale da coartarla in casa (mentre le uscite erano vissute unicamente come momenti traumatici di pausa da questa attivazione eccitante), adesso la condotta controllante (sentita pienamente come egodistonica), non viene più utilizzata in quanto il metterla in atto, per la concettualizzazione della paziente, significherebbe la perdita della possibilità di calpestare ed esplorare il proprio mondo vissuto.
Alba, dopo aver cessato di esternalizzare nelle usuali “donnine” la propria insufficienza e avere iniziato a dialogizzare il proprio polo astenico, ha smesso di avere una mira femminile da tenere sotto scacco e non sente neppure il bisogno pressante e incontenibile di controllare il profilo di Marco, che visualizza unicamente poche volte a settimana adesso, senza che sia per lei un impedimento alle uscite con le amiche (che incontra volentieri per le cene fuori, gli aperitivi del fine settimana oppure le terme domenicali).
Infrasettimanalmente continua a ritagliarsi (contemporaneamente al controllo sensibilmente diminuito) un suo sempre maggiore spazio autonomo in cui fare passeggiate, cucinare piatti che le diano soddisfazione al palato, si prende cura del proprio aspetto e di sé stessa in modo molto semplice e basilare (“fa lunghi bagni profumati con la schiuma, si fa la manicure e la pedicure”) attraverso piccoli gesti che compie unicamente per il proprio piacere personale.
È questa Alba (attualmente al centro di un processo importante di ri-centramento e autonomizzazione) che lascio, subito prima della pausa estiva, alle nostre rispettive vacanze con un bagaglio di 9 intensi mesi di relazione terapeutica (con doppia frequenta settimanale per la maggiorparte del tempo condiviso), talvolta travagliati e talvolta ricchi di sorprese attese e insperate; rimaniamo, così, in attesa di ritrovarci e continuare il nostro percorso assieme.
 
V. COME UN NUOVO GENNAIO
Alba psicotica e Alba funzionante…l’eterna lotta.
 
La prima settimana di Settembre è oramai arrivata, così come il giorno del nostro incontro: il consueto lunedì, non vedo la paziente 4 settimane (due di mia assenza per le ferie di agosto e due di Alba che è rimasta fuori città per la pausa estiva); la paziente suona alla porta del mio studio come al solito puntuale e io, pregustando il colloquio, mi sento sinceramente lieta per il suo ritorno, ma dentro di me qualcosa (anche se non so ancora cosa e come) cambia improvvisamente, nel momento esatto in cui le apro la porta.
Incrocio il suo sguardo allarmato e le porgo la mano, la sua trema, mi rendo immediatamente conto che di fronte a me non è più presente quella paziente che oramai ho avuto modo di conoscere pienamente in virtù dei mesi pregressi di terapia insieme, al suo posto ho davanti a me un scheggia frenetica, incontrollabile, insensata che autonomamente rompe subito il brevissimo silenzio iniziale con un pianto disperato e convulso; dalle poche parole (disarticolate fra i singhiozzi) che riesco a carpire mi comunica Marco ha aggiunto nuovamente Sara su Facebook e che, proprio in virtù di questo accadimento (per lei insopportabilmente doloroso), “tutto torna” nuovamente e potentemente.
 
“Dottoressa, Marco ha ri-aggiunto Sara, questo è il segnale, ecco… è la prova che stanno insieme, che sono sempre stati insieme e che mi hanno sempre presa in giro e io avevo capito tutto fin dall’inizio, poi sono stata una stupida perché mi sono solo illusa che non fosse così e di essere nel torto ma io ho ragione, io ho la verità e l’ho sempre avuta: lui è innamorato perso di lei, è uscito pazzo di amore, si consuma per lei, la vuole seguire su tutti i social, con me è sempre stato finto, un uomo falso e bugiardo, di me non gli è mai fregato niente, tutto quello che mi ha detto era falso, ha sempre e solo voluto lei e non me, lei lo voleva tutto per sé, era gelosa di noi e ha fatto di tutto per mettere zizzagna e farci litigare, per prenderselo e ora lei ha vinto!”.
 
A fronte di un mio iniziale scoramento e mentre percepisco un rabbia intensa, che ribolle, pervadermi interamente (parallela all’immagine sarcastica, che si crea nella mia mente, di un osservatore esterno assieme a noi che, guardando la nostra grottesca scena, esplode in una irrefrenabile risata nervosa) e ponderato il livello consistente del mio controtransfert attuale, scelgo saggiamente (per evitare una mia reazione cortocircuitante e sicuramente dannosa) di lasciare esporre un’automatica Alba.
Mi limito al silenzio (avendo cura, come al solito, di non colludere, neppure con il suo pianto (cercando maternamente di consolarla) poiché questa sarebbe stata un’azione del tutto fuorviante, confusiva nonché deresponsabilizzante.
Aprendo al dispiegamento cauto della sua dolorosa esperienza soggettiva, le chiedo unicamente quali sarebbero (oltre la richiesta di amicizia accettata su Facebook) gli altri indicatori ipotetici a sostegno della tesi di un riavvicinamento sentimentale tra il rinnovato traditore la sua prima disturbatrice.
 
“Marco era in vacanza e ha postato una foto su Facebook di tre bicchieri di aperitivo, taggando due suoi amici nella foto con lui, ma io so che c’era anche lei li con loro, gli amici erano solo una copertura e uno dei bicchieri era per forza di Sara, oppure c’era un quarto bicchiere in più, che non hanno fotografato apposta, ed era quello di Sara, erano insieme, ne sono sicura (…) Sara ha messo un cuore rosso su Facebook ad una scuola di recitazione di Milano, vuol dire che si è trasferita e adesso sicuramente abitano insieme”.
 
Tra questi rimandi (assolutamente paralogici) e copiose lacrime, per me francamente esasperanti, ha finalmente termine l’ora della prima seduta e ha inizio la pausa fino alla seduta successiva (per la quale e per le sequenti ristabilisco due incontri settimanali, dato nuovamente il quadro clinico in acuzie) così da concedere alla mia rabbia di decantare. Mi avvalgo di questo tempo per pensare agli ipotetici scenari che abbiano riacceso, in modo tanto imponente, la fiammata delirante nonché agli interventi possibili per facilitare la paziente a una presa di posizione di fronte a questa nuova trasfigurazione della propria modalità di esperire il mondo.
In seduta successiva accolgo un’Alba meno dirompente e più dialogabile, che non si dispera ma sembra ben disposta al dispiegamento; così, usufruisco di questa bonaccia ritrovata per dare voce all’esigenza di farmi spiegare minuziosamente cosa sia specificamente accaduto nel periodo di assenza delle nostre sedute.
Alba mi racconta che, a seguito di un difetto di organizzazione e compatibilità di ferie con le amiche, senza altra possibilità che quella di rimanere sola, accetta di buon grado l’invito frettoloso della sorella Alessandra di trascorrere di due settimane insieme a Rimini in compagnia di suo marito, solleticata dall’entusiasmo di 15 giorni di mare.
La paziente però, dato che Alessandra le comunica di non avere posto per lei (nell’appartamento preso in affitto per l’occasione), è costretta a riadattarsi e cercare urgentemente una soluzione dell’ultimo minuto prendendo accordi e pagando anticipatamente per quello che le viene presentato (senza possibilità di visionarlo prima) come un grazioso e confortevole monolocale.
 
“Non mi sono mai sentita così angosciata in tutta la mia vita! L’appartamento era un buco sporco, con le ragnatele e soprattutto era buio, mi sono sentita malissimo lì… poi ho iniziato a ricontrollare Marco e ho visto le foto di lui in vacanza spensierato con gli amici in spiaggia a bersi il cocktail mentre io ero lì, in quel posto buio, da lì ho ricontrollato tutta la giornata e… me lo sentivo che sarebbe successo… ha ri-aggiunto Sara”.
 
Diventa allora maggiormente chiaro, all’interno di questo horror vacui della vacanza in cui Alba sprofonda, che proprio l’inclusione in una situazione ansiogena e precaria (in cui le amiche si sono organizzate comunque senza di lei, la sorella la invita ma non ha posto per ospitarla, le fantasie sull’appartamento accogliente impattano contro il triste piano reale di una stanzetta squallida), la paziente viene fagocitata da questo buio sul quale continuamente pone l’accento (facendomi tornare alla mente, per contrasto, tutte le volte che mi ha riferito del suo bisogno determinante di luce solare e mi ha raccontato di quanto la sua casa sia luminosa); Alba si ritrova, pertanto, in una palude stagnante, dove gli antichi fantasmi riprendono vigore e la circolarità del sistema delirante riemerge in tutta la sua potenza.
Infatti, questa che avrebbe dovuto rappresentare una piacevole vacanza, per la paziente si rivela essere l’emblema di un vuoto di presenza e di fallimento che Alba tocca con mano attraverso il confronto; sia quello implicito e diretto con la sorella Alessandra (appagata e inclusa in una vita piena), che quello virtuale nei riguardi di un Marco attivo, dinamico “che se la spassa” mentre lei si osserva dolorante (al centro di un’esperienza di solitudine abbandonica ed esclusione) dalla stanzetta buia dove è malcapitata.
Lo stato di angoscia inglobante, provocato dal luogo “buio e squallido” di questo situativo, reintroduce potentemente l’habitus del controllo nella dimensione di Alba che (elicitata dall’impulso controllante marcato e nuovamente quotidiano) monitora attentamente ogni foto di Marco e ogni possibile sua nuova aggiunta, con l’attesa di trovare la presenza inequivocabile di una donna assieme a lui, che le dia una giustificazione plausibile non solo della vivacità e della spensieratezza del suo oggetto (evidenti, per lei, da Facebook), ma anche della sua assenza concreta degli ultimi mesi.
Difatti Marco, che molto probabilmente vive realmente un momento leggero e sereno (Alba mi racconta che pubblica continuamente su Facebook foto di cene, birre e aperitivi che lo vedono ritratto assieme ad una nuova e folta compagnia di amici), sembra essersi effettivamente dimenticato, senza un motivo apparente, del solito messaggio settimanale a Alba. Così, la paziente reinterpreta questo dato di realtà traslandolo non come banale disinteresse ma come la prova del mutamento di Marco che, adesso sprezzante nei suoi confronti e dopo averla sfruttata per comodo, la “mette in un angolo”.
Questo cambiamento repentino del suo oggetto amato, nel mosaico ricomposto da Alba, assurge come una verità che le si manifesta in tutta la sua chiarezza a testimonianza dell’incontrovertibile presenza, nella vita del suo ex partner, di Sara.
In Alba, il fallimento e l’umiliazione profonda a cui è esposta, di fronte alla scena di un Marco che definisce “rinato” e a lei assolutamente indifferente, all’accoglimento mancato da parte della sorella (che, se fosse avvenuto, sicuramente avrebbe avuto un effetto protettivo e di riconoscimento per la paziente) e al relativo vissuto di esclusione, costituiscono proprio i temi basilari di bruciante contatto con il proprio polo astenico di inadeguatezza e inferiorità.
Ed è in questo clima emotivo turbolento e confusivo che la paziente sente il bisogno prorompente di transitare dalla propria (precedentemente acquisita) posizione internalizzata all’esternalizzazione su Marco e pervenire ad uno sviluppo delirante, all’interno di una struttura antropologica paranoicale che crea essa stessa le condizioni per il proprio scompenso e per il “torna tutto”; esse sono ravvisabili proprio in questa tipologia di vacanza, scandita da spazi vuoti e amorfi di auto-isolamento nella dimensione dell’iper-controllo.
Alba massimamente angosciata, sul terreno di vulnerabilità rappresentato da vissuto abbandonico, di solitudine ed emarginazione subite, assieme all’esperienza di fallimento intrinseca allo scacco relazionale (del confronto con la ricchezza della vita di Alessandra), ritrova proprio nella sensazione oppressiva del buio della stanzetta l’humus ideale sul quale germoglia un nuovo delirio.
Quasi si ricongiungesse con un vecchio compagno salutato da tempo, la paziente richiama a sé la sua parte malata e rigida (invocata proprio per saturare la sensazione terribile di vuoto e di sperdimento appena esperita) e, mostrando una piena affezione rispetto al proprio sistema, demanda ancora una volta al delirio il senso del suo vivere pieno. Se, in questa situazione pericolante, si fosse distaccata dalla sintomatologia psicotica si sarebbe sentita sicuramente spaesata, all’interno di una dimensione ignota e non familiare laddove (privata del forte dispositivo identitario del delirio e in balia dell’area depressiva) l’auto-riconoscimento sarebbe stato inaccettabile, in quanto troppo penoso.
È evidente che sono presenti, nell’organizzazione antropologica della paziente, una vulnerabilità e una sensibilità intrapersonale al contesto e ai suoi avvenimenti, all’interno di una dinamica evolutiva non lineare (nella quale, la distanza temporale prolungata dalla mia figura professionale è probabilmente stata determinante nel favorire questa potente virata verso il delirio); ad Alba è mancato, all’interno della propria organizzazione mentale, quell’appiglio al messaggio di realtà che le veniva regolarmente offerto dal nostro habitus contestuale e relazionale di appuntamenti scanditi.
Con l’interruzione e l’assenza (temporalmente considerevole) del nostro solito incontro settimanale, la paziente ha perduto il costante richiamo al setting mentalizzato e al suo contenuto, nonché la sua basilare e fondamentale funzione contenitiva (è chiaro questo spazio condiviso, in Alba, è funzionale a dare consistenza a quella presa di posizione interna, nonché al margine di dubbio che anima la possibilità della terapia).
Questo vuoto della (mia) presenza ha, anch’esso, favorito la riattualizzazione della dinamica delirante e ha contribuito a creare una sfaldatura nella nostra esperienza terapeutica (che è stata il terreno fertile di questa efflorescenza psicotica).
Altresì, rimasta completamente sola (senza il mio contrappeso terapeutico) e in balia di un’esperienza di frustrazione, la paziente approda a questa misura primitiva (messa in modo al fine di esorcizzare il proprio dolore) della riattualizzazione del sistema delirante, che si struttura coeso con la finalità difensiva di proteggerla dall’angoscia depressiva e abbandonica.
Questa forma di “auto-terapia malata” e salvifica che le rappresenta il delirio, permette alla paziente di distaccarsi dal proprio vissuto di impotenza e fallibilità e di ritrovare la vitalità proprio nell’idea di essere immersa nel combattimento di una grandiosa battaglia (in nome della propria “ragione” piena e della malvagità di Marco e Sara); all’interno di una rinnovata riorganizzazione ideo-affettiva che, paradossalmente, le fornisce (per iper-compenso) un consolidamento narcisistico e un senso di compattezza del Sé.
II proprio delirio, infatti, schermando i vissuti di abbandono, esclusione, inferiorità (i quali si configurano come gli elementi del situativo che, su questo terreno emotivo dissestato, hanno portato alla riattualizzazione delirante) reintroduce prepotentemente il tema della compartecipazione alla dimensione di Marco e Sara (che ancora, una volta, esercita sulla paziente un’enorme attraenza).
Così, Alba (desituata e reinserita al centro di una verità alimentante un’immagine di sé stessa come grandiosa) riprende intensamente l’attività controllante, con la rinnovata finalità di insinuarsi all’interno e manipolare la dinamica interpersonale di Marco e Sara mediante la fantasia di chiamare, come prima cosa, il suo ex partner (per esprimergli tutto il suo sdegno, dal momento che “le ha sempre mentito”).
Ma, nell’iper-controllo che esercita su Marco (che si configura come una mera ripetizione del controllo esercitato dalla madre su di lei, in un’Alba manovrata inconsapevolmente da un’identificazione implicita che non riesce a controllare), il suo primo confronto originario rimane inequivocabilmente con l’altra donna, esplicita, adesso, nella “Sara vincitrice” (erede metaforica della sorella appagata), la quale si configura come quella “disturbatrice egoista e spietata” che è riuscita definitivamente a sottrarle “con astuzia e calcolo” l’oggetto relazione più amato e attorno a cui si incentra interamente il suo mondo vissuto.
Immersa in un senso drammatico di impotenza e all’interno del sistema perentorio delirante, Alba ripropone il forte desiderio di rendere consapevole la mamma di Marco a proposito di suo figlio, il quale non solo si è sempre impunemente preso gioco di lei, ma il cui legame con Sara non si mai spezzato; la paziente è mossa dal duplice intento di “sbugiardare il traditore e sua la disturbatrice” per disconfermare, agli occhi della madre del suo ex partner, la propria immagine di “pazza e ossessiva” (che lui ha cercato di sagomarle addosso proprio “per nascondere il fatto che lei avesse la ragione”).
In questa visione del mondo (incardinata sul valore assoluto e inflessibile della giustezza personale) che Alba struttura, l’obiettivo primario è quello di svergognare Sara in quanto “poco di buono” e sbugiardare Marco (dimostrando che non è altro che un traditore) all’interno di una prospettiva che, come restituisco verbalmente alla paziente, si rivela assolutamente improduttiva per lei (laddove la volontà di smascherarli non le fornirebbe nessun arricchimento, ma all’opposto la lascerebbe sempre più impoverita e rancorosa in uno stato di solitudine rabbiosa, che non le restituisce il calore e l’affetto di cui necessita).
Proprio a questo “desiderio di sputtanare Marco” che la paziente mi riporta e condivide con me tanto insistentemente è, forse, possibile dare una diversa lettura: ogni volta che Alba si trova sul crinale per agire questa intenzione ricerca in me protezione e, paradossalmente, una motivazione sufficiente per desistere da questo impulso (mentre ricontatta parzialmente la propria parte funzionante e consapevole che questo agito le darebbe una soddisfazione molto parziale e malata, rimandandole un piacere non effettivo ma solo apparente e fittizio).
A seguito dell’esplicitazione da parte mia dello svantaggio personale al quale sarebbe soggetta, qualora mettesse in atto questo comportamento infruttuoso, un’Alba di nuovo ambigua si esprime così.
 
“Poi magari ci faccio solo una brutta figura con tutti, perché se, poi, invece sono solo amici e si sono ri-aggiunti per questo?”.
 
Diventa evidente come, a fronte di questa fase di “rigurgito”, il mio esserci in quel momento e, più in generale, il nostro “tra” terapeutico (che riattualizza i nostri mesi insieme) crea delle falle all’interno della graniticità della costituzione delirante; Alba mostra una sensibilità intrapersonale alle crepe (create dalla terapia) e il ritornare in seduta significa, per lei, riprendere la trama esperienziale di continuità iniziata insieme, nonché una possibilità di apertura nel suo sistema chiuso.
Ciò si verifica proprio attraverso quei frammenti di esperienza condivisa, sedimentati precedentemente nella paziente e, purtroppo, adesso resi discontinui dalla scotomizzazione dello spazio della relazione clinica (l’assenza relazionale della vacanza e dello spazio personale, in contrapposizione con la pienezza relazionale della seduta).
Inoltre, quello con la mia figura probabilmente potrebbe essere definito il transfert terapeutico che corregge il rapporto competitivo con Alessandra e che mi identifica come una seconda sorella, la quale la sostiene e non la umilia ma incoraggia e aiuta; questa si potrebbe configurare come la via maggiormente utile di accesso alla sua dimensione vissuta, nonché la modalità privilegiata per tessere nuovamente i fili della tela esperienziale che, come una moderna Penelope, Alba scioglie ogni volta.
 
VI. SFALDARE IL SISTEMA ATTRAVERSO LE SUE CREPE
Ritrovarsi e, insieme, essere in cammino.
 
Nel momento in cui la paziente ricomincia le sedute e il nostro rapporto si ristruttura (nella situazione protetta del setting terapeutico e attraverso il richiamo ai frammenti di realtà che questo spazio le offre) ritorna in grado di porre un freno al delirio e di interiorizzare la funzione contenitiva della terapia; la quale (al momento) è tale purché ci sia io che le fornisco una presenza interna e favorisco (attraverso la continuità del dialogo clinico) quelle sfaldature nel sistema che ci permettono di lavorare in seduta, altrimenti tende a evaporare.
Ma, il nostro lavoro clinico non è scomparso irreversibilmente, è solamente oscurato e allontanato sul fondo della coscienza della paziente che (mentre mi riporta la contorta e complessa idea dei due profili Facebook) sembra richiamarlo a sé nel momento in cui la sua parte auto-ironica ritorna e lei ride fragorosamente dell’ipotesi facebookiana, testimoniandomi un momento di insight che colgo e sostengo (riedificando lentamente l’argine della costruzione delirante) come riportato questo episodio clinico:
 
T: “In questa risata sincera sembra quasi voler dire: certe cose sono davvero assurde!”
 
P: “Sì, in effetti sembro proprio una pazza…”
 
T: “Ogni volta che mi parla di Marco e Sara sa… diventa sorridente, sembra veramente divertita anche, per esempio, nel curare il profilo e volersi introdurre in questa dimensione e, inoltre, mi sembra che ogni volta che ricerca indizi su Marco e Sara non cerca per poter dire -mi sono sbagliata, che sollievo!- ma lei cerca per avere ragione, la ricerca continua le dà piacere, non è solo immensamente dolorosa ma le riempie un po' la giornata e le dà soddisfazione nella mia misura in cui poi le sente di avere ragione…”
 
P: “Non ci avevo mai pensato, ma in effetti è proprio così
 
T: “Si ricorda quest’inverno quando le sue preoccupazioni erano su Amalia, la chiamava 14 volte al giorno e dopo che lei aveva spento, mi diceva: -ha spento perché è con Marco-?”
 
P: “Dottoressa non me lo ricordavo…mamma mia come stavo male… come ero messa! Non me ne rendevo mica conto! (ride) fa bene a dirmelo, non me lo ricordavo che ero messa così male”
 
T: “E quell’atteggiamento con Amalia le dice qualcosa di lei in questo momento?”
 
P: “Non ci avevo mai pensato ma mi sa che è la stessa cosa…sono di nuovo sempre a pensare a lei…anche se adesso è Sara”
 
T: “Infatti… quello che a preme di più non è tanto questo pensiero (che cosa prova Marco per Sara e viceversa) ma è importante parlare di lei, del fatto che la sua vita sembra essere plasmata totalmente da quello che fanno loro… il suo spazio e tempo lei lo dedica a questo e su questo dobbiamo lavorare…abbiamo bisogno di tornare a parlare di Alba; già il fatto che lei stia riflettendo che con Amalia ha messo in atto questo comportamento, chiamiamolo con il suo nome: -vessatorio-, magari, la può far riflettere su quanto mantenere questo comportamento sia dannoso per lei, proprio per tutto ciò che, di sé stessa, sacrifica mettendolo in atto”
 
P: “Sì infatti, non ho voce in capitolo nella vita di Marco e può anche darsi che non siamo insieme, poi non voglio assolutamente ridurmi come questo inverno, devo ricominciare a curarmi di me!”.
 
Il mio ancoraggio agli elementi di realtà (emersi grazie al precedente periodo di terapia) apre nuovamente ad una possibilità di intervento per allargare le fratture e, lavorando sulla dimensione del delirio, mostrare a Alba quanto esso sia, per lei, inutile e dannoso in quanto all’origine dell’atrofia della sua vita (monopolizzata da Marco immaginario), oltre a rappresentare una compensazione di piaceri fittizi per sua dimensione esperienziale svuotata di senso.
Come è evidente anche dal prossimo e ultimo frammento terapeutico rilevante, la vulnerabilità psicotica sullo sfondo (se non attualizzata) diventa disponibile a una revisione critica, attraverso un’articolazione narrativa e pone le basi per una nuova apertura al mondo della vita.
 
T: “Queste condizioni abitative in cui lei forzatamente si è trovata e il fatto di essere in un posto così buio ha attivato in lei delle angosce: si è sentita soffocare in questo buio fagocitante…credo che questa gita, in cui è stata così male, sia stato determinante e abbia accentuato il bisogno di controllare e di incentrarsi su Marco”
 
P: “Sì, in effetti prima non c’erano le idee su Sara”
 
T: “Il suo primo pensiero è sempre e comunque che ci sia qualcun’altra quando la persona non la corrisponde e non le rimanda quel senso di sicurezza, presenza e costanza di cui avrebbe tanto bisogno; questo la fa sentire precaria, in questo terreno disossato sente di dove ricorrere al controllo e al pensiero di un’altra donna… adesso pensa che sia palese il tradimento con Sara, come pensava fosse palese quello con Amalia, ma vorrei farla concentrare su se stessa: lei ricorre al comportamento controllante nel momento in cui l’altra persona la disattende, è una cosa che ha esperito e messo in atto in tutte le relazioni, quasi come se stesse dicendo: -è l’unica cosa che posso fare io se mi trovo in questa condizione precaria e in cui l’angoscia diventa insopportabile-”
 
P: “Sì, è esattamente così… io già di mio sono insicura, poi col loro atteggiamento, mi scaturiva l’insicurezza e la gelosia e, quindi, veniva fuori questo mio controllo; è che io da loro vorrei sempre il solito atteggiamento, altrimenti, se cambia, mi sento abbandonata e vado subito a pensare a loro, spensierati con le donne”.
 
Alba lentamente ricomincia a concettualizzare la propria modalità invariante nel rapporto con l’altro (che l’ha sempre caratterizzata) all’interno di uno stile di relazione oggettuale che struttura nel medesimo modo: “vittima-traditore-disturbatrice” nel quale, allora, Marco è solo una mera comparsa e in cui questa esternalizzazione ha un senso di alleggerimento e decentramento dalla possibilità di fermarsi a riflettere sul proprio scenario drammatico, che le si dischiude, adesso, allo sguardo.
Di fronte a me, attualmente, ho un’Alba che comincia di nuovo a problematizzarsi e, spezzando la ricorsività del proprio esperire il mondo vissuto, ne osserva il meccanismo intrinseco e mi ripropone quel vissuto abbandonico e di impotenza personale sul quale ci proponiamo di lavorare.
Conserviamo, dunque, come obiettivi terapeutici cardinali una modulazione, maggiormente efficace, della gestione della distanza interpersonale (conseguente, per la paziente, alla possibilità svicolarsi definitivamente da un’idealizzazione deleteria della relazione affettiva e alla problematizzazione del proprio polo stenico) e una rinnovata apertura al mondo della vita non digitalizzato (che le permetta un arricchimento della propria esperienza vissuta) assieme a un delicato lavoro di presa in carico del proprio polo astenico.
Infatti, per Alba, il contatto con la propria parte insufficiente potrebbe condurla alla restituzione di un giudizio sulla sua persona e alla possibilità di scoprire di non avere solo il corpo molle ma un’esistenza flaccida, immersa nell’anonimità proiettiva del mondo digitale.
L’elaborazione di tale polo significherebbe, allora, un’occasione per riflettere sul mancato incontro con la propria vita (senza esitare in una depressione deflagrante né transitare nella solitudine rancorosa) ma rappresenterebbe il movimento verso l’emancipazione da quella bambina invidiosa e spiante, per investire una scommessa valorizzante su sé stessa.
Proseguendo con questo auspicio, la nostra terapia è, ad oggi, ancora in fieri.
 

 
bibliografia
 
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