La crisi sanitaria, generata dalla pandemia da COVID-19, sta aggredendo i Sistemi Sanitari Nazionali di tutto il mondo. I professionisti della sanità sono messi in questo periodo a dura prova. Il tour de force che sono costretti a sostenere incide marcatamente sulla stanchezza fisica: sono provati, assonnati e spossati, segnati da ore di mascherine e protezioni varie che lasciano a lungo tracce sulla loro pelle. Se la stanchezza di origine fisica è possibile recuperarla con un giusto riposo, la pressione psicologica rischia di lasciare strascichi pesanti nella loro vita.
Nel presente articolo ci proponiamo di riflettere su alcuni aspetti che colpiscono il benessere psicologico dei soccorritori. Gli interrogativi che ci siamo posti tengono tutti tacitamente conto di un aspetto importante della crisi ovvero del fattore Tempo.
In questa catastrofe, infatti, non c’è una netta linea di frattura tra un “prima” e un “dopo” ma dobbiamo fare i conti con una pressione psicologica che si sviluppa su tempi non definibili e che si profilano sempre più lunghi. Inoltre, la caratteristica pandemica e l’interessamento di tutte le fasce di popolazione rende questo evento esteso. Mai prima d’ora ci siamo trovati di fronte a catastrofi dai Tempi e dagli Spazi dilatati all’inverosimile.
Al fine di schematizzare il nostro pensiero, abbiamo deciso di procedere nella discussione traendo spunto dai quesiti che più frequentemente ci vengono posti dai diversi operatori sanitari coinvolti nell’emergenza epidemica determinata dal COVID-19 (o SARS-2).
In che misura lo stress protratto, generato dalla crisi sanitaria, incide sul benessere psicologico dell’operatore sanitario? In questa popolazione, dobbiamo aspettarci un aumento del rischio di sviluppare un disturbo mentale?
Questa prima domanda è sicuramente uno degli interrogativi più comuni. La risposta, tuttavia, non può esimersi da una descrizione dei rischi che il personale sanitario corre in condizioni ordinarie.
Sono numerosi, infatti, gli studi che hanno dimostrato gli elevati livelli di distress psicologico ai quali sono sottoposti abitualmente medici, psicologi, infermieri e altro personale. Alcuni dei fattori costantemente presenti nel quotidiano sono: gli eccessivi carichi di lavoro, i turni notturni (di 12 ore l’uno), il carico emotivo, l’esperienza di abusi verbali e fisici da parte dei pazienti e loro familiari, i conflitti di ruolo, le discussioni cliniche per gli errori medici, il bullismo da parte di altri colleghi (Deckard 1994, Felton 1998, Firth-Cozens 1997, Petrie 2020, Ruotsalainen 2008).
A tali aspetti si aggiungono condizioni di carattere ambientale e sociale che incidono inevitabilmente sulla qualità di vita percepita da parte del lavoratore. Tra queste troviamo il grado di soddisfazione rispetto alla retribuzione economica, il conflitto tra le ore dedicate alla famiglia e le ore dedicate al lavoro, la carenza di un sostegno psicologico nell’organizzazione lavorativa, oltre che la sottovalutazione del proprio disagio mentale (Mache 2012; Netterstrøm 2008).
Quanto elencato appare determina non solo il diffuso burnout (Gómez-Urquiza 2017) ma anche disturbi del sonno, disturbi depressivi e disturbi d’ansia (Øyane 2013, Owens JA. 2009, Virtanen 2009).
Quando confrontati con altre categorie di lavoratori, i sanitari presentano tassi di psicopatologia significativamente maggiori (Kim 2018). Dati italiani relativi alla morbilità psichiatrica e al burnout in medici di medicina generale e ospedalieri sono sovrapponibili a quelli presenti nelle altre nazioni: un quarto della popolazione dei medici presenta una patologia psichiatrica, il 30% presenta una sindrome da burnout (Kirwan 1995; Grassi 2000; Petrie 2020).
Un altro aspetto che la letteratura scientifica approfondisce è il rischio suicidario nelle professioni sanitarie: i tassi suicidari sono drammaticamente più elevati rispetto ai controlli (Hawton 2002 e 2011; Dutheil 2019). Contrariamente dalla popolazione generale, in cui è il sesso maschile un fattore di rischio per suicidio, tra i sanitari sono più a rischio le donne (Lindeman 1997). Diversi autori imputano tale dato alla scarsa integrazione tra la professione e il ruolo sociale che la donna riveste all’interno del nucleo familiare (Hawton 2001; Agerbo 2005; Hem 2005).
A completare il quadro è l’inusuale incapacità da parte dei sanitari di richiedere un aiuto specialistico in ambito psicologico. Tale condizione sembra essere associata a una cultura medica che enfatizza all’estremo il perfezionismo, il senso di responsabilità, l’attenzione al dettaglio, il successo della performance lavorativa, l’obbligo di compiacere più pazienti possibili per dimostrare la propria efficienza lavorativa (Bressler 1976; Carr 2008; Dutheil 2019)
In sostanza, la salute mentale del sanitario è già messa a dura prova in tempi ordinari e sembrerebbe che questa vulnerabilità sia presente in tutto il mondo. Se tale considerazione è da porre come un dato obiettivo, è verosimile immaginare che il peso della crisi sanitaria generata da COVID-19 possa peggiorare ulteriormente la salute dei sanitari, irrompendo su dei punti di vulnerabilità la cui tenuta è già precaria.
Una conferma a questa nefasta previsione arriva da uno studio cinese effettuato durante l’epidemia del COVID-19 esplosa a Gennaio 2020 (Lai 2020). Gli autori hanno reclutato 1257 operatori sanitari impiegati in reparti COVID-19 e in reparti posti in seconda e terza linea. L’intervista strutturata, oltre ai dati socio-demografici, ha indagato una batteria di scale psicometriche: PHQ-9 (9-item Patient Health Questionnaire), GAD-7 (7-item Generalized Anxiety Disorder), ISI (7-item Insomnia Severity Index), IES-R (22-item Impact of Event Scale–Revised).
Tutti i dati sono stati stratificati per sede lavorativa, permettendo un confronto tra i lavoratori della città di Wuhan, epicentro del focolaio epidemico, con i lavoratori operativi fuori provincia. I risultati hanno mostrato su tutto il campione percentuali importanti di depressione (50%), ansia (44,6%), insonnia (34%) e distress (71,5%). I sintomi più severi sono stati riscontrati nelle seguenti categorie: infermieri, donne, operatori di prima linea, lavoratori della città epicentro.
Questi dati sembrano analoghi a quanto rilevato durante l’epidemia della SARS-1 del 2003. In quel caso si è osservato, anche a distanza di tempo, un’aumentata incidenza di disturbi post-traumatici da stress (PTSD) negli operatori più esposti al rischio di contagio (Lee 2018). Inoltre, analisi statistiche hanno mostrato come gli operatori sanitari temevano particolarmente il contagio e l’infezione della famiglia, degli amici e dei colleghi; avvertivano incertezza e stigmatizzazione; riferivano riluttanza al lavoro o contemplavano le dimissioni; riferivano di sperimentare alti livelli di stress, ansia e depressione: sintomi che hanno avuto implicazioni psicologiche a lungo termine (Maunder 2003; Bay 2004; Lee 2007).
A leggere queste statistiche vi è l’impressione che l’impatto della crisi sanitaria sul benessere dei professionisti della salute sarà importante. Se queste prime stime epidemiologiche dovessero trovare conferma a livello globale, vorrà dire che la crisi innescata da COVID-19 avrà raddoppiato la morbilità psichiatrica tra i sanitari che ordinariamente si attesta intorno al 25%. Al pari il distress psicologico colpirebbe non più il 40% degli operatori ma i 2/3 del totale.
Una prospettiva di questo genere rende urgente una politica di tutela nei confronti dei sanitari che dovrebbe tendere a migliorare le condizioni lavorative e le variabili già prese in considerazione in epoca pre-SARS-2. Il rischio di non considerare prioritari interventi di prevenzione psicologica sistematizzati e di lunga durata sul benessere della classe sanitaria è quello di cronicizzare una condizione già complessa che il COVID-19 facilmente peggiorerà.
Esistono interventi psicologici e/o psicoterapici specifici per la crisi generata dall’epidemia?
Prima di soffermarci su alcuni possibili interventi psicologici, vogliamo essere schietti su questo punto: non vi è alcun trattamento specifico per i sanitari che operano in un’epidemia.
A nostra conoscenza, la letteratura scientifica non solo non esprime un consenso ma è povera di studi. Probabilmente è partendo da questo dato che l’Organizzazione Mondiale della Sanità, a fine febbraio 2020, ha pubblicato delle raccomandazioni generiche che invitano i sanitari stessi a prendersi cura di sé stessi in quanto la crisi non sarà breve ma prolungata “This is not a sprint; it’s a marathon (WHO 2020).” Tra i diversi consigli troviamo: “fare attività fisica, assicurarsi una buona alimentazione; stare in contatto (almeno digitale in caso di autoisolamento, per stigma o paura) con familiari ed amici; evitare l’uso di tabacco; alcool e droghe”. Viene reputato importante anche fare qualcosa di piacevole; rimanere in contato con il partner (anche solo digitalmente); rivolgersi al proprio manager, a persone di fiducia o ai propri colleghi per un supporto sociale. “I colleghi possono fare esperienze simili alle tue”, recita il memorandum. Risulta, tuttavia, difficile attenersi a queste prescrizioni dopo 12-14 ore di lavoro dalle quali si esce provati ed esausti. Inoltre, la limitazione delle socialità alla quale l’epidemia da COVID-19 costringe rende difficili diverse pratiche tra quelle consigliate. Da un punto di vista dell’evidenza scientifica, il trauma a recente insorgenza può giovarsi di approcci cognitivo-comportamentali e della EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing).
Purtroppo, tali tecniche risultano non significative in assenza di sintomi traumatici clinici già consolidati (Roberts 2019). Fondamentalmente, è complicato fondare un intervento di prevenzione primaria su tecniche terapeutiche che hanno come principale target il sintomo. In assenza di sintomo e senza una diagnosi, infatti, non può esservi terapia.
Un altro approccio è quello inerente alla psicologia delle emergenze (o forse sarebbe meglio definirla delle catastrofi). In quest’ambito gli interventi con evidenze più robuste sono quelli relativi al defusing e al debriefing. In entrambi i casi l’intervento psicologico è incentrato sulla crisi traumatica che frattura il vissuto di una comunità e su tutto ciò che lo correda, finalizzando il supporto a una ricostruzione razionale-cognitiva ed emotiva.
Il defusing consiste nella condivisione dell’esperienza emotiva vissuta con vittime dirette e indirette; per alcuni versi consta in un primo soccorso emotivo e ha come principale obiettivo quello di ridurre l’isolamento che segue un trauma.
Il debriefing, invece, è un percorso psicologico di gruppo strutturato che letteralmente significa “parlare di ciò che è successo”. Il debriefing permette, attraverso lo scambio dell’esperienza gruppale, di affrontare progressivamente eventi, pensieri ed emozioni, al fine di rielaborare quanto accaduto e promuovere una migliore comprensione dell’avvenimento. (Young 2002).
Per quanto concerne l’emergenza SARS del 2003, gruppi di debriefing sono stati effettuati per vittime dell’infezione in aggiunta a terapia complementare (prevalentemente Medicina Tradizionale Cinese) con discreti risultati (Ng SM 2006). Non ci risultano esperienze relative alla popolazione di operatori sanitari coinvolti nell’epidemia SARS-1 o da COVID-19.
Appare evidente che tutti gli strumenti sopradescritti mostrano limiti. La crisi epidemica, infatti, è una crisi diversa dalle catastrofi accorse nell’ultimo secolo (sono 100 anni quest’anno dalla fine dell’epidemia di Spagnola).
La particolarità più evidente è quella relativa alle limitazioni d’interazione sociale che i governi hanno decretato al fine di diminuire i contagi. L’impossibilità della dimensione gruppale riduce l’efficientamento di terapie di gruppo e di esperienze di defusing e debriefing. D’altronde, la possibilità di gruppi virtuali via web non solo rischia di depotenziare la condivisione gruppale ma pare poco realizzabile in reparti che lavorano in condizioni difficili da un punto di vista delle risorse umane e dei posti letti.
Un altro aspetto, decisamente nuovo, è la parziale prevedibilità della crisi che determina una sufficiente tenuta della sfera cognitiva. L’incredibile condivisione delle esperienze cliniche in rete e la pressione mediatica sull’epidemia permettono, infatti, di dedurre l’andamento dell’epidemia stessa: sappiamo che vi sarà un picco nei contagi in ogni area geografica; conosciamo la relativa ridotta mortalità del COVID-19; conosciamo le procedure di gestione; ci rapportiamo costantemente all’esperienza cinese ove è nato il virus mutato.
Più frustante, invece, è la consapevolezza di avere risorse sanitarie limitate. L’insufficienza dei posti letto, la carenza di personale, l’assenza di adeguati e sufficienti presidi di protezione per i sanitari determinano preoccupazione sia per la propria vita che per quella dei familiari.
Tutti questi aspetti, come confermano i dati epidemiologici riportati in maniera ampia nella prima parte di quest’articolo, determinano dei vissuti personali che difficilmente possono essere pienamente vissuti in una modalità di socializzazione. La stessa crisi sanitaria, peraltro prevedibile nell’andamento, coinvolge gli operatori in modo particolare e non sempre è riconducibile a dei vissuti sintomatici uniformi e standard.
Insomma, sembrerebbe che il COVID-19 obblighi a un “upgrade” degli strumenti psicologici di supporto e rimetta al centro la persona e la sua individualità. Appare chiaro, dunque, che il cardine sul quale fondare un supporto è l’ascolto (professionale) del vissuto individuale che possa prendere le mosse da una crisi ma che non necessariamente debba limitarsi a essa.
Viene da chiedersi se vi è tempo per un’esperienza di questo genere.
Pensiamo che la risposta possa essere affermativa. L’OMS segnala i tempi lunghi della crisi (WHO 2020) e tutti gli studi succitati sottolineano l’importanza di una costante supporto psicologico per i sanitari. Bisognerebbe, quindi, sempre garantire il benessere psicologico del sanitario.
Al di là del sintomo e dello screening psicopatologico, quindi, vi è l’esigenza di restituire alla persona un senso dello scorrere del tempo differente da quello vissuto in emergenza. In situazioni emergenziali, vi è necessità di operare in fretta, affidandosi a protocolli operativi che devono minimizzare i tempi di riflessione e indecisione. Tale condizione, però, se adottata come pervasiva modalità di funzionamento, può essere dannosa. Occorre, di fatto, il tempo di analizzare e pensare emozioni e ricentrarsi sui propri vissuti.
In tale ottica il supporto individuale, per ovvie ragioni telematico, di stampo psichiatrico e psicologico (specie quello a orientamento dinamico), acquisisce connotati interessanti. La teleconsulenza con lo psichiatra favorisce la condivisione del vissuto, permettendo uno screening clinico in termini psicopatologici stretti, garantendo un intervento psicofarmacologico o psicoterapeutico, come da linee guida per singolo disturbo. La consulenza online psicodinamica, invece, permette di accogliere il vissuto personale dell’individuo garantendo un supporto che esuli dalla necessità di una categorizzazione diagnostica.
L’approccio psicodinamico, infatti, non ha l’obiettivo prioritario di ridurre i sintomi ma di creare setting di pensabilità dove i vissuti vengono accolti in un’ottica di sviluppo. Tale approccio non è riducibile al solo azzeramento dei sintomi, ma tende ad attivare risorse nell’individuo e nella relazione col suo contesto (Carli, Paniccia 2003).
Esperienze di questo tipo sono già state praticate nell’ambito dei percorsi di medicina narrativa applicati a studenti di medicina; in scenari critici con veterani e pazienti affetti da neoplasie (Fraas 2015; Charon 2001). La narrazione personale permette all’individuo un’elaborazione lucida della propria esperienza, aiutando il soggetto a individuare risorse personali in una condizione iniziale di difficoltà (Frank 2013).
Qual è la narrazione con la quale si confrontano oggi i sanitari? Cosa attendersi?
È sotto gli occhi di tutti che la narrazione collettiva dentro la quale il sanitario è attualmente immerso è il richiamo continuo alla retorica della guerra. Secondo la teoria della “collusione” siamo tutti immersi in questa metafora. Noi tutti condividiamo emozionalmente le stesse simbolizzazioni affettive e ci troviamo entro un contesto partecipato e vissuto in comune. La collusione se non trova luoghi di condivisione e di pensabilità, rischia di trasformarsi in agito emozionale, limitando le capacità produttive e di scambio della persona (Carli, Paniccia 2003).
Lo story telling bellico si augura che la macchina sanitaria “tenga il fronte”, che ci sia personale sanitario attivo e produttivo, disposto a lavorare fino allo sfinimento per garantire il massimo di salute. In questo contesto assistiamo al formarsi di una cultura, intesa come dimensione simbolico-affettiva condivisa da un ampio contesto, che rinforza comportamenti che richiamano valori sociali quali l’altruismo, l’umanità, lo spirito di sacrificio, l’attenzione al prossimo debole e malato, ma anche l’ubbidienza alle prescrizioni e la rinuncia alla libertà individuale. Tutti valori che negli ultimi anni sembravano essere stati posti sullo sfondo a favore di una cultura che enfatizzava l’individualismo, la conflittualità, la competizione, il profitto, il godimento derivato dal possesso di cose materiali e la corsa a ottenerle. L’evidenza dello strutturarsi di questa dimensione culturale si rintraccia nelle parole emozionalmente dense (e di derivazione valoriale) di cui grondano i discorsi dei responsabili della protezione civile, dei rappresentanti istituzionali, della stampa, fino agli opinion leaders.
Insomma, la Malattia è il Nemico, siamo tutti in guerra contro il COVID19 e i Sanitari sono “in prima linea”, sono in trincea, pronti a lavorare con Abnegazione, Sacrificio, Eroismo; sanitari da onorare, ringraziare, ossequiare. Ma il medico, l’infermiere, che vogliono sicuramente fare al meglio il loro mestiere, che comprende certo l’interesse per l’altro e si arricchisce di doti di umanità, non hanno scelto questa professione pensando eroicamente di rischiare la propria vita, ma per salvare quelle altrui, e si sentono oggi sottoposti a una ingente pressione psicologica che li mette di fronte a tante morti, con la paura di infettare e infettarsi.
L’essere visti come Eroi o Salvatori innesca una idealizzazione del ruolo che se inizialmente appare gratificante, può successivamente determinare conseguenze psicologiche preoccupanti. Sul piano individuale, all’idealizzazione potrà seguire una rovinosa caduta dell’oggetto idealizzato. A livello collettivo sarà difficile corrispondere a lungo alle aspettative salvifiche che la popolazione si aspetta; anzi è molto probabile che in questo contesto ci si debba attendere ingenti denunce al personale sanitario.
Tutto ciò può provocare una sorta di scissione nel vissuto individuale del singolo operatore: da un lato l’enfasi sull’eroismo, dall’altra la necessaria autotutela e autoconservazione che, visti così, in contrapposizione, sembrano difficili da integrare.
In una recente intervista televisiva un medico, esprimendo l’opinione di molti suoi colleghi, si è espresso in questi termini: “ci sono due categorie di persone, quelle che si dedicano senza riserve e quelli che si defilano!”, evocando inconsapevolmente la metafora bellica: c’è l’eroe o il disertore!
La nostra analisi di queste dinamiche vuole avere l’obiettivo di far riflettere sugli agiti emotivi, spesso risultanti di spinte interiori contrastanti e condizionati dal clima sociale descritto: far prevalere gli interessi dell’individuo o della collettività? Pensiamo che questo dualismo sia una trappola, che vada superata uscendo da metafore sacrificali, che tra l’altro producono vissuti di colpa dannosi, che nel migliore dei casi portano malessere psichico, ma possono esitare in depressione o aumento del rischio suicidario.
L’operatore sanitario impiegato nelle cure del Covid-19, oltre a esercitare questo ruolo professionale, è una persona, che come tutti ha una spinta alla autotutela che lo porterebbe a proteggersi, anche per tutelare i propri cari, e per poter esercitare correttamente il suo lavoro. Tutto ciò va integrato nel ruolo professionale: occorre una costante attenzione nel richiedere materiale protettivo e risorse sanitarie da rendere disponibili in tempi celeri; nessuno dovrebbe essere messo in condizione di dover rinunciare alla propria sicurezza e a interventi di best practice.
I vissuti emozionali enfatizzati dallo story telling della guerra, quando simbolizzati collettivamente, possono avere solo due derive: essere ‘agite’ o essere ‘pensate’. Il garantire ‘spazi di pensabilità’ con la collaborazione di psicologi formati, pur nell’emergenza, può favorire l’integrazione di aspetti scissi in contrasto con un rischio di dissociazione. Un pensiero efficace, una consapevolezza che costantemente analizzi ciò che si sta vivendo, può essere una importante risorsa, non solo per evitare derive sacrificali poco pensate e disturbi successivi (come ben descritto in letteratura), ma potrebbe favorire lo sviluppo di risorse personali, rendendo meno rischioso e più efficace il proprio lavoro.
Concludendo
L’epidemia da COVID-19 sta segnando le abitudini di tutti. Nei sanitari la pressione sociale e la retorica “di guerra” generano un forte distress con il rischio di generare profondi sentimenti di colpa e sviluppare una potenziale psicopatologia. La limitazione delle relazioni sociali rende poco praticabile l’approccio gruppale tipico della psicologia dell’emergenza e interventi terapeutici standardizzati non sono utilizzabili nel contesto di prevenzione primaria che la dimensione della crisi sanitaria impone con urgenza. In questo contesto, i vissuti personali, nonché la narrazione individuale della crisi, trattati all’interno di un setting psicodinamico anche con modalità online, rappresentano una prospettiva praticabile e opportuna.
Nel presente articolo ci proponiamo di riflettere su alcuni aspetti che colpiscono il benessere psicologico dei soccorritori. Gli interrogativi che ci siamo posti tengono tutti tacitamente conto di un aspetto importante della crisi ovvero del fattore Tempo.
In questa catastrofe, infatti, non c’è una netta linea di frattura tra un “prima” e un “dopo” ma dobbiamo fare i conti con una pressione psicologica che si sviluppa su tempi non definibili e che si profilano sempre più lunghi. Inoltre, la caratteristica pandemica e l’interessamento di tutte le fasce di popolazione rende questo evento esteso. Mai prima d’ora ci siamo trovati di fronte a catastrofi dai Tempi e dagli Spazi dilatati all’inverosimile.
Al fine di schematizzare il nostro pensiero, abbiamo deciso di procedere nella discussione traendo spunto dai quesiti che più frequentemente ci vengono posti dai diversi operatori sanitari coinvolti nell’emergenza epidemica determinata dal COVID-19 (o SARS-2).
In che misura lo stress protratto, generato dalla crisi sanitaria, incide sul benessere psicologico dell’operatore sanitario? In questa popolazione, dobbiamo aspettarci un aumento del rischio di sviluppare un disturbo mentale?
Questa prima domanda è sicuramente uno degli interrogativi più comuni. La risposta, tuttavia, non può esimersi da una descrizione dei rischi che il personale sanitario corre in condizioni ordinarie.
Sono numerosi, infatti, gli studi che hanno dimostrato gli elevati livelli di distress psicologico ai quali sono sottoposti abitualmente medici, psicologi, infermieri e altro personale. Alcuni dei fattori costantemente presenti nel quotidiano sono: gli eccessivi carichi di lavoro, i turni notturni (di 12 ore l’uno), il carico emotivo, l’esperienza di abusi verbali e fisici da parte dei pazienti e loro familiari, i conflitti di ruolo, le discussioni cliniche per gli errori medici, il bullismo da parte di altri colleghi (Deckard 1994, Felton 1998, Firth-Cozens 1997, Petrie 2020, Ruotsalainen 2008).
A tali aspetti si aggiungono condizioni di carattere ambientale e sociale che incidono inevitabilmente sulla qualità di vita percepita da parte del lavoratore. Tra queste troviamo il grado di soddisfazione rispetto alla retribuzione economica, il conflitto tra le ore dedicate alla famiglia e le ore dedicate al lavoro, la carenza di un sostegno psicologico nell’organizzazione lavorativa, oltre che la sottovalutazione del proprio disagio mentale (Mache 2012; Netterstrøm 2008).
Quanto elencato appare determina non solo il diffuso burnout (Gómez-Urquiza 2017) ma anche disturbi del sonno, disturbi depressivi e disturbi d’ansia (Øyane 2013, Owens JA. 2009, Virtanen 2009).
Quando confrontati con altre categorie di lavoratori, i sanitari presentano tassi di psicopatologia significativamente maggiori (Kim 2018). Dati italiani relativi alla morbilità psichiatrica e al burnout in medici di medicina generale e ospedalieri sono sovrapponibili a quelli presenti nelle altre nazioni: un quarto della popolazione dei medici presenta una patologia psichiatrica, il 30% presenta una sindrome da burnout (Kirwan 1995; Grassi 2000; Petrie 2020).
Un altro aspetto che la letteratura scientifica approfondisce è il rischio suicidario nelle professioni sanitarie: i tassi suicidari sono drammaticamente più elevati rispetto ai controlli (Hawton 2002 e 2011; Dutheil 2019). Contrariamente dalla popolazione generale, in cui è il sesso maschile un fattore di rischio per suicidio, tra i sanitari sono più a rischio le donne (Lindeman 1997). Diversi autori imputano tale dato alla scarsa integrazione tra la professione e il ruolo sociale che la donna riveste all’interno del nucleo familiare (Hawton 2001; Agerbo 2005; Hem 2005).
A completare il quadro è l’inusuale incapacità da parte dei sanitari di richiedere un aiuto specialistico in ambito psicologico. Tale condizione sembra essere associata a una cultura medica che enfatizza all’estremo il perfezionismo, il senso di responsabilità, l’attenzione al dettaglio, il successo della performance lavorativa, l’obbligo di compiacere più pazienti possibili per dimostrare la propria efficienza lavorativa (Bressler 1976; Carr 2008; Dutheil 2019)
In sostanza, la salute mentale del sanitario è già messa a dura prova in tempi ordinari e sembrerebbe che questa vulnerabilità sia presente in tutto il mondo. Se tale considerazione è da porre come un dato obiettivo, è verosimile immaginare che il peso della crisi sanitaria generata da COVID-19 possa peggiorare ulteriormente la salute dei sanitari, irrompendo su dei punti di vulnerabilità la cui tenuta è già precaria.
Una conferma a questa nefasta previsione arriva da uno studio cinese effettuato durante l’epidemia del COVID-19 esplosa a Gennaio 2020 (Lai 2020). Gli autori hanno reclutato 1257 operatori sanitari impiegati in reparti COVID-19 e in reparti posti in seconda e terza linea. L’intervista strutturata, oltre ai dati socio-demografici, ha indagato una batteria di scale psicometriche: PHQ-9 (9-item Patient Health Questionnaire), GAD-7 (7-item Generalized Anxiety Disorder), ISI (7-item Insomnia Severity Index), IES-R (22-item Impact of Event Scale–Revised).
Tutti i dati sono stati stratificati per sede lavorativa, permettendo un confronto tra i lavoratori della città di Wuhan, epicentro del focolaio epidemico, con i lavoratori operativi fuori provincia. I risultati hanno mostrato su tutto il campione percentuali importanti di depressione (50%), ansia (44,6%), insonnia (34%) e distress (71,5%). I sintomi più severi sono stati riscontrati nelle seguenti categorie: infermieri, donne, operatori di prima linea, lavoratori della città epicentro.
Questi dati sembrano analoghi a quanto rilevato durante l’epidemia della SARS-1 del 2003. In quel caso si è osservato, anche a distanza di tempo, un’aumentata incidenza di disturbi post-traumatici da stress (PTSD) negli operatori più esposti al rischio di contagio (Lee 2018). Inoltre, analisi statistiche hanno mostrato come gli operatori sanitari temevano particolarmente il contagio e l’infezione della famiglia, degli amici e dei colleghi; avvertivano incertezza e stigmatizzazione; riferivano riluttanza al lavoro o contemplavano le dimissioni; riferivano di sperimentare alti livelli di stress, ansia e depressione: sintomi che hanno avuto implicazioni psicologiche a lungo termine (Maunder 2003; Bay 2004; Lee 2007).
A leggere queste statistiche vi è l’impressione che l’impatto della crisi sanitaria sul benessere dei professionisti della salute sarà importante. Se queste prime stime epidemiologiche dovessero trovare conferma a livello globale, vorrà dire che la crisi innescata da COVID-19 avrà raddoppiato la morbilità psichiatrica tra i sanitari che ordinariamente si attesta intorno al 25%. Al pari il distress psicologico colpirebbe non più il 40% degli operatori ma i 2/3 del totale.
Una prospettiva di questo genere rende urgente una politica di tutela nei confronti dei sanitari che dovrebbe tendere a migliorare le condizioni lavorative e le variabili già prese in considerazione in epoca pre-SARS-2. Il rischio di non considerare prioritari interventi di prevenzione psicologica sistematizzati e di lunga durata sul benessere della classe sanitaria è quello di cronicizzare una condizione già complessa che il COVID-19 facilmente peggiorerà.
Esistono interventi psicologici e/o psicoterapici specifici per la crisi generata dall’epidemia?
Prima di soffermarci su alcuni possibili interventi psicologici, vogliamo essere schietti su questo punto: non vi è alcun trattamento specifico per i sanitari che operano in un’epidemia.
A nostra conoscenza, la letteratura scientifica non solo non esprime un consenso ma è povera di studi. Probabilmente è partendo da questo dato che l’Organizzazione Mondiale della Sanità, a fine febbraio 2020, ha pubblicato delle raccomandazioni generiche che invitano i sanitari stessi a prendersi cura di sé stessi in quanto la crisi non sarà breve ma prolungata “This is not a sprint; it’s a marathon (WHO 2020).” Tra i diversi consigli troviamo: “fare attività fisica, assicurarsi una buona alimentazione; stare in contatto (almeno digitale in caso di autoisolamento, per stigma o paura) con familiari ed amici; evitare l’uso di tabacco; alcool e droghe”. Viene reputato importante anche fare qualcosa di piacevole; rimanere in contato con il partner (anche solo digitalmente); rivolgersi al proprio manager, a persone di fiducia o ai propri colleghi per un supporto sociale. “I colleghi possono fare esperienze simili alle tue”, recita il memorandum. Risulta, tuttavia, difficile attenersi a queste prescrizioni dopo 12-14 ore di lavoro dalle quali si esce provati ed esausti. Inoltre, la limitazione delle socialità alla quale l’epidemia da COVID-19 costringe rende difficili diverse pratiche tra quelle consigliate. Da un punto di vista dell’evidenza scientifica, il trauma a recente insorgenza può giovarsi di approcci cognitivo-comportamentali e della EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing).
Purtroppo, tali tecniche risultano non significative in assenza di sintomi traumatici clinici già consolidati (Roberts 2019). Fondamentalmente, è complicato fondare un intervento di prevenzione primaria su tecniche terapeutiche che hanno come principale target il sintomo. In assenza di sintomo e senza una diagnosi, infatti, non può esservi terapia.
Un altro approccio è quello inerente alla psicologia delle emergenze (o forse sarebbe meglio definirla delle catastrofi). In quest’ambito gli interventi con evidenze più robuste sono quelli relativi al defusing e al debriefing. In entrambi i casi l’intervento psicologico è incentrato sulla crisi traumatica che frattura il vissuto di una comunità e su tutto ciò che lo correda, finalizzando il supporto a una ricostruzione razionale-cognitiva ed emotiva.
Il defusing consiste nella condivisione dell’esperienza emotiva vissuta con vittime dirette e indirette; per alcuni versi consta in un primo soccorso emotivo e ha come principale obiettivo quello di ridurre l’isolamento che segue un trauma.
Il debriefing, invece, è un percorso psicologico di gruppo strutturato che letteralmente significa “parlare di ciò che è successo”. Il debriefing permette, attraverso lo scambio dell’esperienza gruppale, di affrontare progressivamente eventi, pensieri ed emozioni, al fine di rielaborare quanto accaduto e promuovere una migliore comprensione dell’avvenimento. (Young 2002).
Per quanto concerne l’emergenza SARS del 2003, gruppi di debriefing sono stati effettuati per vittime dell’infezione in aggiunta a terapia complementare (prevalentemente Medicina Tradizionale Cinese) con discreti risultati (Ng SM 2006). Non ci risultano esperienze relative alla popolazione di operatori sanitari coinvolti nell’epidemia SARS-1 o da COVID-19.
Appare evidente che tutti gli strumenti sopradescritti mostrano limiti. La crisi epidemica, infatti, è una crisi diversa dalle catastrofi accorse nell’ultimo secolo (sono 100 anni quest’anno dalla fine dell’epidemia di Spagnola).
La particolarità più evidente è quella relativa alle limitazioni d’interazione sociale che i governi hanno decretato al fine di diminuire i contagi. L’impossibilità della dimensione gruppale riduce l’efficientamento di terapie di gruppo e di esperienze di defusing e debriefing. D’altronde, la possibilità di gruppi virtuali via web non solo rischia di depotenziare la condivisione gruppale ma pare poco realizzabile in reparti che lavorano in condizioni difficili da un punto di vista delle risorse umane e dei posti letti.
Un altro aspetto, decisamente nuovo, è la parziale prevedibilità della crisi che determina una sufficiente tenuta della sfera cognitiva. L’incredibile condivisione delle esperienze cliniche in rete e la pressione mediatica sull’epidemia permettono, infatti, di dedurre l’andamento dell’epidemia stessa: sappiamo che vi sarà un picco nei contagi in ogni area geografica; conosciamo la relativa ridotta mortalità del COVID-19; conosciamo le procedure di gestione; ci rapportiamo costantemente all’esperienza cinese ove è nato il virus mutato.
Più frustante, invece, è la consapevolezza di avere risorse sanitarie limitate. L’insufficienza dei posti letto, la carenza di personale, l’assenza di adeguati e sufficienti presidi di protezione per i sanitari determinano preoccupazione sia per la propria vita che per quella dei familiari.
Tutti questi aspetti, come confermano i dati epidemiologici riportati in maniera ampia nella prima parte di quest’articolo, determinano dei vissuti personali che difficilmente possono essere pienamente vissuti in una modalità di socializzazione. La stessa crisi sanitaria, peraltro prevedibile nell’andamento, coinvolge gli operatori in modo particolare e non sempre è riconducibile a dei vissuti sintomatici uniformi e standard.
Insomma, sembrerebbe che il COVID-19 obblighi a un “upgrade” degli strumenti psicologici di supporto e rimetta al centro la persona e la sua individualità. Appare chiaro, dunque, che il cardine sul quale fondare un supporto è l’ascolto (professionale) del vissuto individuale che possa prendere le mosse da una crisi ma che non necessariamente debba limitarsi a essa.
Viene da chiedersi se vi è tempo per un’esperienza di questo genere.
Pensiamo che la risposta possa essere affermativa. L’OMS segnala i tempi lunghi della crisi (WHO 2020) e tutti gli studi succitati sottolineano l’importanza di una costante supporto psicologico per i sanitari. Bisognerebbe, quindi, sempre garantire il benessere psicologico del sanitario.
Al di là del sintomo e dello screening psicopatologico, quindi, vi è l’esigenza di restituire alla persona un senso dello scorrere del tempo differente da quello vissuto in emergenza. In situazioni emergenziali, vi è necessità di operare in fretta, affidandosi a protocolli operativi che devono minimizzare i tempi di riflessione e indecisione. Tale condizione, però, se adottata come pervasiva modalità di funzionamento, può essere dannosa. Occorre, di fatto, il tempo di analizzare e pensare emozioni e ricentrarsi sui propri vissuti.
In tale ottica il supporto individuale, per ovvie ragioni telematico, di stampo psichiatrico e psicologico (specie quello a orientamento dinamico), acquisisce connotati interessanti. La teleconsulenza con lo psichiatra favorisce la condivisione del vissuto, permettendo uno screening clinico in termini psicopatologici stretti, garantendo un intervento psicofarmacologico o psicoterapeutico, come da linee guida per singolo disturbo. La consulenza online psicodinamica, invece, permette di accogliere il vissuto personale dell’individuo garantendo un supporto che esuli dalla necessità di una categorizzazione diagnostica.
L’approccio psicodinamico, infatti, non ha l’obiettivo prioritario di ridurre i sintomi ma di creare setting di pensabilità dove i vissuti vengono accolti in un’ottica di sviluppo. Tale approccio non è riducibile al solo azzeramento dei sintomi, ma tende ad attivare risorse nell’individuo e nella relazione col suo contesto (Carli, Paniccia 2003).
Esperienze di questo tipo sono già state praticate nell’ambito dei percorsi di medicina narrativa applicati a studenti di medicina; in scenari critici con veterani e pazienti affetti da neoplasie (Fraas 2015; Charon 2001). La narrazione personale permette all’individuo un’elaborazione lucida della propria esperienza, aiutando il soggetto a individuare risorse personali in una condizione iniziale di difficoltà (Frank 2013).
Qual è la narrazione con la quale si confrontano oggi i sanitari? Cosa attendersi?
È sotto gli occhi di tutti che la narrazione collettiva dentro la quale il sanitario è attualmente immerso è il richiamo continuo alla retorica della guerra. Secondo la teoria della “collusione” siamo tutti immersi in questa metafora. Noi tutti condividiamo emozionalmente le stesse simbolizzazioni affettive e ci troviamo entro un contesto partecipato e vissuto in comune. La collusione se non trova luoghi di condivisione e di pensabilità, rischia di trasformarsi in agito emozionale, limitando le capacità produttive e di scambio della persona (Carli, Paniccia 2003).
Lo story telling bellico si augura che la macchina sanitaria “tenga il fronte”, che ci sia personale sanitario attivo e produttivo, disposto a lavorare fino allo sfinimento per garantire il massimo di salute. In questo contesto assistiamo al formarsi di una cultura, intesa come dimensione simbolico-affettiva condivisa da un ampio contesto, che rinforza comportamenti che richiamano valori sociali quali l’altruismo, l’umanità, lo spirito di sacrificio, l’attenzione al prossimo debole e malato, ma anche l’ubbidienza alle prescrizioni e la rinuncia alla libertà individuale. Tutti valori che negli ultimi anni sembravano essere stati posti sullo sfondo a favore di una cultura che enfatizzava l’individualismo, la conflittualità, la competizione, il profitto, il godimento derivato dal possesso di cose materiali e la corsa a ottenerle. L’evidenza dello strutturarsi di questa dimensione culturale si rintraccia nelle parole emozionalmente dense (e di derivazione valoriale) di cui grondano i discorsi dei responsabili della protezione civile, dei rappresentanti istituzionali, della stampa, fino agli opinion leaders.
Insomma, la Malattia è il Nemico, siamo tutti in guerra contro il COVID19 e i Sanitari sono “in prima linea”, sono in trincea, pronti a lavorare con Abnegazione, Sacrificio, Eroismo; sanitari da onorare, ringraziare, ossequiare. Ma il medico, l’infermiere, che vogliono sicuramente fare al meglio il loro mestiere, che comprende certo l’interesse per l’altro e si arricchisce di doti di umanità, non hanno scelto questa professione pensando eroicamente di rischiare la propria vita, ma per salvare quelle altrui, e si sentono oggi sottoposti a una ingente pressione psicologica che li mette di fronte a tante morti, con la paura di infettare e infettarsi.
L’essere visti come Eroi o Salvatori innesca una idealizzazione del ruolo che se inizialmente appare gratificante, può successivamente determinare conseguenze psicologiche preoccupanti. Sul piano individuale, all’idealizzazione potrà seguire una rovinosa caduta dell’oggetto idealizzato. A livello collettivo sarà difficile corrispondere a lungo alle aspettative salvifiche che la popolazione si aspetta; anzi è molto probabile che in questo contesto ci si debba attendere ingenti denunce al personale sanitario.
Tutto ciò può provocare una sorta di scissione nel vissuto individuale del singolo operatore: da un lato l’enfasi sull’eroismo, dall’altra la necessaria autotutela e autoconservazione che, visti così, in contrapposizione, sembrano difficili da integrare.
In una recente intervista televisiva un medico, esprimendo l’opinione di molti suoi colleghi, si è espresso in questi termini: “ci sono due categorie di persone, quelle che si dedicano senza riserve e quelli che si defilano!”, evocando inconsapevolmente la metafora bellica: c’è l’eroe o il disertore!
La nostra analisi di queste dinamiche vuole avere l’obiettivo di far riflettere sugli agiti emotivi, spesso risultanti di spinte interiori contrastanti e condizionati dal clima sociale descritto: far prevalere gli interessi dell’individuo o della collettività? Pensiamo che questo dualismo sia una trappola, che vada superata uscendo da metafore sacrificali, che tra l’altro producono vissuti di colpa dannosi, che nel migliore dei casi portano malessere psichico, ma possono esitare in depressione o aumento del rischio suicidario.
L’operatore sanitario impiegato nelle cure del Covid-19, oltre a esercitare questo ruolo professionale, è una persona, che come tutti ha una spinta alla autotutela che lo porterebbe a proteggersi, anche per tutelare i propri cari, e per poter esercitare correttamente il suo lavoro. Tutto ciò va integrato nel ruolo professionale: occorre una costante attenzione nel richiedere materiale protettivo e risorse sanitarie da rendere disponibili in tempi celeri; nessuno dovrebbe essere messo in condizione di dover rinunciare alla propria sicurezza e a interventi di best practice.
I vissuti emozionali enfatizzati dallo story telling della guerra, quando simbolizzati collettivamente, possono avere solo due derive: essere ‘agite’ o essere ‘pensate’. Il garantire ‘spazi di pensabilità’ con la collaborazione di psicologi formati, pur nell’emergenza, può favorire l’integrazione di aspetti scissi in contrasto con un rischio di dissociazione. Un pensiero efficace, una consapevolezza che costantemente analizzi ciò che si sta vivendo, può essere una importante risorsa, non solo per evitare derive sacrificali poco pensate e disturbi successivi (come ben descritto in letteratura), ma potrebbe favorire lo sviluppo di risorse personali, rendendo meno rischioso e più efficace il proprio lavoro.
Concludendo
L’epidemia da COVID-19 sta segnando le abitudini di tutti. Nei sanitari la pressione sociale e la retorica “di guerra” generano un forte distress con il rischio di generare profondi sentimenti di colpa e sviluppare una potenziale psicopatologia. La limitazione delle relazioni sociali rende poco praticabile l’approccio gruppale tipico della psicologia dell’emergenza e interventi terapeutici standardizzati non sono utilizzabili nel contesto di prevenzione primaria che la dimensione della crisi sanitaria impone con urgenza. In questo contesto, i vissuti personali, nonché la narrazione individuale della crisi, trattati all’interno di un setting psicodinamico anche con modalità online, rappresentano una prospettiva praticabile e opportuna.
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