Aveva sentito dire spesso che
con gli anni arriva la saggezza,
e aveva aspettato fiducioso, che questa saggezza
gli desse quello che più desiderava:
la capacità di guidare la direzione dei ricordi
per non cadere nelle trappole che questi spesso gli tendevano.
(Luis Sepúlveda. Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, pp. 77)
con gli anni arriva la saggezza,
e aveva aspettato fiducioso, che questa saggezza
gli desse quello che più desiderava:
la capacità di guidare la direzione dei ricordi
per non cadere nelle trappole che questi spesso gli tendevano.
(Luis Sepúlveda. Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, pp. 77)
– Professore, io ho sempre fatto i bambini, vuol dire che con gli adulti mi adatterò!
Non è una battuta di spirito ma un’affermazione testuale, per la verità un po’ snob e anche un pizzico burbanzosa, che una Collega neuropsichiatra infantile mi fece agli inizi degli anni ’80. L’organico del SDSM della ex-VIII Circoscrizione del Comune di Roma che dirigevo come primario psichiatra, all’epoca era dotato soltanto del mio Aiuto, Tonino Marasca, di due psichiatri ambulatoriali “SUMAI”, Alfredo Ancora, ottimo etnopsichiatra, e Gabriella Monti, 5 Assistenti sociali, 12 infermieri psichiatrici, tutti di ruolo, più 6 “animatori psicologi” di varia estrazione [01]. Il territorio, sul quale si giocava la grande sfida per la nuova assistenza psichiatrica con una infinità di problemi nuovi di zecca, tutti da scoprire, ci pareva sconfinato.
Dopo aver impiantato (con Antonino Lo Cascio) uno dei primi 4 SPDC, nello storico Ospedale romano di “San Giovanni” fondato nel 1338, in esecuzione della cosiddetta “Legge Basaglia-Orsini” 13 maggio 1978 n. 180, chi scrive organizzò il primo servizio dipartimentale di salute mentale nella ex VIII Circoscrizione – il “Municipio delle Torri” – di Roma-Capitale, attualmente VI Municipio. Il territorio, aveva ed ha tuttora una estensione un po’ più grande della città di Firenze ed all’epoca contava circa 200.000 abitanti (ora 176.981). Per fare un semplice raffronto indicativo basterà ricordare che negli ultimi due anni erano residenti ad Arezzo 99.179 individui, a Perugia 165.956, a Reggio Emilia 172.326, a Parma 194.417, a Trieste 203,232.
Questo della neuropsichiatra infantile, era il primo aiuto tangibile che giungeva dalla Regione Lazio, per trasferimento, su domanda dell’interessata. Figurarsi, dunque, con quanta trepidazione aspettassi dei collaboratori per attivare compiutamente il Servizio di territorio nella nuova prospettiva di praticare una psichiatria senza manicomio. Addirittura una specialista “speciale” nel panorama delle tre classiche aree cliniche della mente: neurologia, psichiatria, pedopsichiatria. Troppa grazia! In conclusione, l’approdo della Neuropsichiatra infantile che si presentava sbrigativamente a me come la Collega “che faceva i bambini” e dunque con gli adulti si sarebbe adattata se da un lato giustificava le sue legittime aspirazioni, dall’altro non esaudiva neppur lontanamente le mie attese febbrili.
Un clima di fervida creatività ci animava – quasi ossessivamente – perché la riforma fosse applicata su tutto il territorio nazionale. Non era affatto semplice, “fare” assistenza psichiatrica correttamente, in senso unitario e integrato. Nessuno sapeva quali forme avrebbe assunto nel territorio il nuovo lavoro che andavi ad inventare ex-novo. Ricordo le lunghe discussioni sui “casi” – relativamente alla prassi e alla teoria – prima e dopo ogni intervento. Per esempio, gli operatori “fuoriusciti manicomiali“ dovevano cambiare prospettiva perchè non era più l’epoca della festinazione assembleare: “una delle meraviglie del mondo”, come titola ironicamente John Foot un capitolo del suo bellissimo libro La “Repubblica dei matti” [02], purtroppo con la copertina sbagliata perché il ragazzo guardato affettuosamente da Basaglia non è un “matto” ma un “down”. Era passato il tempo “oppressivo” delle assemblee manicomiali, come scriveva Agostino Pirella [03]. Bisognava imparare tutto da capo, inventare, possedere la capacità di meravigliarsi, soprattutto parlando coi familiari. Dunque gli “animatori psicologi” erano i più adatti a porre le questioni esterne alla psichiatria tradizionale: quelle extracliniche. Il ruolo delle assistenti sociali e quello degli infermieri era aumentato di prestigio e dunque si prenotavano colloqui ambulatoriali direttamente con loro. L’équipe per la visita domiciliare (inizialmente usando la nostra automobile) era formata da almeno un infermiere, un assistente sociale e un medico; dipendeva dal tipo di problemi.
Mi piace qui rammentare la passione di Renato Aloisi un infermiere carismatico amato dai pazienti, che organizzò (con me) la seconda comunità terapeutica di Roma del SSN a Salone di Lunghezza, intitolata a “Mario Gozzano”. La prima (pubblica), fu quella voluta da Massimo Marà: la “Comunità di Primavalle”, sulla scorta delle esperienze londinesi di Kingsley Hall (Ronald Laing, David Cooper, Aaron Esterson, ecc). Alla comunità “Mario Gozzano” mi piace ancora ricordare che prestò la sua preziosa opera di supervisore Fausto Rossano, il puntuale maestro junghiano di Ercolano. A quel tempo il nostro impegno era totale e Renato Aloisi – quello che “se la prendeva a cuore” – ci lasciò prematuramente per un repentino infarto del miocardio.
Ho preso l’argomento da lontano, perchè per la neuropsichiatria infantile, quella eroica di Giovanni Bollea, nutrivo una passione fanatica e interessata. Anzi, potrei dire di essere divenuto un “esperto” (ancorché privo di specializzazione), soprattutto nella mia fase due, quella di nonno, in cui avevo affinato le mie competenze. A mio avviso la neuropsichiatria infantile è innanzitutto la disciplina principe per l’analisi delle dinamiche intrafamiliari. Ritengo inoltre di potermi dilungare, approfittando della paziente tolleranza dei lettori di Pol.It., proprio ora, in quarantena da Covid-19, per raccontare le mie vicende di “nonno di guardia” con la “supervisione” di “nonna Silvia”, mia moglie, nella gestione del nostro kinderheim familiare allargato. È proprio in piena quarantena, che ci ostiniamo a voler chiamare lockdown (forse per compiacere la WHO?) ignorando altre parole italiane, il momento in cui scopriamo di possedere il nostro bene più prezioso: tutto il tempo che vogliamo per pensare tutto quello che ci pare.
Lockdown è un anglicismo entrato prepotentemente nelle cronache di queste sciagurate settimane di emergenza. Dobbiamo rassegnarci a considerare la parola insostituibile o provvisoriamente utile per pratica semplicità internazionale, quantunque incomprensibile ai più? Non sarebbe meglio dire quarantena, confinamento, isolamento, misure di contenimento per evitare il contagio? L’uso di vocaboli stranieri mi fa venire in mente – a me vecchio bambino del 1943 – il tragico mondo della seconda guerra mondiale e dei suoi minacciosi “AVVISI” che ti facevano già paura al solo vederli. All’improvviso ti trovavi davanti cartelli con ordini perentori e aggressivi come “Achtung”, “Verboten”, “Dio stramaledica gli Inglesi”, “Taci! Il nemico ti ascolta”, “Off limits”. Mi sono sempre rimasti impressi come incubi. In ogni caso dovevi sempre “indovinare” chi fossero le “truppe alleate” dei vari notiziari radiofonici.
Insomma, adesso abbiamo molto tempo per ri-meditare sugli errori passati. Ma se non vogliamo proprio considerarli tali, dovremmo almeno domandarci perchè stiamo scalpitando per ri-prendere la corsa forsennata verso il baratro del profitto. Ri-cominciare – acriticamente – là da dove eravamo rimasti, senza nulla mutare. Ri-iniziare, per esempio, ad insultare l’ambiente, violentare la terra che ci ospita, senza neppure sospettare che la natura potrebbe rivoltarcisi contro per azzannarci tutti al posto di un Jair Bolsonaro qualsiasi, che «l’Amazzonia è mia e ci faccio quel che mi pare!». La controfigura di Andrea Pennacchi nel ruolo di un ottuso “pojana” qualunque, in un “capannone” qualsiasi della “Liga Veneta”.
La frase iniziale era l’incipit di un mio vecchio editoriale di una quindicina d’anni fa per la Rivista ufficiale della S.P.I.G.A. (Società di Psicoanalisi Interpersonale e Gruppo Analisi) fondata a Roma da Vincent Morrone. Quel piccolo screzio, semmai, mi rammentò che avevo iniziato la mia carriera di specialista in Clinica delle malattie nervose e mentali – e anche di genitore – come pediatra timoroso e insicuro, per diventare poi, nel corso della mia formazione alla corte di Mario Gozzano e Giovanni Bollea e, man mano che la mia famiglia cresceva numerosa, anch’io crescevo, divenendo un pedopsichiatra “rifinito” e comunque migliore di quanto non fossi divenuto neurologo e psichiatra. Dunque, quando mi fu chiesto dalla professoressa Ivana De Bono di scrivere l’editoriale per un numero di “Trasformazioni. Progetto-Processo-Cambiamento”, l’organo ufficiale della SPIGA interamente dedicato alle “Condotte familiari violente” [04], accettai di buon grado, non tanto perchè mi sentissi autorizzato a farlo, come sopra detto, con cognizione di causa, ma perchè l’argomento aveva sempre suscitato il mio interesse. Mi ero guadagnato i galloni sul campo negli anni Sessanta e da allora, diciamo, coi bambini e successivamente con tutta la gamma delle patologie psichiatriche degli adolescenti dei giovani e delle famiglie patologiche più in generale, non avevo più smesso. Il mio “pezzo” sulla Rivista serviva anche a introdurre cinque saggi di specializzazione di altrettanti allievi della scuola gruppo-analitica di Vincent Morrone, che avevano presentato e discusso come tesi. Erano quelli del Corso 2003-2006, che si erano concentrati sul gravissimo e preoccupante fenomeno già fin da allora insidioso, sottaciuto e in aumento.
Ecco, il lontano disappunto con la Collega pedopsichiatra al Municipio delle Torri, non offuscò affatto, i miei ottimi rapporti con la neuropsichiatria infantile. Semmai me li rammentò con un velo di rimpianto, anzi, per dirla con Eugenio Borgna, con una piccola ferita di quella nostalgia che si nutre di gioia e di tristezza. La mia amicizia e la mia stima divennero tenaci e indefettibili con i protagonisti dell’epoca d’oro della scuola di neuropsichiatria infantile romana inventata da Giovanni Bollea. Avevo cinque figli piccoli da 7 a 17 anni, tre femmine e due maschi. Ricordo perfettamente tutte le “verifiche” mattutine che andavo a fare, prima di prendere servizio al mio reparto di neurologia (il secondo piano). Per prima cosa dovevo accertarmi se nel mitico “Seminterrato” della “Clinica Neuro” allora diretta da Mario Gozzano in viale dell’Università 30, dov’era alloggiata provvisoriamente l’ancor più mitica “Neuropsichiatria Infantile”, fosse già arrivato almeno uno fra questi collaboratori di Bollea: Arnaldo Novelletto, Pietro Benedetti, Marinella Rosano, , Roberto Mayer, Adriano Giannotti, Adele Scarinci, Adriano Sollini, una volta tentai perfino con Pierandrea Lussana transitato da li per illustraci le idee di Melanie Klein. La successiva operazione era quella di chiedere, ove necessario, se fra costoro vi fosse qualcuno disposto a darmi ascolto e a fare eventualmente un salto al mio domicilio per sedare i timori di un padre ansioso per le eterne ”febbri di n.d.d.” – parafrasando Archibald Joseph Cronin – della nidiata di figli. Avevo preso casa a pochi passi dal “Policlinico Umberto I” appositamente. Non è uno scherzo se ho scritto i nomi dei protagonisti, la crème de la crème, del periodo leggendario della neuropsichiatria infantile romana inventata da Giovanni Bollea. Quel seminterrato di cui – pediatricamente – mi fidavo ciecamente, pensate un po’, è stato l’antenato, dell’Istituto di “Via dei Sabelli”. Un presidio che oggigiorno viene difeso all’arma bianca dai pochi superstiti, contro i tagli di spesa, di personale, di strumenti, di tutto l’indispensabile per poter sopravvivere dignitosamente, come struttura sanitaria pubblica. Ecco, se c’è una cosa che mi fa arrabbiare, è sentir dire che non ci sono soldi, anzi sono finiti. Scherziamo? In Italia? Mancano i soldi per la sanità, la scuola, la ricerca, i trasporti? Finiti come, dove, perché? Dove sono stati dirottati, su quale altro capitolo di spesa? Quali “manine” hanno “grattato” fra i fondamentali della spesa essenziale per la salute di un paese importante come l’Italia?
Riprendo in mano queste mie vecchie riflessioni proprio ora che siamo in piena degenerazione prossemica da quarantena per coronavirus e le famiglie che non si sopportano sono obbligate a convivere senza tregua. Laddove c’è polvere da sparo, sotto forma di odio, rancore, emotività espressa, è prevedibile la deflagrazione improvvisa, irreparabile. Si sentono talvolta notizie raccapriccianti, puntualmente riportate dai media. Violenze perpetrate non solo sulle donne, ancorché prevalenti, ma su tutti gli anelli più deboli della catena familiare. Esplodono all’improvviso, come se la convivenza tra congiunti si fosse trasformata gradualmente in una sorta di campo minato. Dominano l’insofferenza, l’intolleranza, l’insopportazione, l’inconoscenza dovuta a tutti i silenzi pregressi. L’intimità obbligata, coercìta, imposta, forse anche ri-proposta da un tempo dimenticato, ferisce lo spazio vitale antropologico, quell’involucro epidermico sottile che circonda e custodisce il Sé da dove è stato espunto il Noi di buberiana memoria, il co-esse di Bruno Callieri. Su questa terra di nessuno – da dove è stato bandito l’amore – prevalgono le violenze di genere (uomini verso donne per lo più), ma non sono infrequenti quelle sui bambini e sui vecchi sfuggiti alla mattanza delle “RSA” (Residenze Sanitarie Assistite) di tutta Italia. Peggio della “baggina” milanese il ricovero pietistico per i meno abbienti: “Martinit” e “Stelline” messi insieme.
Sugli omicidi compiuti verso le donne, particolarmente odiosi per la loro insensatezza, il Procuratore generale Giovanni Salvi nella sua relazione sull'anno giudiziario italiano 2019, ha parlato, tra l’altro, ormai apertamente di emergenza femminicidi [05]. Da quando è iniziato il confinamento rigido, sono aumentati un po’ in tutta Italia. Basta sfogliare i giornali. Il Corsera del 27 aprile 2020 titola – Otto femminicidi da quando è scoppiata l'epidemia, e giù i nomi delle vittime. Vogliamo sapere qualcosa di più di questi delitti? Alcuni hanno particolarmente impressionato per la belluina ferocia. Prendiamo il mese di maggio 2020 quello delle rose per eccellenza. Fioriscono e questo significa che il freddo dell’inverno e finito. La natura sboccia, si prepara a generare. Per mia madre valsuganotta era il mese dei mussi (i somari) e dei morosi (gli innamorati). Ora, non è così.
Nel maggio 2020, a Milzano (Brescia), il sindaco sta rientrando per la cena, quando a pochi passi da casa, ode un urlo raccapricciante. Posa la bicicletta e va a suonare il campanello della villetta antistante la sua per vedere cos’è successo. Apre la porta il vicino di casa, Gianluca 41 anni, sconvolto: – Massimo, ho ucciso Susy. É stato terribile. Chiama i carabinieri … li aspetto qui … tanto … Massimo … non abbandonare i miei figli – In effetti Zsuzsanna 39 anni, rumena, con Gianluca da 16, è stata sgozzata davanti ai tre figli: due femmine 17 e 7 anni e un maschio di 3, disabile. Sono state avviate le indagini. Si stavano separando, il coronavirus li ha riuniti per l’omicidio. Forse si erano parlati troppo, avevano trasceso.
Poco giorni prima, sempre nel mese di maggio, in Val Polcevera, a Bolzaneto (Genova), a Via Teglia un uomo di 72 anni aveva preso a martellate la moglie di 70, mentre dormiva nel letto, poi si era pentito ed era scappato di casa. Lei era finita in prognosi riservata a “Villa Scassi”, l’ospedale di Sampierdarena, lui in prigione a “Pontedecimo”, che pare sia privo del Sevizio di salute mentale. I due erano sposati da 47 anni e secondo i vicini non avrebbero mai avuto problemi. Le indagini sono in corso. Forse non si erano mai parlati, ora lo facevano a gesti.
Non è che in aprile – il mese della primavera – le cose siano andate meglio. Il 19, ad Albignano d’Adda, frazione di Truccazzano, nel Milanese, un operaio di 47 anni di Bressanone, ospite forzato e provvisorio – causa coronavirus – della ex-compagna, coetanea, una tranviera dell’ATM di Milano, al culmine di una lite nel cuor della notte, imbraccia il fucile a pompa calibro 12 di proprietà della vittima e le esplode un colpo al viso, lasciando il suo corpo orribilmente sfigurato e privo di vita sul letto della loro abitazione. Dopo il delitto si è presentato alla caserma dei carabinieri di Cassano d'Adda dicendo al piantone di aver ucciso la compagna. I due avevano una “relazione a distanza” da 8 anni. Si incontravano regolarmente a fine settimana da lei a Truccazzano. Lui era di Gangi, sobborgo della città metropolitana di Palermo, lei anche era di origini siciliane. Lei, persona indipendente, aveva troncato la relazione, sembra per eccessiva gelosia del partner. Lui era ospite della tranviera perchè la fabbrica di Bressanone ha chiuso.
Il 18 aprile 2020 in zona Capannelle (a Roma) la cronaca nera registra ancora un crimine di questa tipologia. Lui romano, 47 anni, con tanto di mascherina e soprabito nero, aspetta la ex moglie – 37 anni, da cui viveva separato – all’ora di cena fuori dal garage e l’aggredisce a martellate finché si rompe il manico dell’attrezzo. Fugge in taxi. Lei, barcollando, chiede aiuto. Chiamano il 118 che la porta in gravi condizioni al San Giovanni. Lui, poco dopo, viene rintracciato dagli agenti della mobile della Romanina, mentre si apprestava alla fuga e viene associato a Regina Coeli. Non è Hitchcock ma purtroppo una delle possibili conseguenze, peraltro prevedibili, del confinamento da Covid-19 tra congiunti che già erano disgiunti. Questi si erano parlati, promettendosele?
Il martello, sembra purtroppo l’arma impropria scelta nei femminicidi domestici o tentati femminicidi di questo tremendo, luttuosissimo periodo di contumacia. Se retrocediamo ancora di un mese la nostra osservazione sulla cronaca nera italiana per avere un’idea di quanto l’obbligo a vivere sotto lo stesso tetto possa avere incrementato la violenza sulle donne, scopriamo che a marzo 2020, a Camposampiero nell’alta Padovana, i Carabinieri chiamati dai servizi d’urgenza allertati dai vicini di casa, sono intervenuti per arrestare un marito di 58 anni che aveva preso a martellate e a coltellate la moglie di 48, entrambi macedoni costretti dalla pandemia a convivere. Lei è finita in ospedale, lui ai “domiciliari”. Addolora leggere notizie simili, non solo per la poveretta, ma ripensando anche a tutto il prezioso lavoro fatto da Lodovico Cappellari uno dei nostri maestri della psicopatologia fenomenologica.
Questa quarantena da pandemia non ha solo fatto salire i femminicidi, ma ha incrementato la violenza contro la donne in generale come componente di genere del gruppo familiare. Ci sono stati figli che hanno accoltellato le madri per esempio. Solo ricorrendo alla mitologia e alla grande narrazione teatrale della Grecia antica si può andare in un tempo fuori dal tempo, quello del fato.
Abbiamo raccolto tre orribili fatti di sangue, ancora in Marzo 2020. Al Quartiere Laurentino – periferia Sud di Roma – un ragazzo di 20 anni, uccide a coltellate la madre di 46 anni e la decapita con un coltello da cucina poco prima della mezzanotte. La sorella scappa rifugiandosi da vicini. I Carabinieri lo arrestano e lo portano a Regina Coeli. Pare avesse problemi psichici e avesse assistito a un violento litigio tra i genitori. Si dice anche che il padre voleva separarsi dalla madre. Indagano i carabinieri. A San Vito dei Normanni (Brindisi), un Giovane di 23 anni uccide la madre di 51 con un coltello a serramanico colpendola per cinque volte al torace. Convivevano, con una sorella di 29 anni, e la pandemia li aveva sigillati in casa. Il cronista si limita ad annotare che il litigio sarebbe partito dai soliti “futili motivi”.
Episodi grandguignoleschi come questi ci fanno non solo rabbrividire, ma richiamano anche gli esperimenti di psicologia sperimentale, condotti sui ratti in ambienti sovraffollati (o rinchiusi in spazi ristretti), che diventano aggressivi e psicotici, arrivando a mangiarsi tra loro o rifiutare il cibo. Contemporaneamente, però, stiamo anche bestemmiando il padre Dante. Infatti (fortunatamente solo talvolta) ci capita di rivelare, increduli a noi stessi, che fummo proprio fatti «a viver come bruti» e non invece «per seguir virtute e canoscenza».
Per soffermarsi ancora un attimo sulle donne, non è che per l’altra metà del cielo (e, più concretamente, dei gameti della procreazione, ivi compresi quelli del DNA mitocondriale), le cose migliorino a livello di Convenzioni Internazionale. En passant, rammentiamo che la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla “Prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica” dichiarata ad Istanbul [06] nel 2011, non è stata universalmente confermata. Peraltro tutte le Convenzioni giuste e ragionevoli, come per esempio quella sul clima (Tokio), tanto per dire di quelle più urgenti e pressanti, appena toccano gli interessi dei governi mondiali più forti dal punto di vista politico, economico e commerciale, vengono sistematicamente disattese.
Il lungo preambolo, che nell’articolo per la professoressa Ivana De Bono non c’era, mi è servito per raccontare il mio passaggio dalla fase uno di genitore alla fase due, quella di nonno, come esperienza personale. Ora, come, celiava amabilmente con me Bruno Callieri “Caro Sergio, siamo ai tempi supplementari e dobbiamo giocarceli bene per arrivare concentrati ai calci di rigore sperando nell’abilità del portiere”. Sapeva della mia passione per il calcio e di Alba-Silvia, l’ultima figlia, che aveva giocato da semiprò nella “Lazio” e in Nazionale. Nondimeno, tutta l’introduzione alla “violenza intrafamiliare” risulterebbe ampiamente insufficiente se omettessi di riferire ancora che una famiglia almeno (la mia e di mia moglie, la nostra insomma) l’ho studiata da dentro, con attenzione e con un coinvolgimento totale. Lo so che autocitarsi non è elegante, e non vale neppure molto, perchè parte dal grande pregiudizio della “visione familiare, domestica”, per l’appunto, quella che ti fa velo, ti offusca la visione, t’impedisce di andare oltre. Ma se Karl Jaspers – mi son detto – ha inaugurato il “Secolo breve” rivoluzionando la psicologia e la psicopatologia con la sua Allgemeine psychopathologie (1913), sulla base delle sue osservazioni cliniche e considerazioni filosofiche, ha costruito quella che è stata battezzata la “Psicologia della comprensibilità”, scienza limitata dal giudizio personale, la doxa, dunque, l’apparenza, non la verità, ma comunque largamente riconosciuta e successivamente fra i prolegomeni della visione fenomenologica, non vedo perchè le mie modeste osservazioni, maturate sul campo, debbano essere scartate a priori.
Ho fatto il nonno, dopo “essere stato” ininterrottamente, per circa mezzo secolo, nelle istituzioni psichiatriche pubbliche. In passato, nelle mie auto-presentazioni, aggiungevo che in codeste istituzioni della follia c’ero stato “per lavoro”. Ho smesso di farlo da quando chi mi ascoltava commentava incerto: “Eh? Pubbliche della follia? Ah!! Oh si… certo capisco … ma lo sa che si vede?…”. Dirò di più, sono stato (e tuttora nel limiti del Covid-19 e della mia mente neuronale, cerco di farlo) un nonno medico (di formazione neurologica e psicopatologica) che è in servizio di “guardia permanente”: guardia di medicina generale, pediatria, psichiatria, e anche di pedopsichiatria e psicologia.
– “Di guardia?” – Sì proprio di guardia! – “A cosa?” – A una microcomunità molto personale, che è anche un minuscolo Kinderheim: la mia famiglia allargata, piuttosto abbondante. Un plotone di 17 effettivi tanto per dare una dimensione militare, che nessuno di noi ha mai condiviso, se non la passione per le divise, i copricapo, le mostrine, gli alamari e la storia, come la racconta Alessandro Barbero quel popolare medievista che dice cose importanti con l’aria di esser capitato lì per caso.
Ora sono in isolamento da coronavirus, ma fintanto che ho potuto contare sull’aiuto di mia moglie, “la nonna Silvia”, e comunque fino al giugno del 2019 quando ci è venuta a mancare, abbiamo lavorato sodo e vigilato con entusiasmo sulla nostra comunità familiare.
Per circa un ventennio, con i miei nipoti – maschi e femmine da “zero a dieci anni”, come si dice nel linguaggio degli epidemiologi – mi sono cimentato con la baby observation. Ho compiuto, cioè da nonno, un’utilissima esercitazione che non mi era stata possibile effettuare a suo tempo coi miei cinque bambini (attualmente, come detto, tre donne e due uomini). Assieme a mia moglie ho condiviso questa privilegiata fatica domestica di gestire il nostro kindergarten, con tanto di vicendevole reciproca supervisione. Mi è capitato spesso di ragionare con Bruno Callieri, per motivi di affinità (lui aveva la dolce Melania), specialmente negli ultimi tempi della sua vita, quando divennero meno rade le mie incursioni al 59 di Via Nizza. Lui aveva scritto cose importanti sulla osservazione diretta dei nipoti che io verificavo puntualmente trascorrendo con loro molta parte della giornata, perché venivano trasportati dai nonni (nella casa dei nonni piuttosto che al “nido”) a motivo degli impegni lavorativi dei genitori. Si trattava di un’osservazione a tutto campo che riguardava tanto la formazione scolastica dei più grandicelli, quanto i giochi carponi, o il ballo, col fantolino in braccio al suono dei ritmi brasiliani di Vinicius De Moraes e Toquinho cantati dalla Vanoni come quello apotropaico che fa:
Ma come fai quando tu sei bambino / A prendere coraggio e fede nel destino / Se papà ti mette per castigo al buio / Poi ti mette a letto: "Zitto che c'è il lupo / Zitto che c'è il lupo, zitto che c'è il lupo" / E la mamma dice: "Chiamo l'uomo nero / Chiamo il Babau, ti mangia tutto intero / Nella notte scura ti fa la puntura / Ti fa la puntura, ti fa la puntura"…
Era strategicamente essenziale, non trascurare anche un ascolto attivo (di sfuggita per non dar nell’occhio) alle relazioni interpersonali dei rispettivi padri e madri che venivano a riprenderseli, meglio se avevano tempo per mangiare un boccone al solito desco living del tinello, sempre apparecchiato. Il clima era (quasi sempre) quello piacevolmente fragoroso, quello di un’operosa e turbolenta convivenza promiscua. Lungi dall’essere il luogo ideale per le osservazioni scientifiche, com’era almeno nelle intenzioni, si sperava che la permanenza giornaliera temporanea nella grande casa dei nonni avesse avuto qualche possibilità di fare della prevenzione primaria sulla salute mentale dei componenti il gruppo familiare. Una bella pretesa! E anche presuntuosa. In ogni caso, il progetto era semplicissimo. Osservare rispettare e mantenere i giusti equilibri intrafamiliari ovverosia le opportune dinamiche di ruolo: nonni, figli, nipoti dalla generazione più nuova alla più antica, risalendo a ritroso nel tempo. Sorvegliare adeguatamente, come nonni con la provvisoria funzione vicaria di genitori, la crescita delle relazioni intersoggettive e paritarie. Per di più in supplenza (questa però era solo una intenzione esageratamente perfezionistica) dei soggiorni mattutini coi compagni della scuola “materna” e successive. Però rammento che moltissimi sono stati gli amici che hanno frequentato “la casa dei Mellina”.
Per i lavori di Mariella Millucci, Santa Teresa Bruno, Beatrice Bessi, Giuditta Anna Saba, Federica Taddei, i cinque allievi SPIGA di cui feci la recensione, si rinvia al testo citato alla nota 4.
Note
01. Questo fatto del personale “di ruolo”, “non di ruolo”, “SUMAI” (acronimo e sigla del potente Sindacato Unico Medici Ambulatoriali Italiani, in varie specialità pronti a riempire “ad ore” i “buchi” dei “ruoli non coperti”), nonché quello definito con l’ambigua e misteriosa qualifica estemporanea di “animatore psicologo” – almeno sulla piazza di Roma – merita una puntualizzazione e qualche chiarimento aggiuntivo. Il personale di ruolo impegnato nella riforma non poteva fare diversamente che scegliere il “tempo pieno”, mentre il SUMAI aveva un contratto per un dato numero di ore settimanali. Il ricorso agli straordinari soprattutto per gli infermieri e le assistenti sociali andava autorizzato con parsimonia perchè poi si doveva bisticciare con la “Ragioneria” e il “Personale” della ASL. La Provincia di Roma, nel cedere le competenze alla Regione Lazio, per la psichiatria, si era inventata questa figura dell’animatore psicologo, per dare una mano nella mole di lavoro territoriale. Come titolo di studio richiesto bastava la “maturità”, ma la maggior parte erano psicologi o sociologi o studenti in queste due discipline, infatti, successivamente sarebbero stati assunti e collocati nei ruoli corrispondenti.
02. Cfr. John Foot. La “Repubblica dei Matti”. Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia, 1961-1978. Universale Economica Feltrinelli /Storia, traduzione dall’inglese di Enrico Basaglia, Milano, 2014.
03. Ibid., p. 327.
04. Mellina Sergio. Editoriale a Le relazioni intrafamiliari violente. In “Trasformazioni. Progetto-Processo-Cambiamento”. Rivista semestrale organo della S.P.I.G.A. (Società di Psicoanalisi Interpersonale e Gruppo Analisi) anno II, n. 4, dicembre 2007, pp. 5-19.
05. In Italia calano complessivamente gli omicidi ma quelli che vedono vittime le donne restano stabili. E nel 28% dei casi – recita il Rapporto Eures – vengono preceduti da altri reati.
06. La Convenzione del Consiglio d'Europa sulla “prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica” (Convenzione di Istanbul) è un Trattato internazionale approvato dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa il 7 aprile 2011 ed aperto alla firma l'11 maggio 2011 a Istanbul in Turchia. Esso si propone non solo di prevenire la violenza e favorire la protezione delle vittime ma anche di impedire l'impunità dei colpevoli. È stato sottoscritto da 32 paesi il 12 marzo 2012 e la Turchia è risultato il primo paese a ratificarlo. In Italia, l'approvazione unanime del testo alla Camera, è avvenuta il 19 giugno 2013, successivamente, il Senato è risultato favorevole con 274 voti e un solo astenuto. Mercoledì 6 maggio 2020 l’Ungheria, il Parlamento di Budapest, anzi il “premier dai pieni poteri”, Viktor Mihály Orbán in persona, ne ha bocciato la ratifica, perchè a dire di codesti governanti sovranisti, le donne ungheresi sarebbero già sufficientemente tutelate dalla legge nazionale. Inoltre, a testimoniare il pelo di cui è foderato lo stomaco dell’ attuale maggioranza magiara, e la malafede, la normativa di “Istanbul” promuoverebbe “l'ideologia gender e l'immigrazione”, obbligando l'Ungheria ad accogliere fuggitivi per discriminazioni di genere o di orientamento sessuale che rifiuta. Proprio in questi giorni, però, l'opposizione ungherese, ha denunciato un incremento della violenza domestica nel Paese a causa del lockdown, come è accaduto anche in altre parti del mondo.
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