Non ho mai praticato da analista la psicoanalisi di gruppo, o gruppo-analisi che dir si voglia. L’ho praticata invece da paziente, per cinque anni. Voglio parlare di questa esperienza in modo volutamente ingenuo, qui. Cinque anni di analisi con lo stesso analista, quindi la mia testimonianza non ha alcuna pretesa di universalità: parlo di un’esperienza clinica del tutto singolare. Nessun discorso generale sull’analisi di gruppo.
Quando avevo poco più di 30 anni, a inizio anni 1980, entrai in un gruppo analitico dell’analista B., all’epoca considerato il migliore gruppo-analista nella città dove vivevo. Se non altro era il più anziano, dato che da decenni praticava la gruppo-analisi ed era dirigente di una delle società gruppo-analitiche in quel paese. Il suo riferimento teorico principale era il pensiero di S.H. Foulkes.
In un cartellone che campeggiava nell’anticamera del suo studio si spiegava che esistevano tre tipi di analisi di gruppo: analysis of the group, analysis in group, analysis by the group.
La prima era quella derivata da W.R. Bion: è il gruppo a essere oggetto di analisi. L’analysis in group era un tipo di analisi individuale che di fatto veniva fatta in gruppo; mi è difficile collegare a questa definizione un preciso filone di analisi di gruppo a me noto. Nell’analysis by the group il gruppo stesso svolge la funzione di analista, è l’analista di ciascuno. I gruppi di B. appartenevano a questo terzo indirizzo.
Ho detto che questa analisi è durata cinque anni. I primi due l’ho fatta in un gruppo, gli altri tre in un altro. A un certo punto B. redistribuiva ciascun membro di un gruppo in un altro gruppo.
Il gruppo era composto da un numero compreso tra 11 e 15 persone. Ci si incontrava una sola volta a settimana. Ci si sedeva attorno a un tavolo rotondo, cosa che mi stupì allora, perché avevo visto altri gruppi analitici dove le sedie erano disposte in circolo senza tavolo centrale. Interpretai quel tavolo un voler connotare il gruppo come équipe di lavoro, come nelle negoziazioni politiche o nei consigli dei gruppi industriali. In effetti c’era un ideale manageriale in B., che emergeva in altre forme.
Questo ideale si esprimeva nel fatto che ogni seduta veniva integralmente registrata. Ogni seduta durava esattamente un’ora e mezza, la lunghezza dei due lati del nastro da registratore. Non appena finiva il nastro, finiva la seduta. Ho saputo poi che B. riascoltava sistematicamente le registrazioni delle sedute, in un’ottica di ricerca qual si voleva la sua. Evidentemente la registrazione rafforzava la connotazione “scientifica” che avevo recepito. Seppi poi, da persone che lo conoscevano bene, che B. era una personalità marcatamente ossessiva.
Di primo acchito direi che il registratore non influiva più di tanto: dopo un po’ ci si abituava e non ci si faceva più caso. Ma l’inconscio? Il sapere che tutto ciò che dici è scolpito nel marmo di un nastro non cambia in qualche modo il tipo di parola che esprimi?
A differenza di quel che accade di solito nell’analisi individuale, un mese di analisi di gruppo veniva pagato all’inizio: alla prima seduta del mese si versava la quota per tutto il mese.
Essendo analysis by the group, questo significava che c’erano di fatto due analisti: B. e il gruppo. I due analisti potevano divergere? Nella mia percezione non direi, ma le cose sono sempre molto più complesse di quanto non appaia.
B. non interveniva in modo frequente con la parola. Interveniva soprattutto con gesti e smorfie: quando qualcuno diceva qualcosa che lo convinceva, oscillava affermativamente il capo in modo vistoso; altre volte invece commentava con uno sguardo perplesso. L’analista, se è visibile ai pazienti, può “parlare” anche senza pronunciar parola.
Era proibito fumare a tutti i partecipanti, tranne all’analista, che fumava una sigaretta dopo l’altra (erano altri tempi). Un nuovo entrato osò chiedere il perché. B. allora sollecitò il gruppo a dare una risposta. Io dissi “Se tutti fumassero, questa sala diventerebbe irrespirabile!” La mia risposta fece ridere, ma io non avevo intenzione di far ridere, la consideravo una risposta valida. B. poi disse che fumare avrebbe troppo concentrato i pazienti, che invece dovevano lasciarsi andare, mentre l’analista, al contrario, aveva bisogno di concentrazione. In realtà, credo semplicemente che fosse tabagista.
In ogni seduta parlava chi aveva l’ardire, o direi la faccia tosta, di parlare per primo. In effetti, l’intera seduta poteva essere focalizzata su quel che diceva chi aveva parlato per primo. Il problema di ciascuno in un gruppo analitico è: “Riuscirò oggi a infilare qualche frase sul mio problema?” Alcuni mordono il freno, vorrebbero parlare dei loro problemi; altri invece sembrano ripararsi dietro il fatto che siano altri a esporsi, e sembrano sguazzare in questa posizione defilata.
La mia impressione è che i soggetti del gruppo possano essere classificati più o meno in tre categorie, pur considerando tutte le sfumature individuali e “i misti”: i moschettieri dell’analista, gli imboscati, e gli espressivi patetici. A cui aggiungerei una categoria per fortuna più rara: il fustigato, o messo alla berlina.
Per moschettieri dell’analista intendo dei componenti del gruppo che apprendono rapidamente il modello della gruppo-analisi, dicono e agiscono più o meno come direbbe o agirebbe l’analista. Interpretano i sogni che vengono portati, più o meno, come li interpreterebbe l’analista. Si tratta spesso di psichiatri o psicologi in training, per i quali è importante dimostrare – prima di tutto a sé stessi – che hanno capito perfettamente le regole del gioco. Ma possono anche essere dei non-shrinks, si direbbe in America. Li chiamo moschettieri dell’analista perché si mettono al servizio militante di quello che l’analista considera analisi giusta, ben fatta. Essi risparmiano all’analista molto lavoro: interpretano al suo posto, lodano o fustigano i reprobi del gruppo proprio come vorrebbe fare l’analista. Sono luogotenenti dell’analista.
Ci sono poi alcuni che approfittano del gruppo per esprimere a più non posso quello che pensano e sentono, e che per questo chiamo espressivi patetici. Credo di essere appartenuto a questo tipo. Hanno bisogno di parlare tanto, di esprimersi tanto, pur se i vincoli del gruppo – “anche gli altri devono parlare!” – limitano questo loro bisogno. Le personalità isteriche tendono a essere di questa categoria. Le isteriche di solito non venivano interrotte, perché quel che dicevano lungamente appariva autentico.
E poi ci sono gli imboscati e le imboscate. Sono quelli che parlano poco, e che intervengono anche poco a proposito dei problemi degli altri. Ogni tanto portano qualche loro problema, ma come isolato dal contesto della loro vita, direi anodino. Non dico che facciano tappezzeria, ma trovo che questa posizione appartata risulta molto comoda per sé stessi, non se ne lamentano, almeno esplicitamente; possono venire per anni. Sembrano interessati più ad ascoltare gli altri che a parlare dei loro problemi. Sembra che per loro sia essenziale starci e non starci, mostrarsi e nascondersi.
Dirò qualcosa su una di queste “imboscate”.
La regola del gruppo era che non ci si dovesse frequentare, tra membri del gruppo, nel corso dell’anno. L’unico luogo d’incontro era la seduta, e dopo, magari, prendere qualcosa da bere al bar tutti insieme. Nel periodo della parentesi estiva, però, questa regola veniva sospesa. Non so se questo permesso provenisse direttamente da B., oppure se non fosse un costume sviluppatosi indipendentemente dalle regole analitiche. È come se a ogni pausa estiva il gruppo si sciogliesse e quindi ciascuno fosse libero di frequentare gli altri.
Io ne approfittai per invitare a cena una compagna di gruppo che trovavo carina, e che mi aveva lanciato particolari segnali di interesse. Mia compagna di gruppo da due anni, era un’”imboscata”. Non avevo quindi una chiara idea del perché venisse al gruppo. Nel corso di quella cena lei mi parlò molto di sé, e capii finalmente chi fosse. Era stata per anni con un uomo che aveva avuto seri problemi con la giustizia per reati comuni, che era stato in galera, un uomo violento che, da quel che intuii, la picchiava. Poi si era messa, e tuttora stava, con un altro poco di buono, ma per ragioni politiche: era un neo-fascista che pure aveva problemi con la giustizia per le sue bravate da squadrista, e aspettava un processo. La ragazza mi parlò di questa sua vita sentimentale, per chiamarla così, senza connotarla patologicamente, del resto aveva un’aria timida che contrastava con la sua storia, o meglio che la confermava, nella misura in cui aveva l’impulso coattivo a unirsi a delinquenti. Probabilmente voleva essere sedotta da me sperando che, attraverso di me, potesse sfuggire alla ripetizione del suo “destino”. Ma quel che mi stupì di più, fu che in due anni non fosse venuto fuori assolutamente nulla di questo che mi sembrava il nodo della sua esistenza. Aveva sì portato in gruppo alcuni problemi, ma secondari e poco drammatici. Aveva perfettamente celato nel gruppo il suo sintomo. Ne rimasi esterrefatto. Mi rifiutai di corteggiarla, proprio quando lei si aspettava, alla fine della cena, il fatidico bacio...
Un caso del genere potrebbe essere una condanna senza appello della gruppo-analisi. Non so se B., avendo avuto sedute individuali con questa ragazza, avesse capito quale fosse il problema di fondo di costei, ammesso che quello che era emersa durante quella cena fosse il solo. È un fatto però che nel corso degli anni non fece nulla per farlo emergere in gruppo. In un’ora e mezzo di conversazione a tavola avevo capito di costei quello che non avevo capito in due anni.
Ho parlato anche del “fustigato”. In cinque anni ne ho conosciuto solo due esemplari. Si tratta di una fustigazione quasi rituale di alcuni nuovi arrivati, un po’ come certi culti di iniziazione, tipo festa delle matricole o il nonnismo del servizio militare. Ma non tutti i nuovi passavano per i “nonni”, solo alcuni che sembravano non in sintonia col gruppo, cha parevano essere estranei a quello che chiamerei lo “spirito di corpo” del gruppo. Uno era un giovane psichiatra, ma molto disinvolto e, si capiva, poco stimato dai suoi colleghi. Fu preso di mira da quasi tutti nel gruppo (ma non da me) in quanto appariva, diremmo in gergo, una personalità narcisistica. Interromperlo e dirgli che “resisteva” era diventato abituale. Una volta si lamentava del fatto che non gli si dava spazio nel gruppo, e un membro intervenne dicendogli “Ma non capisci che l’importante è che quel che si dice qui trovi spazio in te?” Un intervento che strappò l’applauso generale. Appunto, egli sembrava volersi infiltrare nel gruppo senza condividerne quella che chiamerei la stilistica generale del gruppo analitico.
Un momento particolarmente drammatico dell’analisi, per me, fu una volta in cui la mia compagna di allora pagò lei il mese di analisi. Avevamo una contabilità complicata tra noi, di dare e avere, per cui quella volta lei firmò l’assegno della mia quota, assegno che portai a B. in seduta. La seduta successiva B. disse in pubblico, quasi sbeffeggiandomi, che non poteva accettare che la mia compagna pagasse per me. E che se volevo continuare il gruppo, avrei dovuto portargli nel corso della settimana un assegno firmato da me, o i contanti. Trovai la cosa uno schiaffo, una forca caudina; non il fatto di dargli un altro assegno da me firmato – cosa che capivo perfettamente – ma l’umiliazione di dover andare una volta in più allo studio solo per pagare. Comunque seguii l’ingiunzione: nel corso della settimana consegnai la quota nella portineria dell’analista.
Nella seduta successiva però protestai, e dissi che mi ero sentito come un bambino che ha avuto delle bacchettate sulle dita. Ero tentato in effetti di non portargli quella busta con la quota prima della seduta successiva. Ma non volevo impegnarmi in un braccio di ferro, avendone fatti troppi nella mia vita con “chi ha potere”. Cercavo di fare “il buon paziente” che obbedisce alle prescrizioni dell’analista. Ma credo che qualcosa si fosse spezzato allora tra B. e me. Capii molto dopo che era in corso una sorta di lotta tra B. e me all’interno del gruppo, e che per questa ragione l’analista aveva voluto piegarmi davanti a tutti, per rendere chiaro che le regole le dettava lui. Se c’era da parte mia una lotta per la supremazia con l’analista, questa era per me del tutto inconsapevole. O forse no, perché dopo tutto volevo nel fondo dimostrare che il gruppo non funzionava con me. Che per me ci voleva ben altro che un gruppo di bravi ragazzi. Cosa che alla fine dimostrai.
Un momento drammatico fu in una seduta in cui due persone, un medico psichiatra e una ragazza, annunciarono di voler terminare il gruppo. B. si congratulò con lo psichiatra, che evidentemente gli era simpatico, per il percorso fatto, e gli chiese il suo indirizzo e numero telefonico. Poco dopo la ragazza fece notare con la voce rotta dal pianto che B. non le aveva chiesto invece nulla. B. si scusò, le fece scrivere indirizzo e numero, e tentò una self-disclosure, un’auto-interpretazione dell’atto mancato: disse che era addolorato di perdere una “figlia”, e che questo spiegava il suo atto mancato, o gaffe che siua. Un’auto-interpretazione che non convinse nessuno di noi. La ragazza scrisse il suo indirizzo e numero telefonico singhiozzando, nel silenzio imbarazzato e compassionevole di tutti. Da allora ho capito che, quando si commette una gaffe con un paziente – prima o poi avviene – la cosa peggiore è auto-interpretarsi analiticamente davanti ai pazienti.
La mia esperienza nel gruppo finì non per mia scelta, ma di B. Nel quinto anno attraversai un periodo molto difficile della mia vita, e approfittai del gruppo per parlarne a lungo. Ero entrato in una pesante crisi depressiva. B. ebbe l’impressione che io monopolizzassi il gruppo, per cui mi disse che era meglio che io togliessi il disturbo, e che proseguissi un’analisi individuale. Oggi ho capito che lui stesso si proponeva come mio analista per un’analisi individuale, ma non raccolsi il suggerimento tacito. Fui cacciato dal gruppo?
Era vero che occupavo uno spazio eccessivo – era il mio modo, credo, di reclamare un’analisi individuale che il gruppo non poteva darmi. Ma era anche vero che in questo mio straripare c’era la complicità del gruppo, e, direi, di B. stesso. Il mio debordare poteva essere bloccato facilmente, come si faceva con il “fustigato”. Il gruppo poteva interrompermi in qualsiasi momento. C’era una connivenza del gruppo, e dell’analista, nel darmi uno spazio eccessivo, e ancora mi chiedo perché. Forse perché portavo, nel fondo, una sofferenza autentica, non filtrata dalle “buone maniere” che spesso, troppo spesso, lustrano la dinamica di gruppo. Sofferenza che proseguì anche dopo la fine del gruppo per me, attraversai due anni molto critici, in cui anche la mia creatività professionale sembrava tarpata. Insomma, posso dire che uscii malconcio dal gruppo. Ma chi sa?
Devo dire che sono stato un analizzante difficile in analisi individuale non meno che in analisi di gruppo. La differenza però è che nessun analista individuale mi ha “cacciato”, dicendo magari che per me occorreva un’analisi di gruppo… Credo che, alla fonte, ci fosse una mia difficoltà, che anche l’analisi di gruppo ha evidenziato, ad appartenere a qualsiasi gruppo o società. Ho fatto parte di varie società, alcune le ho fondate io stesso, ma, nel fondo, sono rimasto un solitario. Non riesco insomma a far sventolare la bandiera di un ‘partito’, sia esso politico, psicoanalitico, filosofico, professionale… Dopo tutto, quel tipo di gruppo-analisi esigeva un’adesione allo “spirito del gruppo”: io mi sono accomodato a questo spirito per anni, ma in una modalità “come se”. Appartenevo e non appartenevo, come un antropologo che va a vivere in una società esotica. Mi sono accorto del fatto che, confrontato a certi problemi fondamentali, non so accontentarmi di un “pensiero di gruppo”, non so essere militante. Il mio transfert positivo non era finto (dopo tutto, volevo bene ai miei compagni di gruppo) ma non era nemmeno completo: era un accontentarmi di quel che passava il convento. Facevo buon viso al gioco, ma, in fondo, il gioco non era il mio.
La mia cacciata dal gruppo – un’ammissione di fallimento della gruppo-analisi nei miei confronti – non equivalse a una rottura né con B. né con la sua scuola. Ci frequentammo per anni, divenimmo quasi amici, e forse B. mi considerava un suo allievo. Interpreto quindi la mia espulsione dal gruppo come il segno del fatto che B. realizzò che la gruppo-analisi non era adatta per me.
Dopo la fine della mia partecipazione al gruppo, B. cominciò a parlarmi anche di suoi intimi problemi familiari, insomma, si proponeva chiaramente come mio amico. Io ho reagito a questo proporsi con una certa reticenza, forse perché il suo indirizzo psicoanalitico non era il mio, non c’era una consonanza teorica. Una sera, nel corso di una lunga telefonata, mi confidò di aver raggiunto finalmente (doveva avere allora oltre 60 anni) un certo equilibrio e serenità. Io reagii dicendo che invece “mi tengo a stento in piedi, con dei punteruoli”. Era un lapsus, e B. me lo segnalò: “Appunto, con dei punteruoli…” Volevo dire “puntelli”. Questa notazione mi fulminò. Non ricordo quasi nulla delle interpretazioni che B. mi fece nel corso di cinque anni, ma questa – ben dopo la fine dell’analisi – me la ricordo invece benissimo. Avevo finalmente capito: mi sostenevo psichicamente non con puntelli, ma con punteruoli. Ovvero esibivo nei confronti degli altri un atteggiamento spigoloso, acuminato, critico, spesso aggressivo… Era questo ”il mio sintomo” allora. E su quello poi ho lavorato. In seguito, cominciai a trovare sempre più moleste le persone che polemizzano sempre, che dissentono da te in ogni punto e ti contrappongono quel che dicono loro, anche se spesso è una semplice parafrasi di quel che hai detto tu. Capii che i puntelli del loro essere sono questi punteruoli: “Ti contesto, dunque sono”.
All’epoca interpretai il fatto che avessi detto ”mi reggo su punteruoli” come una critica velata a B.: “non hai saputo guarirmi, sto male come prima!” In effetti la cosa è molto probabile. Gli analisti non lo confessano, ma quando capita loro di incontrare ex-analizzandi valutano molto attentamente quel che sono diventati. Se l’ex-paziente sembra avere una vita serena e realizzata, ne sono fieri. Si capiva che B. desiderava per me quella “serenità” che vantava per sé stesso, e io invece gli ribattevo con “punteruoli”. Si sentì rimproverato. E mi rispose con una precisazione che percepii come aggressiva. Ma era quella giusta.
È interessante però che io abbia scoperto il sintomo di quella ragazza del gruppo in un incontro extra-analitico, e che abbia scoperto il mio, all’epoca, fuori del setting analitico, per telefono. È come se nel rituale analitico – non solo di gruppo – si annidasse un rischio: questo setting tende a velare una verità che invece può venire fuori solo nella spontaneità dell’incontro senza alcuna pretesa di ascolto analitico. Paradossalmente, è quando non si fa più l’analista, che emerge l’inconscio. Il che ha l’aria di un paradosso. Perché forse l’intero apparato analitico serve proprio a questo: permetterti un’esperienza extra-analitica che ti apra gli occhi.
Tutto quello che ho detto non deve far pensare che io consideri quell’esperienza fallimentare o irrilevante. Dopo tutto, mi sono anche divertito in gruppo. Certamente quegli anni di gruppo mi hanno insegnato qualcosa, direi soprattutto, lapalissianamente, saper stare in gruppo… Capire quando si deve parlare e quando si deve tacere, insomma una certa etichetta interpersonale che trascuravo nell’irruenza di una gioventù impaziente. In quei cinque anni si compirono alcune svolte importanti, positive, nella mia vita, e credo che il gruppo non sia stato estraneo a questo. Ma non credo che il gruppo abbia veramente scalfito i miei problemi fondamentali. Mi erano restati, malgrado tutto, i punteruoli.
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