Quando Rossana, qualche anno fa, mi chiese di fare un’analisi, esercitava già come psicoanalista. Questa donna di cinquant’anni aveva l’aria allegra e graziosa, capelli corti a caschetto, e sostanzialmente non si lamentava di nulla di serio. Era felicemente coniugata con un uomo alquanto facoltoso (anch’egli di nome Sergio), il suo secondo coniuge, buoni rapporti con l’ex-marito, era soddisfatta dei suoi due figli ormai grandi. Abitava in una città diversa dalla mia, dove aveva fatto un’analisi con una dottoressa che era ed è anche la capo-scuola dell’istituzione psicoanalitica di cui era ed è parte. Ma diceva di voler fare un’analisi con una persona estranea, fuori del proprio ambiente sociale e professionale.
Il primo anno mi chiedevo perché Rossana intraprendesse un’analisi. Il suo solo problema era un risentimento crescente nei confronti della sua analista “capo”, da cui si sentiva talvolta discriminata. E lei voleva essere “la preferita”. Un’analisi può essere didattica fin quanto si vuole – la mia non era didattica, perché non so nemmeno che cosa significhi un’analisi didattica, ogni analisi fatta bene è didattica – essa è possibile solo in quanto da qualche parte c’è sintomo, un’ego-distonia, una sofferenza, qualcosa che si vuole ma che non si può avere o fare. Al contrario, il successo professionale di Rossana non faceva che aumentare – cosa di cui lei attribuiva il merito all’analisi – fino al punto da diventare benestante, anche più del marito. Aveva un supervisore anch’egli di un’altra città, e si chiamava anch’egli Sergio…
C’era comunque un neo nella sua vita. Era la prima di due figlie. Tutta la sua infanzia e adolescenza era stata dominata dalla figura di un padre che lei venerava, che l’aveva avviata al gusto per la letteratura e per la cultura. Rispetto a questo padre splendente (ma di cui più tardi vedrà il lato oscuro: beveva, e litigava spesso con la moglie) di cui si descriveva come la donna preferita, sua madre veniva invece descritta come una mediocre dipendente e lagnosa, apparentemente gelosa del fiorire giovanile e sessuale della figlia. (Per tutta la vita, Rossana avrà splendidi rapporti con gli uomini, anche col primo marito, rapporti difficili con le donne, soprattutto con quelle majores.). Quanto alla sorella, Bianca, descrive il rapporto con lei come inesistente, senza odio e senza affetto. A differenza di lei, Bianca non va bene a scuola, non intraprende una vita intellettuale, non si sposa ma ha un figlio da un rapporto che si arena, diventa alcolista, fa lavori umili… Poi frequenta l’Anonima Alcolisti, si riprende… Quando Rossana comincia l’analisi, la madre è viva ma malata, lei deve occuparsene; Bianca invece sparisce, non si fa vedere né dalla madre né dalla sorella. Quando la madre muore (e Rossana tira un sospiro…), la sorella – che vive in un‘altra città – non viene nemmeno ai funerali, non chiede la sua parte di eredità, non va a visitare la tomba della madre come del resto nemmeno quella del padre, non fa sapere nulla di sé. Le sole volte che si fa viva, chiede a Rossana aiuti finanziari un po’ bislacchi, che lei di solito rifiuta.
Nel corso dell’analisi con me, Rossana viene poi a sapere che Bianca è diventata lei stessa psicologa, si occupa di un gruppo di alcolisti, e sembra molto apprezzata dall’istituzione per cui lavora. L’immagine degradata della sorella comincia a modificarsi, a poco a poco le due sorelle riprendono contatto, si riconoscono come “colleghe”. Rossana comincia a interessarsi all’istituzione della sorella, che le sembra a questo punto migliore della propria. Dopo decenni di non-rapporto, le due sorelle si parlano, si vedono. Anche se Bianca non chiede la sua parte di eredità, Rossana le fa avere la metà che le spetta.
Rossana anni prima scriveva e pubblicava poesie. Aveva avuto anche un successo locale, con recitals applauditi. Le sue poesie sono quasi tutte malinconiche, alcune disperate, attraversate da un senso struggente di una perdita e di una mancanza, qualcosa che ricorda la saudade dei portoghesi, la nostalgia straziante per qualcosa che non si è avuto, e che quindi non si è nemmeno perso. Questa produzione contrasta vistosamente con la personalità di Rossana, quella di una donna “vincente”, soddisfatta, intraprendente, apprezzata da uomini importanti, ottimista…
In una seduta porta un sogno angoscioso: nuota in un fiume profondo, le acque stanno per soverchiarla, sembra affondare, lotta strenuamente per ritrovare l’aria… Poi dice che, nel trasloco che sta effettuando, ha ritrovato alcuni vecchi album fotografici che il padre o la madre avevano composto, e di cui si era dimenticata: resta sconcertata perché in nessuna foto appare sua sorella! Solo il padre, bellissimo, la madre, lei stessa, altri parenti… “Quindi Bianca non contava nulla per i miei genitori! Eppure era una bella ragazza…”
Cambia repentinamente argomento, parla di una serata in cui aveva letto le sue poesie. Un amico si era congratulato con lei, e le aveva detto: “Ma chi è questa donna triste, disperata, che parla in queste poesie? Tu sei una donna d’affari, volitiva, tu splendi… Chi è costei?” Rossana se lo chiede anche lei. D’un colpo mi sembra evidente, e le dico: “Forse la donna che parla attraverso le tue poesie è Bianca”.
Il volto di Rossana cambia colore… si sbianca. È evidentemente colpita, commossa, sta per piangere. Dice che vuole tagliare la seduta lì, e glielo concedo.
Nelle sedute successive elaborerà lo shock. Sentiva che era vero, anche se impensabile: quando scriveva poesie, non era lei, era la sorella… Una sorella rimossa dalla scena familiare, che non aveva mai goduto dell’ammirazione paterna tutta riservata alla figlia maggiore, aveva vissuto all’ombra di una sorella di successo, ricca… Era il pianto della sorella trascurata. E da quando aveva cominciato l’analisi, Rossana aveva smesso di scrivere poesie: a questo punto, la sorella reale poteva parlare lei, con la propria voce. Non aveva più bisogno del medium poetico della sorella.
La mia interpretazione ha colto qualcosa dell’inconscio di Rossana? Eppure Rossana non portava il rapporto mancante con la sorella come un proprio sintomo. Anche se cita un mio scritto, in cui dicevo che la fine dell’analisi è anche, sempre, una riconciliazione con i propri genitori e familiari… Se non una riconciliazione in vita, una riconciliazione post mortem. Si finisce di pensare e di dire “se sono così, è colpa di mio padre, di mia madre, di mia sorella…” Ma qui sembrava essere accaduto il contrario: è un altro – la sorella – che si riconcilia col soggetto. Il fatto che qualcuno si riconcili con noi, che smetta di rimproverarci, che non abbia più rancore nei nostri confronti, è una nostra vittoria? È qualcosa di cui noi stessi dobbiamo sentirci, in questo caso positivamente, responsabili? Induciamo, in modo a noi stessi ignoto, il fatto che un altro voglia riconciliarsi con noi?
Lacan diceva che il sintomo nevrotico e psicotico, gli atti mancati, i sogni, le battute di spirito sono formazioni dell’inconscio. Ma forse bisogna aggiungere anche le opere poetiche in senso lato. Esse non fanno ridere come i motti di spirito, ma danno un certo godimento agli altri, oltre che a sé stessi. Le poesie di Rossana erano dunque formazioni del proprio inconscio, ma il punto è che qui l’inconscio sembra essere un altro, la sorella. Certamente Lacan ha detto “l’inconscio è il discorso dell’Altro”, ma l’Altro non è qualcuno o qualcuna, anche se sempre qualcuno o qualcuna ne prende il posto. Bianca aveva preso il posto dell’inconscio di Rossana, era quel rimosso di cui Rossana non ha mai usufruito – da qui la mia impressione di un inconscio povero, elementare – ma che ha dovuto prendere come protesi della creazione, per scrivere, per dare alla propria vita una tristezza che le mancava. La sorella rimossa dalla famiglia è venuta a occupare il punto di mira di ciò che Rossana non aveva ma di cui aveva bisogno come linfa, per non finire affogata nell’acqua fluttuante della vita, come nel suo sogno.
Non è quindi che Rossana abbia preso in prestito l’inconscio dalla sorella: ha preso la rimozione della sorella dalla rete simbolica familiare come il supporto per darsi un inconscio di ripiego per dir così, un inconscio fantasma (come si dice arto fantasma), un inconscio che poteva darle quel tanto di sofferenza di cui aveva bisogno per non sprofondare nelle sabbie del successo. E il successo era, allora, essere amata da uomini ammirevoli, dai “Sergio”. Quella sofferenza altrui che le ha permesso di sviluppare una vocazione psicoanalitica, ovvero l’accogliere la sofferenza degli altri.
Non a caso, credo, Rossana ha smesso di scrivere poesie da quando ha cominciato ad esercitare sul serio come analista. Quella rimozione che prendeva dalla sorella, da allora la prende dai propri analizzanti. Quelle rimozioni che lei cura sono il proprio alimento creativo: prima della propria produzione poetica, poi della propria professione analitica. Un alimento a scapito degli altri? No, perché come in una misteriosa telepatia, la sua analisi con me deve aver influito anche sulla sorella, che nel frattempo si è rassodata, ha smesso di essere rifiuto sociale. E Rossana è convinta di essere utile a quelli che non hanno voce.
Lacan ha parlato di estimità, fusione di intimità ed esteriorità: una propria interiorità che però si trova nell’Altro. Rossana aveva messo la propria intimità nella sorella in quanto Altro, per vivere un’esteriorità di successo. Ma non è quello che accade con tanti altri scrittori e artisti? Non trovano nel mondo esterno, magari lontano da loro, in un altro paese o continente, quel rimosso che non trovano in sé stessi, ma di cui hanno bisogno?
Da qui il bisogno di molti, paradossalmente, di prendere contatto con la sofferenza del mondo. Non danno spazio alla propria, ma la sofferenza degli altri li fa respirare, come una flebo di rimozione di cui non possono fare a meno.
Penso a Carlo Levi, ebreo torinese colto e benestante che viene mandato dal fascismo al confino in un paesino della Lucania nel 1935. Dalla propria esperienza con la miseria e la marginalità di quel mondo contadino trarrà la sua unica opera letteraria importante, Cristo si è fermato a Eboli. Là si farà seppellire. Certo egli era più pittore che scrittore, ma è riuscito a trovare le parole per dire quel mondo che si sentiva tagliato fuori dall’umanità, e così è andato molto fuori da sé stesso, in un mondo per lui del tutto alieno, e in questo altrove ha trovato il modo di esprimere un inconscio che forse gli faceva difetto. E penso a Pier Paolo Pasolini, anch’egli rampollo di una famiglia borghese, il quale trova la propria ispirazione – il proprio inconscio – nel mondo dei più marginali, degli abitanti delle borgate romane più disastrate, tra i ragazzi di vita… E potremmo moltiplicare gli esempi: i contadini di Van Gogh, i maori tahitiani di Gauguin, i personaggi finiti sul lastrico di William Faulkner, i contadini migranti e i ritardati mentali di John Steinbeck, o puttane e girovaghi del primo Fellini… E’ la compassione o il senso di giustizia che attira verso questo mondo marginale? Compassione e bisogno di giustizia sono secondo me la scia luminosa di un bisogno più fondamentale: dover dare spazio nella vita al dolore.
È come se certi soggetti dovessero andare non solo il più lontano possibile da sé, ma in un mondo socialmente diseredato, per trovare la linfa di un’intimità che così si esprime. Da qui, il desiderio segreto di molti artisti, molti scrittori, e anche molti militanti di ONG o altro, che questo mondo indigente, dimenticato… in qualche modo sopravviva.
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