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Un lontano ricordo di “Giggi” Proietti

3 Nov 20

Di Sergio-Mellina

C’erano 8 anni di differenza, fra noi. Nel senso che io ero già passato per la parte più cattiva della seconda guerra mondiale, mentre lui, quando raggiungeva la materna, in Europa stavano festeggiando la fine, il 25 aprile 1945.  

Per il liceo, lui era stato all’”Augusto”, mentre io avevo fatto il “Tasso”. Lui aveva lasciato perdere “Legge”. Io, tallonato dai genitori, procedevo senza entusiasmo per la via della medicina ma senza neppure eccessiva difficoltà. Poca comunque, in entrambi, la passione per lUniversità, molta di più invece, per il teatro. Ogni forma di esibizione teatrale, solo che fra i due “non c’era proprio partita”, come se dice a Roma. Non arrivo nemmeno a pensare che tu ti possa ricordare di me, attore radiofonico e doppiatore in incognito per nascondere il mio vero mestiere che era quello di “farmi” psichiatra, come diceva Ugo Callieri, che qualcosa sapeva, ma io ti ricordo benissimo e ti penso! Tanto mi basta. 

Gigi era un gigante e si vedeva subito. Acuto, intelligente, ben messo con le corde vocali, con la parola era capace di fare tutto, un vero acrobata della parola. In più sapeva cantare, suonare strumenti, raccontare barzellette, intrattenere il pubblico.  

Viene subito in mente “il Mattatore”, ma non è che, ai miei tempi, tra Vittorio Gassman e “Giggi” Proietti ci fosse uno che desse ombra all’altro. Vittorio veniva dall’Accademia “Silvio D’Amico” (una “targa” statale), io dall’Accademia Pietro Sharoff (una “targa” privata), “Giggi” aveva imparato strada facendo.  

Non si sapeva ancora se sarebbe divenuto “ape regina”, ma nel variegato bosco dell’arte più raffinata, nettare, melata e polline lo suggeva dai fiori più rigogliosi. La grande differenza era che Vittorio non sapeva cantare, ma avrebbe dato un braccio per farlo, anche a un quinto di Nino Manfredi, compagno d’accademia. Forse il più stonato di tutti, in quella covata eccezionale era Paolo Panelli, marito di Bice Valori.

Mentre  ancora frequentava “Legge” alla “Sapienza”, “Giggi” era andato a curiosare al Centro Teatro Ateneo e ci si era pure iscritto casualmente. Anch’io frequentavo il Centro teatrale dell’Ateneo ma per due motivi un po’ diversi. Nelle pause delle guardie alla “Neuro” (confinante internamente col Teatro) ci andavo a “giocare a boccette” con il portantino Spartaco Mazzanti, noto per la “mordacchia” retta tra i denti del paziente zero, al primo elettroshock di Cerletti e Bini, ma anche un po’ di Ferdinando Accornero e Mario Felici. Il secondo, più importante, era che Pietro Sharoff per un breve periodo (1956) vi trasferì il “Teatro d’Arte di Mosca” e pure il “Malyj dramatičeskij Teatr”, ovvero il Teatr Evropy”, di San Pietroburgo, divenuto, dopo Stalingrado, “Teatro Dodin”, intitolato a Lev Abramovič Dodin. Sharoff insegnava e allestiva spettacoli. Ricordo un indimenticabile allestimento de L’albergo dei poveri di Maxim Gorky portato al successo da Stanislavskij.

Proietti mi pare ancora di vederlo coi capelli arruffati, neri, accomodante, sorridente: «Ecchime!». Lo ricordo al doppiaggio, sempre in ritardo ma sempre pazientemente atteso dai direttori di regia, tutti! Renato Cominetti, Fede Arnaud, Carlo Baccarini, Isa Barzizza, Olinto Cristina, Rosalba Oletta, Carlo D'Angelo, Pino Ferrara, Corrado Gaipa, Renato Izzo, Franco Latini (cantante anche lui), Adriano Micantoni, Giorgio Piazza, Renzo Palmer, Renato Turi e molti altri di un passato remoto,  per quello che possono valere le mie testimonianze dai contorni sbiaditi, ma vivaci. Segno che era gradevole e apprezzato. Insomma uno che si ricorda volentieri e ci mancherà molto.

Aveva una calma serafica, si diceva lo spleen molto romano di Proietti, «‘na specie de fiacca che zampillava energia». Quando compariva non potevi fare a meno di non interagire. Tutto diveniva leggero, ammiccante, allusivo, profondamente romanesco.

Anche se tragico come quando diceva Er fattaccio:

«Ah bojaccia!!!… infamone scellerato' / m'hai ammazzato mamma!!! / E me buttai come 'na 'jena sopra a mi' fratello: / j'agguantai la mano … e je strappai er cortello… / Poi viddi tutto rosso … e… menai… menai!!!… ». 

Oppure triste, malinconicamente epilogante, come quando di G.G.B. (Giuseppe Gioacchino Belli) declamava «Er giorno der giudizzio»:

Quattro angioloni co le tromme in bocca 

Se metteranno uno pe cantone 

A ssonà: poi co ttanto de vocione 

Cominceranno a dì: "Fora a chi ttocca" 

 

Allora vierà su una filastrocca 

De schertri da la terra a ppecorone, 

Pe ripijà ffigura de perzone 

Come purcini attorno de la biocca. 

 

E sta biocca sarà Dio benedetto, 

Che ne farà du' parte, bianca, e nera: 

Una pe annà in cantina, una sur tetto. 

 

All'urtimo uscirà 'na sonajera 

D'angioli, e, come si ss'annassi a letto, 

Smorzeranno li lumi, e bona sera.» 

 

Traduzione in lingua 

«Il giorno del giudizio» 

 

Quattro grandi angeli, con le trombe in bocca, 

Si disporranno ai quattro angoli dell'universo 

A suonare: poi con una gran vociona 

Cominceranno a gridare: "Sotto a chi tocca". 

 

Allora comincerà a venire su una lunga fila 

Di scheletri da sottoterra, camminando carponi 

Per riprendere la forma umana 

Raggruppandosi come fanno i pulcini con la chioccia 

 

E questa chioccia sarà Dio benedetto 

Che li dividerà in due parti, buoni e cattivi 

Questi da sprofondare all'inferno e quelli da mandare in Paradiso 

 

Alla fine verrà una schiera 

D'angeli e, come quando si va a dormire, 

Spegneranno tutte le luci e buona notte!»

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