Percorso: Home 9 Clinica 9 L’inquietante, 1919 (traduzione di Antonello Sciacchitano)

L’inquietante, 1919 (traduzione di Antonello Sciacchitano)

13 Feb 21

Di Sigmund-Freud

Das Unheimliche in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. XII, p. 229. (Traduzione di Antonello Sciacchitano).

1.

Pur non ristretta a dottrina del bello ma estesa a descrivere le qualità del sentire, solo di rado lo psicanalista si sente spinto a far ricerca in estetica. Lavora su altri strati della vita psichica; ha poco a che fare con moti dell’animo inibiti alla meta, sfumati e dipendenti da numerose costellazioni concomitanti, perlopiù materia estetica. Tuttavia, di tanto in tanto capita che lo psicanalista debba interessarsi a un certo settore dell’estetica; allora si tratta di qualcosa di lontano, di solito trascurato dalla letteratura specialistica.

È il caso dell’“inquietante”. Non c’è dubbio che appartenga a ciò che suscita spavento, angoscia e orrore, ed è altrettanto certo che non sempre il termine è usato in senso ben definito, in genere coincidente con l’angoscioso. È tuttavia lecito aspettarsi che, a giustificare l’impiego di un termine particolare per il concetto, ci sia un particolare nucleo [semantico]. Piacerebbe sapere quale sia il nucleo comune che consente appunto di differenziare l’“inquietante” dall’angoscioso.

In proposito, si trova poco o niente nelle dettagliate esposizioni estetiche, che preferiscono occuparsi del bello, del sublime, dell’attraente, ossia dei moti dell’animo positivi e delle condizioni e degli oggetti che danno loro vita, piuttosto che dei sentimenti contrari, repellenti e penosi. In letteratura medico-psicologica conosco solo il saggio di E. Jentsch, ricco di contenuti ma non esauriente.1 Peraltro devo confessare che, per motivi facili da immaginare, relativi ai tempi attuali, non ho consultato a fondo la letteratura, specie la straniera, sul tema del mio piccolo contributo, che pertanto si presenta al lettore senza pretese di priorità.

Jentsch ha tutte le ragioni per sottolineare che nello studio dell’inquietante la maggiore difficoltà sia imbattersi in sensibilità tanto diverse per quel modo di sentire in uomini diversi. Anzi, l’autore di questa nuova impresa deve lamentare una particolare sordità in proposito, quando ci vorrebbe invece un notevole tatto. Già da molto tempo non ha vissuto né conosciuto nulla che gli abbia dato l’impressione d’inquietante; perciò deve anzitutto immedesimarsi nel sentimento, rievocandone in sé stesso la possibilità. Comunque, difficoltà di questo tipo si fanno potentemente sentire anche in molti altri campi dell’estetica; quindi non dobbiamo rinunciare alla speranza di trovare casi in cui il carattere in questione sia riconosciuto dai più senza contraddizioni.

Ora si possono prendere due strade: o cercare il significato depositato nel termine “inquietante” dall’evoluzione della lingua ha o raccogliere il senso dell’inquietante in persone, cose, impressioni sensoriali, esperienze e situazioni, desumendo il carattere nascosto da ciò che li accomuna. Voglio subito chiarire che le due strade portano allo stesso risultato: l’inquietante è un genere di spaventoso, risalente a ciò che da tempo ci è ben noto e familiare. Il seguito chiarirà come e in quali circostanze il consueto e il familiare possa diventare inquietante e spaventoso. Faccio ancora notare che in realtà questa ricerca ha preso il via da una serie di casi singoli e solo in un secondo tempo ha trovato conferma nelle espressioni dell’uso linguistico. La mia esposizione seguirà però il cammino inverso.

La parola tedesca “unheimlich”, inquietante, è l’evidente antitesi di “heimlich”, segreto, nascosto, furtivo [da “Heim”, casa], “heimisch”, locale, nativo, indigeno, “vertraut”, familiare, abituale, consueto; è ovvio dedurre che, se qualcosa spaventa, è proprio perché non è né noto né familiare. Naturalmente, però, la relazione non s’inverte: non tutto ciò che è nuovo e non familiare è spaventoso. Si può solo dire che ciò che è nuovo diventa facilmente spaventoso e inquietante; alcune cose nuove sono spaventose, ma certo non tutte. Al nuovo e al non familiare va prima aggiunto qualcosa che lo renda inquietante.

Insomma, Jentsch è rimasto fermo alla relazione tra l’inquietante e il nuovo, il non familiare. Trova nell’incertezza intellettuale la condizione essenziale che realizza il senso dell’inquietante. In senso proprio l’inquietante sarebbe sempre qualcosa in cui, per così dire, non ci si raccapezza. Meglio ci si orienta nell’ambiente, meno facilmente cose o eventi danno l’impressione d’inquietudine [Unheimlichkeit].

È facile concludere che tale segno distintivo non è esauriente; cercheremo di andar oltre l’equazione inquietante = non familiare. In primo luogo ci rivolgiamo ad altre lingue. Ma i dizionari consultati non ci dicono niente di nuovo, forse semplicemente perché noi stessi parliamo un’altra lingua. Anzi, abbiamo l'impressione che in molte lingue manchi la parola per questa particolare sfumatura dello spaventoso. Devo alla cortesia del dottor Theodor Reik gli estratti seguenti:

latino (di K.E. Georges, 1898): un luogo “unheimlich”, locus suspectus; in un’ora “unheimlich” della notte, intempesta nocte.

greco (dizionari di Rost e di Schenkl): xenos, straniero, estraneo.

inglese (dizionari di Lucas, Bellow, Flügel, Muret-Sanders): uncomfortable, uneasy, gloomy, dismal, uncanny, ghastly; detto di una casa, haunted; detto di un uomo, a repulsive fellow.

francese (Sachs-Villatte): inquiétant, sinistre, lugubre, mal à son aise.

spagnolo (Tollhausen, 1889): suspechoso, de mal aguëro, lugubre, siniestro.

Italiano e portoghese sembrano accontentarsi di parole che definiremmo circonlocuzioni. In arabo ed ebraico inquietante coincide con demoniaco, orrendo.

Torniamo allora alla lingua tedesca.

Nel vocabolario della lingua tedesca di Daniel Sanders (1860) alla parola “heimlich” troviamo le seguenti indicazioni, che qui trascrivo integralmente e nelle quali metterò in rilievo questo o quel passo ponendolo in corsivo:2

Heimlich, aggettivo (sost. f. Heimlichkeit, plur. Heimlichkeiten):3

1. Anche heimelich, heimelig, appartenente alla casa, non straniero, familiare, domestico, fidato e accogliente, che rammenta il focolare ecc.

a) (antiquato) Appartenente alla casa, alla famiglia, o considerato tale (cfr. lat. familiaris, familiare). Die Heimlichen, coloro che vivono nella stessa casa; Der heimliche Rat (il consiglio familiare, Genesi, 41, 45 Samuele, 23, 23; Cronache, 12, 25; Sapienza, 8, 4), per cui l’espressione consueta è Geheimer Rat (consiglio segreto).

b) Di animali: domestico, che si accosta fiducioso agli uomini, contrario di selvatico, per esempio: “Animali né selvatici né heimlich” ecc. (Eppendorf 88). “Animali selvatici … benché li si allevi heimlich, avvezzandoli alla gente” (92). “Questi animaletti, allevati fin da cuccioli tra gli uomini, diventano completamente heimlich, amichevoli” ecc. (Stumpf 608a). E ancora: “Così heimlich è l’agnello che mangia dalla mia mano” (Hölty). “La cicogna resta pur sempre un bell’uccello heimelich” (nesso con domestico).

c) Fidato, intimo, che rammenta il focolare, il senso di benessere del quieto appagamento ecc., senso di agio, di tranquillità e di sicura protezione, come quello che suscita la casa confortevole, raccolta nel suo recinto (cfr. Geheuer, sinistro). “Ti senti ancora heimlich nel paese in cui gli stranieri sradicano i tuoi boschi?” (Alexis H. 1, 1, 289). “Per lei non c’era molto heimlich con lui.” (Brentano Wehm. 92). “Per un alto sentiero heimlich, ombroso … lungo il ruscello che mormorava, frusciava e gorgogliava nel bosco.” (Forster B. 1, 417). “Distruggere la Heimlichkeit del paese natio” (Gervinus Lit. 5, 375). “Non ho trovato facilmente un posticino così appartato e heimlich” (G. 14, 14). “Lo immaginavamo così comodo, così confacente, così accogliente e heimlich”. (15, 9). “In silente Heimlichkeit, circondato da strette barriere” (Haller). “Una donna di casa meticolosa, che con pochissimo sa come creare una piacevole Heimlichkeit [intimità domestica]” (Hartmann Unst. 1, 88). “Tanto più heimlich gli riusciva ora l’uomo che poco prima gli era così estraneo” (Kerner 590). “I possidenti protestanti non si sentono heimlich tra i loro sudditi cattolici” (Kohl Irl. 1, 172). “Quando ogni cosa diventa heimlich e sommessa, e solo la quiete serale origlia alla tua cella” (Tiedge 2, 39). “Quieto, ridente e heimlich, non potevano desiderare posto migliore per riposare” (W. 11, 144). "Non si sentiva affatto heimlich [a casa sua] (27,170). – Ancora [nei composti]: “Il posto era cosi tranquillo, così solitario, così schattenheimlich [con ombre così familiari]” (Scherr Pilgrim 1, 170). “Le onde fluivano e rifluivano, sognanti e wiegenliedheimlich [cullanti in una ninnananna familiare]” (Körner Sch. 3, 320). – Spesso scritto da scrittori svizzeri e svevi con tre sillabe, heimelig. “Come heimelig fu di nuovo per Ivo la sera quando fu a casa” (Auerbach D. 1, 249). “In casa fu per me di nuovo heimelig” (4, 307). “La calda Stube, il pomeriggio heimelig” (Gotthelf Sch. 127, 148). “Questo è veramente heimelig, quando l’uomo sente con il cuore quanto sia poca cosa e quanto grande sia il Signore” (147). “Via via si diventò sempre più intimi e heimelig l’un l’altro” (U. 1, 247). “L’accogliente Heimeligkeit” (380, 2, 86). “In nessun luogo mi troverò più heimelich di qui” (320, Pestalozzi 4, 240). “Ciò che viene da lontano … non vive del tutto heimelig (a casa sua in buon vicinato) tra la gente”. “La capanna dove un tempo era stato spesso seduto così heimelig, così gioioso con la gente” (325). “Là il corno della guardia echeggia così heimelig dalla torre, là la sua voce invita con tono così ospitale” (49). “Ci si addormenta là cosi soavemente nel tepore, così miracolosamente heim’lig” (23 ecc.). – L’accezione meritava di diventare generale, per evitare che il significato migliore del termine cadesse in disuso per via del facile scambio con 2. Cfr. “Gli Zeck [nome di famiglia] sono tutti heimlich’” (sornioni nel senso 2). – “Heimlich? … Che cosa intendete con heimlich?” – “Ebbene … mi destano la stessa sensazione che provo di fronte a una fonte interrata o a uno stagno prosciugato. Non si può passarvi accanto senza aver sempre l’impressione che potrebbe tornare a venir fuori l’acqua”. – Noi lo chiamiamo unheimlich; voi heimlich. “Perché trova che questa famiglia abbia qualcosa di nascosto, che non ispira fiducia?” (Gutzkow 2, 61).

d) (vedi anche c) Specialmente nella Slesia: allegro, sereno, anche del tempo. V. Adelung e Weinhold. 2. Nascosto, mantenuto celato, in modo da non farlo sapere ad altri o da non far sapere la ragione per cui Io si intende celare. Cfr. Geheim 2, una volta nel vecchio linguaggio, per esempio nella Bibbia v. Giobbe 11, 6; 15, 8. Anche Heimlichkeit al posto di Geheimnis [segreto]. Fare qualcosa di heimlich (alle spalle di qualcuno); svignarsela heimlich [di nascosto]; convegni, appuntamenti heimlich; guardare con gioia maligna heimlich; sospirare, piangere heimlich; agire heimlich, come se si avesse qualcosa da nascondere; amore, amorazzo, peccato heimlich; parti heimlich (che la decenza impone di tener coperte) (1 Samuele, 5, 6); luoghi heimliche (segreti); lo stanzino heimlich (latrina) (2 Re, 10, 27), anche: il seggio heimlich (la seggetta]; gettare in fosse, in Heimlichkeiten. – “Condusse heimlich [furtivamente] da Laomedonte le cavalle”. – "Tanto chiuso, heimlich [sornione], insidioso e maligno verso signori crudeli … quanto aperto, libero, partecipe e servizievole verso l'amico sofferente” (Burmeister g B 2, 157). "Devi ancora sapere ciò che per me è più santo, heimlich [in segreto]” (Chamisso 4, 56). L’arte heimlich (la magia). “Là dove non è ammesso di sventolare le cose in pubblico, inizia la macchinazione heimlich” (Forster Br. 2, 135). “Libertà è la parola sussurrata heimlich dai cospiratori, il grido di guerra urlato dai sovvertitori dichiarati” (G. 4, 222). “Un effetto santo, heimlich” (15). “Ho radici che sono heimlich, sono piantato profondamente nella terra” (2, 109). “La mia malizia heimlich” (Heimtücke 30, 344). “Se non lo accetta apertamente e in coscienza, può afferrarlo heimlich e senza saperlo”. “Fece montare heimlich e in segreto telescopi acromatici” (39, 22). “D’ora in avanti, voglio che non ci sia più niente di heimlich tra noi” (Sch. 369 b). – “Scoprire, palesare, tradire le Heimlichkeiten di qualcuno”. “Ordire Heimlichkeiten alle mie spalle” (Alexis H. 2, 3, 168). “Ai miei tempi si prendeva a cuore la Heimlichkeit” (Hagedorn 3, 92). “L’Heimlichkeit e i bisbigli coperti dalla mano” (Immermann M. 13, 289). “Solo la mano del giudizio può sciogliere l’incantesimo impotente dell’Heimlichkeit (dell’oro nascosto)” (Novalis 1, 69). “Di’ dove la nascondi … in quale luogo di tacita Heimlichkeit” (Schr. 495 b). “Voi api che impastate il chiavistello delle Heimlichkeiten (la cera del sigillo)” (Tieck Cymb. 3, 2). “Esperto in rare Heimlichkeiten (arti magiche)” (Schlegel Sh. 6,102 ecc.); cfr. Geheimnis L. 10, 291 sg.

Per i composti vedi sopra 1 c, e così soprattutto anche per il contrario, “Un-“: “Disagevole, che suscita inquieto orrore”. “Gli apparve unheimlich, spettrale” (Chamisso 3, 238). “Le ore unheimlich, inquiete della notte” (4, 148). “Da tempo mi dava una sensazione unheimlich, anzi orripilante” (242). “Ora comincia a diventarmi unheimlich” (Gutzkow R. 2, 82). “Prova un orrore unheimlich” (Verm 1, 51). “Unheimlich e rigido come una figura di pietra” (Reis 1, 10). “La nebbia unheimlich, detta fumo di capelli” (Immerman M. 3, 299). “Questi pallidi giovani sono unheimlich e Dio sa quali nefandezze ordiscono” (Laube vol. 1, 119). “È detto unheimlich tutto ciò che dovrebbe restare … segreto, nascosto e invece è affiorato” (Schelling 2, 2, 649 ecc.). – “Velare il divino, circondarlo di una certa Unheimlichkeit” (658 ecc.). – Unheimlich è inconsueto come contrario del significato 2 (senza citazioni).

Nella lunga citazione, la cosa per noi più interessante è che la parolina heimlich, tra le molteplici sfumature del suo significato, ne mostra anche una coincidente con il contrario, unheimlich. Ciò che è heimlich diventa allora unheimlich; confronta l’esempio di Gutzkow: “Noi lo chiamiamo unheimlich; Lei lo chiama heimlich”. Comunque, siamo avvertiti che il termine heimlich non è univoco, ma appartiene a due cerchie di rappresentazioni che, senza essere antitetiche, tuttavia sono tra loro molto estranee: quella della familiarità, dell’agio, e quella del nascondere, del tener celato. Nell’uso corrente unheimlich è il contrario del primo significato, non del secondo. Da Sanders non apprendiamo se sia ammissibile o no una relazione genetica tra i due significati. Per contro, la nostra attenzione è attirata dall’osservazione di Schelling, che contiene un’affermazione affatto nuova sul contenuto del termine unheimlich, una novità che va ben oltre le nostre aspettative. Unheimlich, dice Schelling, è tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, ma è venuto fuori.

Parte dei dubbi così suscitati è chiarita dalle indicazioni contenute nel vocabolario tedesco di Jacob e Wilhelm Grimm (Lipsia 1877, IV/2, p. 874 sg.):

heimlich, aggettivo e avverbio: vernaculus, occultus; medio-alto-tedesco, heimelich, heimlich. (p. 874) In senso un po’ diverso: “mi è heimlich, mi sta bene, non mi suscita timore” …

b) Heimlich è anche il luogo libero dagli influssi dei fantasmi … p. 875: familiare, amichevole, fidato.

4. Dal significato di natale, domestico, si sviluppa inoltre il concetto di sottratto a occhi estranei, celato, segreto; concetto che si è venuto formando in molteplici direzioni: p. 876 “a sinistra del lago ( … ) nel cuore (heimlich) del bosco c’è un prato" (Schiller, Wilhelm Tell, atto I, scena 4) … liberamente, significato inconsueto nell’uso linguistico moderno … heimlich è accostato a un verbo indicante l’atto di nascondere: “egli mi celerà nel nascosto (heimlich) del suo padiglione" (Salmi, 27, 5) … Luoghi heimlich del corpo umano, pudenda … “gli uomini che non morivano erano percossi nelle parti segrete (heimlich)” (1 Samuele, 5.12).

c) Funzionari che impartiscono consigli importanti da tener segreti in affari di Stato si chiamano consiglieri heimlich, ma nell’uso odierno l’aggettivo è sostituito da geheim (segreti) … “Faraone pose nome Giuseppe al consigliere segreto (heimlich)” (Genesi, 41, 45).

(p. 878) 6. Heimlich nella conoscenza: mistico; allegorico; significato heimlich, mysticus, divinus, occultus, figuratus.

(p. 878) heimlich ha diverso significato nell’accezione seguente: sottratto alla conoscenza, inconscio …

ma allora heimlich vale anche: chiuso, inaccessibile alla ricerca …

Ci hai fatto caso? Non si fidano di noi; temono il volto heimlich del duca di Friedland" (Schiller, L'accampamento di Wallenstein, scena 2).

9. Il significato di “nascosto”, “pericoloso”, che affiora nel numero precedente, si sviluppa ulteriormente, finché heimlich assume il significato già di unheimlich (formato da heimlich 3b pag. 874): “a volte mi sento come un uomo che vaga nella notte e crede agli spettri; per lui ogni angolo è sinistro (heimlich) e dà i brividi" (Klinger, Teatro, 3, 298).

Heimlich è quindi una parola che sviluppa il proprio significato in senso ambivalente, fino a coincidere in conclusione con il contrario, unheimlich. Unheimlich è in qualche modo una variante di heimlich. Paragoniamo questo risultato, non ancora completamente chiaro, alla definizione di unheimlich data da Schelling. L’analisi dei singoli casi in cui l’“inquietante” ricorre ci renderà le tracce linguistiche comprensibili.

 

2.

Passando ora in rassegna persone e cose, impressioni, eventi e situazioni tali da ridestare in noi con particolare forza e chiarezza un senso d’inquietante, la prima richiesta è scegliere l’esempio calzante. Jentsch ha rilevato come caso particolarmente adatto il “dubbio che un essere apparentemente animato sia davvero vivo e, viceversa, il dubbio che un oggetto privo di vita non sia forse animato”, rifacendosi all’impressione data da figure di cera, pupazzi e automi. Annovera in questa categoria il senso d’inquietante destato da attacchi epilettici e manifestazioni di pazzia, fenomeni che nello spettatore suscitano il sospetto di possibili processi automatici, meccanici, celati dietro l’immagine consueta degli esseri viventi. Ora, senza essere del tutto convinti dell’opinione di Jentsch, per la nostra personale ricerca vogliamo tuttavia ricollegarci ad essa, perché in seguito ci riporterà a un autore che come nessun altro è riuscito a produrre effetti inquietanti.

Uno degli artifici più sicuri per suscitare facilmente nei racconti effetti inquietanti”, scrive Jentsch, “si basa sul lasciare il lettore di fronte a una certa figura all’oscuro se si trova davanti a una persona o a un automa, facendo però in modo che l’incertezza non focalizzi l’attenzione del lettore, per non indurlo ad analizzare subito la situazione e a chiarirla, perché allora, come già detto, il particolare effetto emotivo svanirebbe facilmente. Nei suoi racconti fantastici E.T.A. Hoffmann ha ripetutamente attuato con successo tale manovra psicologica”.


 

L’osservazione, di certo giusta, si riferisce soprattutto al racconto L’uomo della sabbia (1816), nella raccolta dei Racconti notturni (III volume dell’edizione Grisebach dell’opera omnia di Hoffmann). È un racconto fantastico, da cui la figura della bambola Olimpia è approdata nel primo atto dell’opera di Offenbach “I racconti Hoffmann”. Devo però dire, sperando che la maggior parte dei lettori del racconto concordi con me, che il motivo della bambola Olimpia in apparenza viva non è affatto l’unico cui attribuire l’incomparabile effetto inquietante del racconto e neppure il solo cui attribuirlo in modo esclusivo. All’effetto inquietante non giova neppure che l’autore stesso volga leggermente al satirico l’episodio di Olimpia, per schernire la sopravvalutazione amorosa in cui il giovane protagonista cade. Al centro del racconto si trova piuttosto un altro motivo, che poi dà il titolo al racconto ed è di continuo richiamato nei passi decisivi: il motivo dell’“Uomo della sabbia” che strappa gli occhi ai bambini.

Lo studente Nathaniel, dai cui ricordi d'infanzia prende le mosse il racconto fantastico, nonostante l’attuale felicità, non sa liberarsi dai ricordi legati alla morte misteriosa e spaventosa dell’amato padre. Certe sere la madre usava spedire i bambini a letto di buon’ora ammonendoli: “Arriva l’uomo della sabbia!”, e il bambino udiva davvero ogni volta il passo pesante del visitatore che quella sera si accaparrava il padre. Interpellata sull’uomo della sabbia, la madre ne negava l’esistenza se non come modo dire; ma c’era una bambinaia in grado di dare informazioni più precise: “È un uomo cattivo che va dai bambini che non vogliono andare a letto e getta loro manciate di sabbia negli occhi, finché non saltano fuori dalla testa sanguinanti. Allora li butta nel sacco e li porta sulla mezzaluna, dove li dà in pasto ai suoi piccoli, che stanno lì nel nido e, come le civette, hanno il becco curvo con cui beccano gli occhi dei bambini cattivi”.

Sebbene il piccolo Nathaniel fosse abbastanza grande e intelligente da respingere particolari così orripilanti, la paura della figura dell’uomo della sabbia si fissò saldamente in lui. Decise di vedere com’era; una sera in cui l’uomo era di nuovo atteso, si nascose nello studio del padre. Allora nel visitatore riconobbe l’avvocato Coppelius, personaggio repellente che i bambini cercavano di evitare quando, di tanto in tanto, era ospite a pranzo, e identificò Coppelius con il temuto uomo della sabbia. Ai fini degli ulteriori sviluppi di questa scena, l’autore insinua già il dubbio: siamo di fronte al primo delirio del bambino in preda all’angoscia o a un resoconto da considerare reale nel mondo dove il racconto si svolge? Il padre e l’ospite si affaccendano intorno a un focolare fiammeggiante. Udendo Coppelius gridare: “Occhi, qui! occhi, qui!”, il piccolo spione si tradì con un grido; Coppelius l’afferrò, volendo spargere sui suoi occhi granelli incandescenti, presi dalla fiamma, e gettarli poi nel braciere. Il padre implorò di risparmiare al figlio gli occhi. Un profondo svenimento e una lunga malattia conclusero l’evento.

Chi ha deciso d’interpretare razionalisticamente l’uomo della sabbia non mancherà di riconoscere nella fantasia del bambino l’influente persistere del racconto della bambinaia. Anziché granelli di sabbia, da spargere sugli occhi del fanciullo ora ci sono granelli incandescenti: in entrambi i casi, lo scopo è far schizzar fuori gli occhi. Durante una successiva visita dell’uomo della sabbia, un anno dopo, il padre muore in un’esplosione nello studio. L’avvocato Coppelius scompare di scena senza lasciar traccia.

Ora studente, Nathaniel crede di riconoscere la spaventosa figura della sua infanzia in un ottico ambulante italiano, Giuseppe Coppola, che nella città universitaria si offre di vendergli degli occhiali da sole e, al suo rifiuto, ribatte: “Ah, mica occhiali da soli, mica occhiali da soli! … ci ho anche bei ochi, bei ochi!” Il raccapriccio dello studente si placa perché gli occhi offerti si rivelano innocui occhiali da vista. Compra da Coppola un telescopio tascabile con cui scruta nella casa di fronte, dove abita il professor Spallanzani, e scopre la sua bella figlia, Olimpia, enigmaticamente laconica e immobile. Ben presto se ne innamora in modo così violento da dimenticare la sua saggia e sobria fidanzata. Ma Olimpia è un automa in cui Spallanzani ha messo il meccanismo e Coppola – l’uomo della sabbia – gli occhi. Lo studente arriva mentre i due artigiani stanno litigando per la loro opera. L’ottico è riuscito a impossessarsi della bambola di legno priva degli occhi; il meccanico Spallanzani getta in petto a Nathaniel gli occhi sanguinanti di Olimpia, che stavano per terra, dicendo che Coppola li ha rubati a lui, Nathaniel. Il quale è preso da una nuova crisi di follia; nel delirio la reminiscenza della morte del padre si associa all’impressione recente: “Oh-oh-oh! Cerchio di fuoco, cerchio di fuoco! gira, cerchio di fuoco, allegro, allegro! Bambolina di legno, ehi, bella bambolina, gira!” Così dicendo, si getta sul professore, padre presunto di Olimpia, volendo strangolarlo.

Uscito da una lunga e grave malattia, Nathaniel sembra finalmente guarito. Pensa di sposare la ritrovata fidanzata. Un giorno i due attraversano la città; sulla piazza del mercato l’alta torre del palazzo comunale getta un’ombra gigantesca. La ragazza propone al fidanzato di salire sulla torre, mentre il fratello di lei, che accompagna la coppia, resta di sotto. In cima, l’attenzione di Clara è attratta da qualcosa di strano che si muove per strada. Nathaniel osserva la stessa scena con il cannocchiale di Coppola, che si ritrova in tasca, ed è preso di nuovo dalla follia; gridando: “Bambolina di legno, gira!”, vuol gettare la ragazza nel vuoto. Richiamato dalle grida della fanciulla, il fratello la salva e si precipita giù con lei. In cima, intanto, l’invasato corre qua e là continuando a gridare: "Cerchio di fuoco, gira!", frase di cui conosciamo l’origine. Tra la folla di persone di sotto spicca l’avvocato Coppelius, ricomparso all’improvviso. Possiamo ammettere che sia stata la vista del suo approssimarsi a provocare lo scoppio di follia di Nathaniel. I presenti vogliono salire sulla torre per impadronirsi dell’invasato, ma Coppelius4 ride: “Aspettate, aspettate, verrà giù da solo!” D’improvviso Nathaniel si ferma, si avvede di Coppelius e si getta giù oltre il parapetto con un grido stridulo: “Sì, bei ochi, bei ochi!”. Appena sul lastrico con la testa fracassata, l’uomo della sabbia scompare nella calca.

Il breve riassunto non lascia dubbi sul legame diretto tra la figura dell’uomo della sabbia e il senso dell’inquietante, ossia l’idea d’essere privati degli occhi, effetto che non ha nulla a che vedere con l’incertezza intellettuale alla Jentsch. Il dubbio sull’animazione, pur valido secondo noi nel caso della bambola Olimpia, non entra in questione in quest’altro più forte esempio d’inquietante. Inizialmente l’autore desta in noi, certo non senza intenzione, una sorta d’incertezza, impedendoci in un primo tempo d’indovinare se ci introdurrà nel mondo reale o in quello fantastico di sua invenzione. Notoriamente ha il diritto di fare l’una cosa o l’altra; se ha deciso, per esempio, d’inscenare l’azione in un mondo di spiriti, demoni e spettri, come Shakespeare nell’Amleto, nel Macbeth e, in un altro senso, nella Tempesta e nel Sogno d’una notte d’estate, dobbiamo arrenderci e, finché gli daremo credito, considerare reale il mondo da lui ideato. Ma, nel corso del racconto di Hoffmann, il dubbio scompare; notiamo che l’autore vuol farci vedere le cose attraverso gli occhiali o il cannocchiale dell’ottico demoniaco, avendole forse viste egli stesso di persona attraverso tale strumento. La conclusione della storia chiarisce definitivamente che l’ottico Coppola è realmente l’avvocato Coppelius e quindi anche l’uomo della sabbia.

Qui non è più questione d’“incertezza intellettuale”. Ora sappiamo che non ci sono messe davanti le creazioni della fantasia di un folle, dietro cui riconoscere, nella nostra razionalistica superiorità, il semplice dato di fatto; comunque, il chiarimento non sminuisce per nulla l’impressione inquietante. L’incertezza intellettuale non contribuisce per nulla a comprendere l’effetto inquietante.

L’esperienza psicoanalitica ci avverte, invece, che danneggiare o perdere gli occhi è una tremenda angoscia infantile. Il timore resta in molti adulti che non temono altra lesione organica quanto quella degli occhi. Del resto, non si usa dire che si custodirà qualcosa come la pupilla degli occhi? Lo studio dei sogni, delle fantasie e dei miti ci ha inoltre insegnato che la paura per gli occhi, l’angoscia di perdere la vista, sostituisce abbastanza spesso l’angoscia di castrazione. Anche I’autoaccecarsi del mitico criminale Edipo non è altro che una forma mitigata della pena di castrazione, la sola – secondo la legge del taglione – adeguata al suo caso. La mentalità razionalistica si può rifiutare di derivare l’angoscia per gli occhi dall’angoscia di castrazione, trovando comprensibile che un grandissimo timore protegga un organo così prezioso come l’occhio; addirittura, facendo un altro passo avanti, si può affermare che dietro l’angoscia di castrazione non si nasconda alcun segreto particolarmente profondo o altri significati. Ma così non si giustifica la relazione sostitutiva, manifesta nel sogno, nella fantasia e nel mito, tra occhio e membro virile, né si riesce a contrastare l’impressione che un sentimento particolarmente intenso e oscuro si erga proprio contro la minaccia di perdere il membro sessuale e che solo questo sentimento conferisca risonanza all’idea di perdere altri organi. Poi ogni ulteriore dubbio scompare venendo a conoscenza nelle analisi dei nevrotici delle particolarità del “complesso di castrazione” e del ruolo straordinario assunto nella conoscenza della loro vita psichica.

Comunque, a nessun avversario della concezione psicanalitica consiglierei di rifarsi proprio al racconto di Hoffmann, per sostenere che la paura per gli occhi non dipende dal complesso di castrazione. Infatti, perché tale paura è qui messa nella più intima relazione con la morte del padre? Perché l’uomo della sabbia entra ogni volta in scena come chi turba l’amore? È lui che divide l’infelice studente dalla fidanzata e dall’amico più caro, suo fratello; è lui che annienta il secondo oggetto del suo amore, la bella bambola Olimpia, e Io costringe al suicidio, proprio quando sta per riunirsi felicemente alla sua riconquistata Clara. Questi e molti altri tratti del racconto appaiono arbitrari e insensati respingendo la relazione tra timore per gli occhi e castrazione, mentre diventano significativi sostituendo all’uomo della sabbia il padre temuto, da cui Ia castrazione è attesa.5

Osiamo dunque ricondurre l’inquietante dell’uomo della sabbia all’angoscia del complesso infantile di castrazione. Ma, appena sfiorati dall’idea di considerare tale fattore infantile all’origine del senso dell’inquietante, ci orientiamo a cercare di attribuire la stessa genesi anche ad altri aspetti dell’inquietante. Nell’uomo della sabbia si trova anche l’altro motivo della bambola all’apparenza viva, già rilevato da Jentsch, autore secondo cui condizione particolarmente favorevole a produrre sentimenti inquietanti è ridestare l’incertezza intellettuale se qualcosa sia o non sia viva, o quando il non vivo spinge troppo in là la somiglianza con il vivo. Naturalmente, però, con le bambole non siamo molto lontani dal mondo infantile. Ricordiamo che, all’età dei primi giochi, la bambina non distingue in generale ciò che è vivo da ciò che non lo è, e in particolare tratta volentieri la sua bambola come essere vivente. Anzi, a volte, da certe pazienti sentiamo raccontare d’essere state, ancora a otto anni, persuase che bastasse rivolgere alle loro bambole un particolare sguardo, il più penetrante possibile, perché prendessero vita. Anche qui, dunque, è facile dimostrare il fattore infantile; ma, cosa singolare, nel caso dell’uomo della sabbia si trattava di un’antica angoscia infantile ridestata, mentre nel caso della bambola vivente l’angoscia non c’entra; la bimba non si spaventava alla vista della bambola che diventava viva, anzi forse aveva desiderato che ciò accadesse. La fonte del sentimento inquietante non sarebbe dunque in questo caso la paura infantile, bensì il desiderio o anche la semplice credenza infantile. Sembra contraddittorio, ma è possibile che si tratti solo di una pluralità, che in seguito potrebbe tornarci utile per comprendere.

In letteratura Hoffmann è l’impareggiabile maestro dell’inquietante. Il suo romanzo Gli elisir del diavolo esibisce un tale garbuglio di motivi che saremmo tentati di attribuire l’effetto inquietante alla storia. Il contenuto del racconto è troppo denso e intricato per tentare di darne un estratto. Alla fine del libro, quando al lettore sono illustrate le premesse dell’azione, fino a quel momento tenute celate, il risultato non è la delucidazione ma il completo smarrimento. Lo scrittore ha ammassato troppe cose tra loro simili, e benché l’impressione esercitata dall’insieme non ne soffra, ne soffre la comprensione. Bisogna perciò accontentarsi di mettere in rilievo i fattori di maggior spicco tra quelli che esercitano l’effetto inquietante, per cercare se anche per essi sia possibile derivarli da fonti infantili.

Tra questi ci sono: il motivo del “sosia” in tutte le sue gradazioni e configurazioni, ossia la comparsa di personaggi che, presentandosi con il medesimo aspetto, vanno ritenuti identici; l’accentuazione di questo rapporto con salto di processi psichici da una persona all’altra – che chiameremmo telepatia – così che l’una condivide sapere, sentimenti e vissuti dell’altra; l’identificazione con un’altra persona, tanto da sbagliarsi sul proprio Io o da sostituire il proprio con quello dell’estraneo; quindi raddoppiamento, suddivisione, permuta dell’Io, e infine il costante ritorno dell’identico, la ripetizione degli stessi tratti del volto, stessi caratteri, stessi destini, stesse imprese delittuose, perfino gli stessi nomi in più generazioni successive.

Il tema del sosia ha trovato approfondito apprezzamento nel lavoro omonimo di Otto Rank,6 che indaga i rapporti tra sosia e immagine allo specchio, ombra, genio tutelare, dottrina dell’anima e paura della morte, ma mette anche chiaramente in luce la sorprendente storia evolutiva del motivo. In origine, infatti, il sosia rappresenta una rassicurazione contro la scomparsa dell’Io, l’“energica smentita del potere della morte” (Rank); verosimilmente l’anima “immortale” fu il primo sosia del corpo. La creazione di tale doppione, a difesa dall’annientamento, trova riscontro nella rappresentazione del linguaggio onirico, che ama esprimere la castrazione raddoppiando o moltiplicando il simbolo genitale; nella civiltà dell’antico Egitto diventò spinta all’arte di modellare l’immagine del defunto in materiali duraturi nel tempo. Ma queste rappresentazioni sono sorte sul terreno dell’amore illimitato di sé stessi, del narcisismo primario che domina la vita psichica sia del bambino sia dell’uomo primitivo; poi, superata tale fase, il presagio del sosia muta: da assicurazione di sopravvivenza diventa l’inquietante preannuncio di morte.

La rappresentazione del sosia non tramonta di necessità con il narcisismo primitivo; infatti, può acquisire nuovi contenuti, tratti dalle successive fasi di sviluppo dell’Io. Nell’Io prende lentamente forma un’istanza particolare, in grado di opporsi al resto dell’Io, funzionale all’autosservazione e all’autocritica, che effettua il lavoro di censura psichica e ci diviene nota come “coscienza morale”. Nel caso patologico del delirio d’essere osservati tale istanza si isola, si scinde dall'Io, diventa osservabile dal medico. Il dato di fatto dell’esistenza di un’istanza del genere, che può trattare il resto dell’Io come oggetto, mettendo l’uomo in grado di auto-osservarsi, consente di attribuire nuovo contenuto alla vecchia rappresentazione del sosia e di assegnarle compiti diversi e disparati, in primo luogo l’autocritica di tutto ciò che pare appartenere all’antico e superato narcisismo di tempi remoti.7

Comunque, accanto al contenuto sconveniente per la critica dell’Io, il sosia può incorporare ogni sorta di possibilità irrealizzate, che il destino terrebbe in serbo e alle quali la fantasia vuole ancora aggrapparsi, e tutte le aspirazioni dell’Io che non hanno potuto realizzarsi per sfavorevoli circostanze esterne, nonché le decisioni represse della volontà che hanno prodotto l’illusione del libero arbitrio.8

Tuttavia, dopo aver trattato la motivazione manifesta della figura del sosia, dobbiamo dire che nulla di tutto ciò ci rende comprensibile l’elevato livello di turbamento connesso; inoltre, in base alla nostra conoscenza dei processi patologici della psiche, possiamo aggiungere che niente di tale contenuto potrebbe spiegare la tendenza difensiva con cui è proiettato fuori dall’Io come qualcosa di estraneo. Allora, il carattere inquietante può poggiare solo sul fatto che il sosia sia una formazione appartenente a tempi psichici preistorici ormai superati, quando aveva comunque un significato più amichevole. Il sosia è diventato uno spauracchio come gli dei che, dopo la caduta della loro religione, si sono trasformati in demoni (Heine, Gli Dei in esilio).

Gli altri disturbi dell’Io utilizzati da Hoffmann si possono valutare facilmente in base al modello del sosia. Si tratta di ripercorrere le singole fasi della storia evolutiva del senso dell’Io, regredendo al tempo in cui l’Io non si era ancora nettamente delimitato dal mondo esterno e dall’altro. Credo che tali motivi concorrano a produrre l’impressione inquietante, anche se non è facile stabilire quanta parte di responsabilità vi abbia ciascuno, singolarmente preso.

Forse non tutti riconosceranno nella ripetizione dell’identico la fonte del senso dell’inquietante. Stando alle mie osservazioni, in determinate condizioni e combinato con particolari circostanze, tale fattore evoca indubbiamente un sentimento del genere, che inoltre ricorda l’impotenza di certi stati onirici.

Una volta, in un caldissimo pomeriggio estivo, girando per strade deserte a me ignote di una cittadina italiana, capitai in un quartiere sul cui carattere non potevo avere dubbi. Alle finestre delle casette si vedevano solo donne imbellettate, e mi affrettai ad abbandonare la stradina alla prima svolta. Ma, dopo aver girovagato senza direzione per un pezzo, mi ritrovai all’improvviso nella stessa strada, dove la mia presenza cominciò ad attirare l’attenzione; la mia frettolosa ritirata ebbe l’unica conseguenza che dopo un altro giro vizioso mi ritrovai per la terza volta ancora lì. Allora mi prese un senso che solo ora posso definire inquietante; fui contento solo quando, rinunciando ad altri giri esplorativi, mi ritrovai nella piazza lasciata poco prima.

Altre situazioni che con quella appena descritta hanno in comune il ritorno non intenzionale, ma per il resto sono in fondo diverse, hanno come conseguenza lo stesso senso d’impotenza e d’inquietudine. Ciò accade, per esempio, smarrendosi in una foresta di montagna, magari sorpresi dalla nebbia, e, a dispetto di tutti gli sforzi per giungere a una strada segnata o almeno nota, si ritorna ogni volta nello stesso punto, contraddistinto da una determinata configurazione. O quando si procede a tentoni in una stanza sconosciuta, immersa nel buio, cercando la porta o l’interruttore e, a furia di cercare, si torna a urtare per l’ennesima volta contro lo stesso mobile. Va detto però che, esagerando in modo grottesco la situazione, Mark Twain l’ha trasformata in evento d’irresistibile comicità.

In un’altra serie di esperienze riconosciamo senza fatica che solo il fattore della ripetizione non intenzionale rende inquietante l’innocuo di per sé, forzandoci ad accettare l’idea di fatale e ineluttabile, dove altrimenti avremmo parlato solo di “casuale”. Così, per esempio, è un’esperienza indifferente se, depositando il soprabito al guardaroba, si riceve la contromarca con un certo numero – diciamo 62 – o se si trova che la cabina assegnata sul battello porta quel numero. Ma l’impressione cambia se le due circostanze in sé irrilevanti si succedono l’una dopo l’altra e uno s’imbatte nel numero 62 più volte nello stesso giorno; tanto più se poi si dovesse addirittura osservare che in tutto ciò che reca l’indicazione di un numero – indirizzi, camere d’albergo, posti in treno e così via – ricompare sempre lo stesso numero, almeno in parte. Si trova la cosa “inquietante” e chi non sia solidamente corazzato contro le tentazioni della superstizione si sentirebbe incline ad attribuire all’ostinato ritorno del medesimo numero un significato misterioso, magari vedendovi un segno dell’età che gli sarà consentito raggiungere. Sarebbe lo stesso se, proprio mentre siamo impegnati a studiare gli scritti del grande fisiologo Ewald Hering, a pochi giorni di distanza l’una dall’altra, ricevessimo da paesi diversi due lettere firmate con quel nome, mentre fino ad allora non eravamo mai entrati in rapporto con altri chiamati così. Poco tempo fa un naturalista d’ingegno ha tentato di subordinare coincidenze di questo tipo a determinate leggi,9 cosa che dovrebbe cancellare l’inquietante impressione suscitata. Non oso dire se sia riuscito o no nell’intento.

Posso solo accennare a come l’inquietudine da ritorno dell’identico derivi dalla vita psichica infantile; perciò rinvio il lettore a una descrizione esauriente, già pronta, inserita in un diverso contesto. Nello psichicamente inconscio è riconoscibile il predominio di una coazione a ripetere, emergente dai moti pulsionali, verosimilmente dipendente dall’intima natura delle stesse pulsioni, abbastanza forte da estromettere il principio di piacere; è lei a conferire a determinati aspetti della vita psichica il carattere demoniaco; è ancora lei a esprimersi assai chiaramente negli impulsi dei bambini in tenera età e a dominare parte del decorso del trattamento analitico dei nevrotici. Tutte le precedenti discussioni ci hanno preparato ad ammettere che si avverta come inquietante quanto attiene all’interna coazione a ripetere.

Ora, però, penso giunto il momento di abbandonare considerazioni difficili da giudicare, per cercare casi che presentino l’inequivocabile carattere inquietante, dalla cui analisi sia lecito attendersi una parola definitiva sulla validità della nostra ipotesi.

Nell’AneIlo di Policrate l’ospite si allontana con orrore perché nota che ogni desiderio dell’amico si realizza subito e il destino toglie immediatamente di mezzo ogni sua preoccupazione. L’ospite da amico gli diventa “inquietante”. La spiegazione da lui stesso data, che chi è troppo fortunato deve temere l’invidia degli dei, ci riesce ancora poco trasparente, poiché il mito vela il suo significato. Prendiamo perciò un altro esempio da situazioni molto più modeste.

Nel caso clinico di una nevrosi ossessiva,10 ho narrato che una volta il malato soggiornò in un istituto idroterapico, traendone grande miglioramento. Fu tuttavia tanto intelligente da non attribuire il successo alle virtù curative dell’acqua, ma alla posizione della sua camera, attigua a quella di una compiacente infermiera. Tornato la seconda volta nell’istituto, chiese che gli fosse assegnata la stessa camera, ma si sentì rispondere che era già occupata da un vecchio signore; alla notizia sfogò il proprio malumore con le parole: “Che gli venga un colpo!” Due settimane dopo il vecchio signore ebbe in realtà un colpo. Per il mio paziente fu un’esperienza “inquietante”. L’impressione inquietante sarebbe stata ancora più forte se tra esclamazione e infortunio fosse trascorso un tempo molto più breve, o se fosse stato in grado di riferire molte altre coincidenze simili. In effetti, portare queste conferme non gli creava il minimo imbarazzo; ma non solo lui, tutti i nevrotici ossessivi da me studiati, potevano raccontare di sé cose analoghe. Non erano sorpresi d’incontrare regolarmente la persona cui avevano appena pensato, magari a distanza di tempo; era per loro usuale ricevere al mattino una lettera da un amico quando, la sera prima, avevano detto: “È da un po’ che non sento parlare di lui”; soprattutto, era raro il verificarsi di incidenti o casi di morte senza che poco prima ciò fosse loro balenato in mente. Esprimevano abitualmente il dato di fatto con la massima semplicità, affermando di avere “presentimenti” che “perlopiù” accadevano.

Una delle forme più inquietanti e più diffuse di superstizione è la paura del “malocchio”, che un oculista di Amburgo, S. Seligmann, ha trattato in modo approfondito.11 La fonte di questa paura non pare sia mai stata misconosciuta. Chi possiede qualcosa di prezioso e quindi di fragile teme l’invidia degli altri, proiettando su di loro l’invidia che egli stesso proverebbe nel caso inverso. Questi moti si tradiscono con lo sguardo, anche senza parole, e, se tra gli altri vi è chi spicchi per caratteristiche particolarmente indesiderate, subito si crede che la sua invidia raggiungerà un’intensità particolare, poi mandata a effetto. Si teme perciò l’intenzione segreta di nuocere che, per certi indizi, si suppone dotata anche della forza di realizzarsi.

Gli ultimi esempi d’inquietante citati dipendono da un principio che, accogliendo un suggerimento di un paziente, ho chiamato “onnipotenza dei pensieri”. Ora non possiamo più misconoscere il terreno dove ci troviamo. L’analisi dei casi d’inquietante ci ha riportato all’antica concezione animistica del mondo, caratterizzata da un mondo pieno di spiriti umani, dalla sopravvalutazione narcisistica dei propri processi psichici, dall’onnipotenza dei pensieri e dalla tecnica della magia costruita su tale onnipotenza, dall’attribuzione di poteri magici accuratamente graduati a persone e cose estranee (mana), nonché da tutte le creazioni con cui il narcisismo illimitato di quella fase evolutiva si opponeva all’evidente esigenza della realtà. Sembra che tutti noi, nella nostra evoluzione individuale, abbiamo attraversato una fase corrispondente all’animismo dei primitivi e che nessuno di noi abbia superato tale fase, senza lasciarsi dietro residui e tracce ancora suscettibili di manifestarsi, e che quanto oggi ci appare “inquietante” sia dovuto allo sfiorare tali residui di attività psichica animistica, spingendoli a manifestarsi.12

A questo punto due osservazioni in cui vorrei stabilire il contenuto essenziale della mia piccola ricerca. In primo luogo, se la teoria psicoanalitica ha ragione di affermare che la rimozione trasforma in angoscia ogni eccitazione (Affekt) di un moto affettivo di qualunque tipo, allora tra i casi d’angoscia deve esserci un gruppo in cui si può scorgere che l’elemento angoscioso è qualcosa di rimosso che ritorna. Inquietante sarebbe appunto tale tipo di cosa angosciosa; dovrebbe perciò essere indifferente se quanto ora inquieta era angoscioso fin dall’origine o comportava un’altra eccitazione. In secondo luogo, se questa è realmente la natura segreta dell’inquietante, allora comprendiamo perché l’uso linguistico consente ad heimlich di passare al contrario, all’unheimlich; infatti l’elemento inquietante non è in realtà niente di nuovo o di estraneo, ma è invece fin da tempi remoti un che di familiare alla vita psichica, da essa estraniatosi solo a causa del processo di rimozione. Il rapporto con la rimozione ci chiarisce ora anche la definizione di Schelling, secondo cui l’inquietante è qualcosa che avrebbe dovuto rimanere nascosto e invece si è manifestato.

Ora non ci resta che mettere alla prova il modo di vedere acquisito, spiegando altri casi d’inquietante.

A molti appare al massimo grado inquietante ciò che è connesso alla morte, ai cadaveri e al ritorno dei morti, con spiriti e spettri. Abbiamo visto che alcune lingue moderne non sanno rendere la nostra espressione “una casa unheimlich” altrimenti che con la circonlocuzione: “una casa abitata da spettri”. A dire il vero avremmo potuto iniziare la nostra ricerca con questo esempio d’inquietante, forse il più spiccato di tutti; non l’abbiamo fatto perché, in questo caso, l’inquietante è mescolato troppo strettamente all’orrido e in parte coincide con esso. Ma è raro trovare un ambito in cui il nostro modo di pensare e di sentire sia così poco cambiato dai tempi preistorici, dove l’elemento antico si sia conservato così bene sotto una copertura sottile come nel nostro rapporto con la morte. Due fattori informano bene su tale arresto: la forza delle nostre reazioni emotive originarie e l’incertezza della nostra conoscenza scientifica. La nostra biologia non è ancora riuscita a decidere se la morte sia il destino necessario di ogni essere vivente o solo un caso regolare ma forse evitabile all’interno della vita. La proposizione: “Tutti gli uomini sono mortali” fa sfoggio nei trattati di logica come modello di asserzione universale, ma a nessuno è chiara e il nostro inconscio fa tanto poco posto come in passato alla rappresentazione della propria mortalità. Da sempre le religioni sostengono l’importanza dell’incontestabile dato di fatto della morte individuale e prolungano l’esistenza oltre la fine della vita; i poteri statali giudicano insostenibile l’ordine morale tra i viventi, rinunciando a correggere la vita terrena con un aldilà migliore; i manifesti affissi nelle nostre metropoli annunciano conferenze che pretendono insegnare come metterci in contatto con le anime dei defunti; è innegabile che molte delle teste più fini e dei pensatori più acuti tra gli uomini di scienza hanno ritenuto, specie verso la fine della loro esistenza terrena, che tale rapporto non sia impossibile.

Poiché sul punto quasi tutti noi la pensiamo ancora come i selvaggi, non c'è da stupirsi che il primitivo timore della morte sia in noi ancora così forte e pronto a venir fuori appena qualcosa gli vada incontro. Verosimilmente tale timore ha ancora l’antico senso per cui il morto è diventato nemico dei sopravvissuti, che mira a prendere con sé come compagni della sua nuova esistenza. Piuttosto, data l’immutabilità del nostro atteggiamento verso la morte, potremmo chiederci che ne è della rimozione, necessaria perché ciò che è primitivo possa far ritorno come inquietante. Ma essa sussiste ancora; ufficialmente le cosiddette persone colte non credono più all’apparire dei morti come anime né hanno collegato la loro comparsa a condizioni insolite e raramente realizzabili; l’originario atteggiamento emotivo verso il morto, molto ambiguo e ambivalente, è andato smorzandosi, negli strati superiori della vita psichica, nell’atteggiamento univoco di pietà.13

A questo punto c’è bisogno solo di alcune integrazioni, perché con animismo, magia e incantesimo, onnipotenza dei pensieri, relazione con la morte, ripetizione non intenzionale e complesso di castrazione, abbiamo più o meno esaurito l’ambito dei fattori che trasformano l’angoscioso in inquietante.

Anche di un uomo vivo diciamo che è inquietante, quando gli attribuiamo cattive intenzioni. Ma ciò non basta; va ancora aggiunto che le sue intenzioni di nuocerci si realizzeranno con l’aiuto di particolari poteri. Lo “iettatore” è un buon esempio di figura inquietante, ancora viva nella superstizione dei popoli neolatini, che nel suo libro Josef Montfort Albrecht Schäffer, con intuizione poetica e profonda comprensione psicoanalitica, ha trasformato in figura simpatica.

Ma questi poteri segreti ci riportano sul terreno proprio dell’animismo. È il presentimento di questi poteri misteriosi che rende così inquietante Mefistofele agli occhi della pia Margherita:

Lei sente che io di certo sono un genio,

forse anche il Diavolo.

L’inquietante dell’epilessia e della follia ha la stessa origine. Nel prossimo davanti a sé il profano vede manifestarsi forze insospettate, il cui moto è in grado di percepire oscuramente in angoli remoti della propria personalità. In modo conseguente e psicologicamente quasi corretto, il Medioevo aveva attribuito tutte queste manifestazioni morbose all’azione di demoni. E non mi stupirei di sentir dire che la stessa psicanalisi, che si occupa di scoprire tali forze occulte, sia perciò diventata inquietante per molti. In un caso in cui riuscii, anche se non molto alla svelta, a ristabilire una ragazza da molti anni inferma, ho io stesso sentito la madre dire una cosa simile, quando la ragazza era già guarita da tempo.

Membra amputate, teste mozze, mani recise dal braccio, come in una fiaba di Hauff, piedi che danzano da soli come nel libro citato di Schäffer, hanno in sé qualcosa di straordinariamente inquietante, specie attribuendo loro, come nell’ultimo esempio, anche un’attività autonoma. Sappiamo già che questa inquietudine deriva dall’avvicinarsi al complesso di castrazione. Alcuni vorrebbero assegnare la palma dell’inquietante all’idea d’essere sepolti in morte apparente. La psicanalisi ci ha insegnato che la terrificante fantasia è solo la trasformazione di un’altra, in origine per nulla spaventosa, anzi portato di una certa lascivia, cioè la fantasia di vivere nel ventre materno.

* * *

Aggiungiamo ancora qualcosa di generale, a rigore già contenuto nelle nostre precedenti affermazioni sull’animismo e sulle superate modalità di lavoro dell’apparato psichico, ma che sembra degno d’essere sottolineato in modo particolare. Spesso e volentieri l’inquietante si attiva quando il confine tra fantasia e realtà si dissolve e ci si para realmente davanti qualcosa che fino ad allora avevamo ritenuto fantastico, quando cioè il simbolo supera la portata e il significato di ciò che simboleggia, e via di questo passo. Qui poggia anche buona parte dell’inquietudine connessa alle pratiche magiche. L’elemento infantile, dominante anche nella vita psichica dei nevrotici, sopravvaluta la realtà psichica rispetto a quella materiale, un fatto da riportare all’onnipotenza dei pensieri.

Durante la guerra mondiale mi capitò in mano un numero della rivista inglese “Strand”, dove, tra altri articoli abbastanza superflui, lessi il racconto di una giovane coppia, andata ad abitare in un appartamento ammobiliato, dove c’è un tavolo dalla forma strana con coccodrilli intagliati nel legno. Ogni sera si diffonde nell’abitazione un puzzo insopportabile, caratteristico; nel buio i giovani inciampano contro qualcosa, credono di vedere non so che d’indefinibile che guizza per la scala; per farla breve, sono portati a immaginare che, data la presenza del tavolo, la casa sia abitata da coccodrilli fantasma o che nell'oscurità i mostri di legno si animino, e cose del genere. Era una storia parecchio scipita, ma l’effetto inquietante percepito era straordinario.

A conclusione di questa serie certo ancora incompleta di esempi, va citata un’esperienza tratta dal lavoro psicanalitico che, se non dipende da una coincidenza casuale, dà la conferma più bella alla nostra concezione dell’inquietante. Succede spesso che uomini nevrotici dichiarino che il genitale femminile sia per loro qualcosa d’inquietante. Ma tale inquietante è l’accesso all’antica patria (Heimat) dell’uomo, al luogo in cui ognuno ha dimorato un tempo e che anzi è la sua prima dimora. “Amore è nostalgia”, dice un’espressione scherzosa, e quando chi sogna una località o un paesaggio pensa sognando: “Questo luogo mi è noto, qui sono già stato”, l’interpretazione può inserire al posto del paesaggio il genitale o il corpo della madre. Anche in questo caso, quindi, unheimlich è ciò che un giorno fu heimisch, familiare. Il prefisso [negativo] “un” della parola è il contrassegno della rimozione.

 

3.

Già leggendo le precedenti discussioni, al lettore sono sorti dubbi cui ora va consentito di organizzarsi e farsi sentire.

Può darsi che l’Unheimlich sia lo Heimliche-Heimisch che ha subito la rimozione e da lì è ritornato, e che tutto l’inquietante corrisponda a questa condizione. Ma tale opzione non sembra risolvere l’enigma dell’inquietante. Chiaramente la nostra tesi non è reversibile. Non tutto ciò che ricorda moti di desiderio rimossi e modi di pensare superati della preistoria individuale e collettiva è per ciò stesso anche inquietante.

Non vogliamo neppure tacere che per quasi ogni esempio adatto a dimostrare la nostra tesi si può trovare un analogo controesempio. Per esempio, la mano troncata di cui narra la favola di Hauff (La storia della mano mozza) ha senza dubbio un effetto inquietante, che abbiamo fatto risalire al complesso di castrazione; ma nel racconto di Erodoto [lb. 2, 124] sul tesoro di Rampsinito, alla principessa che lo vuol trattenere per la mano, il ladrone lascia la mano mozza del fratello; non credo d’essere il solo a ritenere che il particolare non provochi alcun effetto inquietante. Nell’Anello di Policrate l’immediata realizzazione dei desideri [dell’amico] ha indubbiamente su di noi lo stesso effetto inquietante che sul re d’Egitto; eppure le nostre favole brulicano di desideri immediatamente appagati, senza che ci sia nulla d’inquietante. Nella favola dei Tre desideri, la donna, ingolosita dal profumo della salsiccia arrostita, si lascia andare a dire che anche lei vorrebbe una salsiccia così, e subito la salsiccia le compare nel piatto. Il marito, adirato, esprime il desiderio che la salsiccia si appenda al naso della sventata consorte e al volo la salsiccia le penzola dal naso. La scena è molto suggestiva, ma per nulla inquietante. La favola si pone comunque molto chiaramente dal punto di vista animistico dell’onnipotenza dei pensieri e dei desideri; eppure non saprei citare una sola vera favola in cui ciò generi alcunché d’inquietante. Abbiamo visto che si ottiene un effetto più che mai inquietante quando cose, immagini e bambole senza vita si animano; ebbene, nelle favole cli di Andersen gli oggetti di casa, i mobili, il soldatino di piombo, vivono, eppure non c’è niente di meno inquietante. Neppure la bella statua di Pigmalione che prende vita è percepita come inquietante.

Abbiamo imparato a riconoscere la morte apparente e la resurrezione dei morti come rappresentazioni molto inquietanti. Eppure, ancora nelle favole, fatti del genere sono affatto consueti. Chi oserebbe per esempio definire inquietante Biancaneve quando riapre gli occhi? Anche il ridestarsi di morti, per esempio nelle storie miracolose nel Nuovo Testamento, evoca sensazioni che non hanno nulla a che fare con l’inquietante. Il ritorno non intenzionale delle stesse cose, che ha avuto effetti inquietanti davvero indubbi, serve invece in tutta una serie di casi ad altri intenti e provoca effetti affatto diversi; abbiamo già visto un caso in cui è usato per provocare una sensazione di comicità, e di esempi di questo genere potremmo portarne a iosa; altre volte il ritorno ha valore di rafforzamento e così via. E poi da dove viene l’inquietudine dovuta al silenzio, alla solitudine, all’oscurità? Non alludono questi fattori alla parte del pericolo nella genesi dell’inquietante, essendo proprio queste le condizioni che più spesso determinano nei bambini le manifestazioni di paura? E come possiamo davvero trascurare del tutto il fattore dell’incertezza intellettuale, avendo ammesso la sua importanza per l’inquietante della morte?

Dobbiamo quindi essere pronti ad ammettere che, oltre alle già menzionate, altre condizioni siano materialmente determinanti per il sorgere del senso dell’inquietante. Pertanto si potrebbe dire che con la prima messa a punto l’interesse psicoanalitico per il problema dell’inquietante sia esaurito, e che quanto resta richieda verosimilmente un’analisi estetica. Ma così apriremmo la porta al dubbio su quale valore la nostra concezione dell’origine dell’inquietante dal familiare [heimisch] rimosso possa propriamente rivendicare.

Un’osservazione può indicarci la strada per risolvere queste incertezze. Quasi tutti gli esempi che contraddicono le nostre attese sono tratti dal regno della finzione, della fantasia. Il suggerimento è distinguere tra l’inquietante vissuto e quello solo immaginato o letto.

L’inquietante vissuto ha condizioni molto più semplici, ma comprende meno casi. Credo che si adatti senza eccezioni al nostro tentativo di soluzione, sempre ammettendo il rimosso già familiare. Tuttavia anche in questa materia dobbiamo premettere una distinzione importante e psicologicamente significativa, meglio riconoscibile su esempi appropriati.

Prendiamo l’inquietante dell’onnipotenza dei pensieri, dell’immediato appagamento del desiderio, delle occulte forze nefaste, del ritorno dei morti. Non si può non riconoscere la condizione che qui sottostà al senso d’inquietante. Noi, o i nostri primitivi antenati, abbiamo un tempo ritenuto tali possibilità reali, essendo convinti della realtà di tali processi. Oggi non ci crediamo più; abbiamo superato questo modo di pensare, ma non ci sentiamo del tutto sicuri delle nuove convinzioni; le antiche credenze sopravvivono ancora in noi in attesa di conferma. Ebbene, appena nella nostra vita si verifica qualcosa che sembra confermare le antiche convinzioni ormai dismesse, abbiamo il senso d’inquietante, a cui il giudizio può aggiungere: “Ma allora è vero che si può uccidere una persona con il solo desiderio, che i morti continuano a vivere e diventano visibili nei luoghi delle loro antiche attività, e via di seguito!” Per chi al contrario si è radicalmente e definitivamente liberato da queste convinzioni animistiche, questo tipo d’inquietante non ha luogo. La più straordinaria coincidenza di desiderio e realizzazione, la più enigmatica ripetizione di episodi analoghi nello stesso luogo o alla stessa data, le più ingannevoli percezioni visive e i rumori più sospetti, non lo sgomenteranno, non desteranno in lui alcuna angoscia che si possa definire angoscia da “inquietante”. Si tratta allora semplicemente di una faccenda che riguarda l’“esame di realtà”, di un problema di realtà (Realität) materiale.14

Le cose vanno diversamente con l’inquietante che deriva da complessi infantili rimossi, dal complesso di castrazione, da fantasie sul grembo materno e così via, solo che le esperienze reali che rievocano questo tipo d’inquietante non possono essere molto frequenti. Anche se l’inquietante vissuto rientra di solito nel primo gruppo, sul piano teorico la distinzione tra i due tipi è estremamente significativa. Nel caso dell’inquietante proveniente da complessi infantili, il problema della realtà materiale non si pone, essendo il suo posto preso dalla realtà psichica. Si tratta dell’effettiva rimozione di un contenuto e del ritorno del rimosso, non della sospensione della credenza nella realtà di tale contenuto. Si potrebbe dire che in un caso si rimuove un certo contenuto rappresentativo, nell’altro la credenza alla sua realtà (materiale). Quest'ultima espressione, però, estende verosimilmente l’uso del termine “rimozione” oltre i suoi confini legittimi. È più corretto tener conto di una differenza psicologica, qui chiaramente avvertibile, e dire che la condizione in cui le convinzioni animistiche dell’uomo civile si trovano è quella del superamento più o meno completo. Il nostro risultato stabilisce allora che l’inquietante vissuto si verifica quando i complessi infantili rimossi sono rivissuti attraverso un’impressione, o quando sembrano riconfermate convinzioni primitive superate. Infine, la predilezione per le soluzioni semplici e le esposizioni trasparenti non può trattenerci dal riconoscere che non sempre nell’esperienza vissuta è possibile separare nettamente i due tipi d’inquietante qui presentati. Se si pensa che le convinzioni primitive siano intimamente connesse ai complessi infantili e propriamente radicate in essi, il dissolversi di questi confini non stupirà molto.

L’inquietante della finzione, della fantasia e della letteratura, merita di fatto una considerazione a parte. Innanzitutto è molto più ricco dell’inquietante del vissuto; lo comprende nella sua totalità con molto altro, che nelle condizioni del vissuto non si dà. La contrapposizione tra rimosso e superato non si può trasferire all’inquietante letterario senza subire una profonda modificazione, perché come presupposto di validità il regno della fantasia ha di sottrarre il suo contenuto dall’esame di realtà. Il risultato paradossale è che in letteratura non sono inquietanti molte cose che lo sarebbero se accadessero nella vita, ed esistono molte possibilità per ottenere effetti inquietanti, che nella vita decadono.

Tra le molte libertà dell’autore c’è anche quella di scegliere a piacere come rappresentare il mondo, in modo che coincida con la realtà a noi consueta oppure se ne discosti per un verso o per l'altro. In ogni caso, noi lo seguiamo. Il mondo della favola, per esempio, ha abbandonato fin dall’inizio il terreno della realtà, apertamente riconoscendosi nelle convinzioni animistiche. Appagamento di desideri, forze occulte, onnipotenza dei pensieri, animazione di ciò che è inanimato, sono tutte cose assolutamente consuete nelle favole, dove non possono produrre alcun effetto inquietante, perché per produrre il sentimento inquietante si richiede, come si è visto, il conflitto tra giudizi opposti: se le convinzioni superate, ormai ritenute indegne di fede, non siano ciononostante realmente possibili. Questo è un problema che le premesse proprie del mondo della favola spazzano via interamente. Così la favola, che ha fornito la maggioranza degli esempi in contraddizione con la nostra ipotesi relativa all’inquietante, convalida la prima parte della nostra tesi, secondo cui nel regno della finzione non hanno effetto inquietante molte cose che certamente dovrebbero averlo se accadessero nella vita. Nella favola compaiono ancora altri elementi da affrontare brevemente in seguito.

L’autore può anche essersi creato un mondo che, meno fantastico di quello fiabesco, si differenzia tuttavia dal mondo reale perché include esseri spirituali superiori, demoni o spiriti di defunti. Finché sono coerenti con le premesse della realtà poetica, tali figure perdono ogni connotato inquietante. Le anime dell’inferno dantesco o le apparizioni di spettri nell’Amleto, nel Macbeth, nel Giulio Cesare di Shakespeare, per quanto possano essere fosche e spaventose, non sono in definitiva più inquietanti delle serene divinità del mondo cli di Omero. Adeguiamo il nostro giudizio alle condizioni della realtà che l’autore finge e trattiamo anime, spiriti e spettri come esistenze perfettamente giustificate, proprio come noi nella realtà materiale. Anche in questo caso ci si risparmia l’inquietudine.

Le cose vanno altrimenti se l’autore si è posto, a quanto sembra, sul terreno della realtà comune. Allora adotta tutte le condizioni che nella vita vissuta sono valide per dare origine al sentimento inquietante, e quindi tutto ciò che nella vita ha effetto inquietante l’ha anche nel racconto. Ma in questo caso l’autore può anche accrescere e moltiplicare l’inquietante ben oltre il limite possibile nella vita vissuta, facendo succedere eventi che nella realtà non sperimenteremmo mai o solo molto di rado. In questo modo ci abbandona in certa misura alla superstizione che pensavamo di aver superato; ci inganna promettendoci la realtà comune e poi la travalica. Noi reagiamo alle sue finzioni come reagiremmo alle nostre esperienze personali; quando ci accorgiamo dell'inganno, è troppo tardi; l’autore ha già raggiunto il suo scopo ma, devo dire, l’effetto ottenuto non è puro. Resta in noi un senso d’insoddisfazione, una sorta di astio per l’illusione che ha tentato di imporci, sensazione che ho provato in modo particolarmente chiaro leggendo il racconto La profezia di Schnitzler e analoghe produzioni letterarie ammiccanti alla sfera del meraviglioso. Tuttavia l’autore dispone ancora di un altro mezzo per prevenire la nostra ribellione e al tempo stesso perfezionare le condizioni che gli permettono di raggiungere i suoi scopi. Consiste nel tenerci per un bel po’ celate le premesse scelte per il mondo in cui si svolge la vicenda, o nell’evitare fino alla fine, con arte e malizia, ogni chiarimento decisivo in proposito. Tutto sommato, però, qui si dà il caso già citato prima: la finzione crea nuove possibilità di sentimenti inquietanti che nella vita vissuta non avrebbero corso.

A rigore, tutte queste varianti si riferiscono solo all’inquietante per ciò che è stato superato. L’inquietante da complessi rimossi ha maggiore resistenza e, a prescindere da un’unica condizione [vedi oltre], esercita il suo effetto in letteratura non meno che nella vita vissuta. L’altro inquietante, da convinzioni ormai superate, mostra il proprio carattere nella vita vissuta e nella letteratura che si pone sul terreno della realtà materiale, ma può perdere tale carattere nelle realtà fittizie create dall’autore.

È evidente che queste considerazioni non esauriscono l'ambito delle libertà concesse all’autore e dunque dei privilegi di cui la finzione letteraria gode per evocare e inibire il senso d’inquietante. Nei confronti della vita vissuta noi ci comportiamo in generale in modo uniformemente passiva soggiacendo all’influenza dei fatti materiali. Nei confronti dell’autore, invece, siamo particolarmente docili: grazie allo stato d’animo in cui ci trasferisce e le aspettative destate in noi, l’autore può distogliere i nostri processi emotivi da un certo esito per dirigerli verso uno diverso, spesso ottenendo dallo stesso materiale gli effetti più disparati. Tutto ciò è noto da tempo e verosimilmente valutato a fondo dagli specialisti di estetica. Noi siamo stati trascinati in questo campo di ricerca senza una vera intenzione, cedendo alla tentazione di chiarire certi esempi che contraddicevano la nostra derivazione dell’inquietante. Perciò vogliamo tornare ancora su alcuni di questi esempi.

Prima ci siamo chiesti perché la mano mozza che compare nella storia del tesoro di Rampsinito non abbia lo stesso effetto inquietante che ha, per esempio, nella Storia deIIa mano mozza di Hauff. La domanda ci sembra più significativa ora che abbiamo riconosciuto la maggiore resistenza all’inquietante dalla fonte di complessi rimossi. È facile rispondere: nel racconto di Erodoto ci sintonizziamo non sui sentimenti della principessa ma sulla superiore astuzia del ladrone. Può darsi che alla principessa non sia stato risparmiato il senso d’inquietante, vogliamo addirittura credere che sia svenuta, ma noi non proviamo nulla d’inquietante, perché non ci immedesimiamo in lei ma nell’altro personaggio.

Grazie a un’altra costellazione, nella farsa di Nestroy Il dilaniato, ci è risparmiata l’impressione inquietante per l’evaso, che si considera un assassino e da ogni botola, di cui solleva il coperchio, vede sorgere il presunto spettro dell'assassinato e sgomento esclama: “Ma io ne ho ucciso solo uno! Che senso ha quest’orribile moltiplicazione?” Conoscendo i precedenti della scena, non condividiamo l’errore del “dilaniato” e ciò che su di lui fa un effetto inquietante, su di noi fa un irresistibile effetto comico.

Perfino uno spettro “reale”, come nel racconto Il fantasma di Canterville di Wilde, è costretto ad abbandonare tutte le sue pretese di suscitare almeno un senso di orrore, quando lo scrittore ironizza su di lui e consente di schernirlo – tanto l’effetto emotivo può non dipendere dalla scelta del materiale nel mondo della finzione. Nel mondo delle favole non vanno risvegliati sentimenti di paura, quindi neppure inquietanti. Noi lo comprendiamo e per questo sorvoliamo sugli spunti che potrebbero dar luogo a qualcosa del genere.

Quanto alla solitudine, al silenzio e all’oscurità, non possiamo dire altro che sono realmente i fattori cui è legata l’angoscia infantile, mai del tutto sopita nella maggior parte degli uomini. La ricerca psicoanalitica si è occupata altrove di questo problema.

 

1Zur Psychologie des Unheimlichen” (Sulla psicologia dell’inquietante), Psychiatr.-neurolog. Wochenschrift, 1906, nr. 22 e 25.

2 D. Sanders, Wörterbuch der Deutschen Sprache, vol. 1, Lipsia 1860, p. 729.

3 [Grammaticalmente il contrario di “unheimlich”.]

4 Per la derivazione dei nomi: Coppella = crogiolo di prova (l’operazione chimica in cui perì il padre); coppo = cavità orbitaria (osservazione della signora Rank).

5 In effetti, l’elaborazione fantastica dell’autore non ha scardinato gli elementi del materiale in modo così selvaggio da non poter ricostruire l’ordine originario. Nella storia infantile il padre e Coppelius rappresentano l’imago paterna, dall’ambivalenza scissa in due opposti: uno minaccia l’accecamento (castrazione), l’altro, il padre buono, prega di risparmiare gli occhi del figlio. La parte del complesso più duramente colpita dalla rimozione, ossia il desiderio di morte del padre cattivo, è raffigurato dalla morte del padre buono per colpa di Coppelius. A questa coppia di padri corrispondono nella biografia successiva dello studente il professor Spallanzani e l’ottico Coppola, dove il professore è di per sé una figura appartenente alla serie paterna, mentre Coppola si identifica con l’avvocato Coppelius. Allo stesso modo in cui prima i due avevano lavorato insieme al misterioso braciere, così ora hanno confezionato in comune la bambola Olimpia; il professore è detto anche il padre di Olimpia. Attraverso questa duplice comunanza tradiscono la scissione dell’imago paterna, ossia tanto il meccanico quanto l’ottico sono il padre sia di Olimpia che di Nathaniel. Nella spaventosa scena infantile, dopo aver rinunciato ad accecare il piccolo, Coppelius provò a svitarne braccia e gambe, ossia agì su di lui come un meccanico con una bambola. Questo particolare, del tutto esorbitante dalla cornice dell’uomo della sabbia, mette in gioco un nuovo equivalente della castrazione; ma rimanda anche all’identità interiore di Coppelius con la sua futura controparte, il meccanico Spallanzani, e ci prepara a interpretare la figura di Olimpia. Questa bambola automatica materializza l’atteggiamento femminile del piccolo Nathaniel verso il padre. I padri di Olimpia – Spallanzani e Coppola – non sono che nuove edizioni, reincarnazioni dei due padri di Nathaniel. L’affermazione di Spallanzani, altrimenti incomprensibile, secondo cui l’ottico avrebbe rubato gli occhi a Nathaniel (vedi sopra) per metterli alla bambola acquista così un significato: testimonia l’identità di Olimpia e Nathaniel. Olimpia è per così dire il complesso distaccatosi da Nathaniel, che gli va incontro come persona; quanto sia dominato da questo complesso è espresso dall’insensato e ossessivo amore per Olimpia. Possiamo ben definirlo un amore narcisistico, e comprendiamo che chi ne è preda si estranei dall’oggetto reale d’amore. L’esattezza psicologica del fatto che il giovane fissato al padre dal complesso di castrazione diventi incapace di amare le donne è dimostrata da numerose analisi di malati, il cui contenuto, si capisce, è meno fantastico, ma poco meno triste della storia dello studente Nathaniel.

Hoffmann nacque da un matrimonio infelice. Quando aveva tre anni, il padre si separò dalla famiglia e non tornò mai più a vivere con loro. Secondo la documentazione portata da E. Grisebach nell’introduzione biografica alle Opere di Hoffmann, la relazione con il padre fu sempre una delle componenti più vulnerabili nella vita emotiva di questo scrittore.

6 O. Rank, Der Doppelgänger (Il sosia), Imago III, 97, 1914.

7 I poeti che lamentano che il petto dell’uomo ospiti due anime e gli psicologi popolari che parlano di scissione dell’Io, credo intravedano il dissidio, ormai parte della psicologia dell’Io, tra l’istanza critica e il resto dell’Io, e non l’antitesi, scoperta dalla psicanalisi, tra l’Io e il rimosso inconscio. La differenza comunque svanisce: sotto ciò che è rigettato dalla critica dell’Io si trovano immediatamente i derivati dal rimosso.

8 Nel Der Student von Prag di H. H. Ewers (1871-1943), da cui prese le mosse lo studio di Rank sul sosia, il protagonista promette all’innamorata di non uccidere in duello il rivale. Ma, recandosi verso la località prescelta per il duello, incontra il sosia, che ha già ammazzato il rivale.

9 P. Kammerer, Das Gesetz der Serie (Vienna 1919).

10 “Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva”, Gesammelte Werke, vol. VII.

11 Der böse Blick und Verwandtes (Il malocchio e affini), 2 Bde., Berlin 1910 u. 1911.

12 Vedi nel mio libro Totem e tabù (1912-13) il III capitolo, “Animismo, magia e onnipotenza dei pensieri”, dove c’è la nota: “Sembra che noi attribuiamo il carattere di “inquietante” alle impressioni che tendono a confermare l'onnipotenza dei pensieri e il modo di pensare animistico in generale, anche se nel nostro giudizio ce ne siamo già distolti”.

13 Cfr.Il tabu e l’ambivalenza” in “Totem e Tabu”.

14 Dato che anche l’inquietante del sosia è di questo genere, diventa interessante sapere che effetto faccia su di noi incontrare l’immagine della nostra persona non chiamata e inattesa. Ernst Mach riferisce due osservazioni di questo genere in Analisi delle sensazioni (Jena, 1900 p. 3). La prima volta si spaventò non poco riconoscendo che il viso che aveva visto era il suo; la seconda volta produsse un giudizio assai sfavorevole sullo sconosciuto (tale lo riteneva) che saliva sul suo omnibus: “Guarda chi si vede, un disgraziato maestro di scuola!”.

A mia volta posso raccontare un’avventura simile. Ero seduto, solo, nello scompartimento del vagone letto quando, per una scossa più violenta del treno, la porta che dava sulla toeletta attigua si aprì e un signore piuttosto anziano, in veste da camera, con un berretto da viaggio in testa, entrò nel mio scompartimento. Supposi che avesse sbagliato direzione nel venir via dal gabinetto tra i due scompartimenti, e che fosse entrato da me per errore; saltai su per spiegarglielo, ma mi resi subito conto, con grande sgomento, che l’intruso era la mia stessa immagine riflessa dallo specchio fissato sulla porta di comunicazione. Ricordo tuttora che l’apparizione non mi piacque affatto. Anziché spaventarci alla vista del nostro sosia, quindi, tanto Mach che io semplicemente non lo avevamo riconosciuto. Non escluderei che la brutta impressione destata in noi fosse in definitiva un residuo della reazione arcaica che percepisce il sosia come inquietante.

Loading

Autore

3 Commenti

  1. dinange

    perchè non ‘perturbante’?
    perchè non ‘perturbante’?

    Rispondi
    • admin

      chiedilo ad Antonello in ogni
      chiedilo ad Antonello in ogni caso è la traduzione dal tedesco al do fuori della tradizione

      Rispondi
      • antonello.sciacchi16

        Ho gettato un sasso nelle
        Ho gettato un sasso nelle acque quiete del freudismo? Per carità, non voglio inquietare nessuno, sostituendo “inquietante” a “perturbante”. Voglio solo passare da un livello di discorso oggettivo a uno soggettivo. Si può?
        Il mio vangelo, il dizionario italiano Sabatini-Coletti, riporta alla voce perturbante: “Alterazione di uno stato di equilibrio o di quiete” e poi “Confusione, disorientamento, sconvolgimento”. In fisica c’è la teoria delle perturbazioni, in cui si modifica leggermente l’orbita di una particella per vedere l’effetto sulle orbite delle altre particelle, un trucco matematico per studiare le interazioni tra particelle. Allora si parla di perturbazioni atmosferiche, magnetiche and so on.
        Traducendo “inquietante”, ho voluto uscire dal riferimento fisicalista, che dà al testo freudiano un falso riferimento scientifico. Già Freud di suo è poco scientifico, nel senso galileiano del termine – non citò mai Galilei, per esempio. Perché, allora, introdurre nel suo testo un falso riferimento scientifico traducendo unheimlich con “perturbante”?
        Giustificazione non secondaria: anche Freud propone per la traduzione francese: inquiétant. La mia traduzione non mi sembra rivoluzionaria. Per il resto è una traduzione molto letterale, per quanto è possibile traducendo dal tedesco, una lingua con assetti sintattici molto (ma molto) diversi da quelli dell’italiano.

        Rispondi

Invia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Caffè & Psichiatria

Ogni mattina alle 8 e 30, in collaborazione con la Società Italiana di Psichiatria in diretta sul Canale Tematico YouTube di Psychiatry on line Italia