Sigmund Freud, Der Mann Moses und die monotheistische Religion,
in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. XVI, p. 103.
Traduzione di Antonello Sciacchitano
Milano, 2021
Prefazione del traduttore
L’Uomo di Ur ovvero l’uomo di “prima”
A tutto ciò che ha a che fare con l’origine della religione, certo anche dell’ebraica, aderisce qualcosa di grandioso che le nostre precedenti spiegazioni non hanno toccato.
S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteistica.
Quanto prima
Come Abramo, più di Abramo, Freud merita il titolo di Uomo di Ur. Nelle 7000 pagine delle sue Gesammelte Werke le parole che cominciano con la sillaba Ur, con il senso di venire “prima” per importanza o per tempo, come Urteil, giudizio, Ursache, causa, Urvater, padre primitivo, Urverdrängung, rimozione originaria, Urzeit, preistoria, sono 2625 su 1909 pagine. In pratica, sfogli tre pagine e trovi un riferimento a qualcosa che “viene prima”.
Il titolo mi è stato suggerito dall’analisi statistica dei tre saggi che compongono l’ultima performance di Freud, il romanzo storico L’uomo Mosè e la religione monoteistica, che parla del non ebreo, venuto prima degli ebrei, loro padre primigenio nonché putativo. Da lacaniano potrei sviluppare considerazioni sulla sessuazione maschile dell’uno non castrato mentre tutti sono castrati. Preferisco fare un discorso più aderente alla scrittura freudiana. A parte piccole differenze tra i tre capitoli del romanzo, le frequenze delle pagine con zero o più ricorrenze della sillaba iniziale Ur si distribuiscono così tra le complessive 144 pagine:
0 ricorrenze in 72 pagine,
1 ricorrenza in 46 pagine,
2 ricorrenze in 14 pagine,
3 ricorrenze in 9 pagine,
4 ricorrenze in 3 pagine.
La media è di circa 0,78 ricorrenze per pagina; la distribuzione si discosta molto dal modello stocastico poissoniano (p0 < 0,01), basato su due premesse: la probabilità dell’evento è costante e una ricorrenza non influenza la successiva, come le morti per calcio di cavallo nei reggimenti dell’esercito prussiano nel 1898. Insomma, la statistica fa pensare che, a prescindere dal significato di ciò che scriveva, Freud abbia scritto il suo romanzo storico con una macchina da scrivere, congegnata in modo da infilare la sillaba iniziale ur quasi una volta per pagina e tanto più facilmente quanti più ur sono già presenti. Dove ricorre Urhorde è più facile trovare Urvater o Urzeit e viceversa.
Prima che vada avanti, chi legge vorrebbe interrompermi per chiedermi: “Ma da dove ti viene in mente questa bizzarra idea di analizzare statisticamente gli scritti di Freud, a prescindere dal loro significato, come se fossero le estrazioni di una lotteria?” Rispondo volentieri perché non interrompo il discorso avviato. In realtà, il mio interesse per la ricorrenza della sillaba iniziale Ur nei testi freudiani è connesso a un problema epistemologico non futile: la rilevanza nel discorso di Freud del termine Ursache, “causa”, letteralmente la cosa che viene prima dell’effetto. Non c’entra Urlaub, “vacanza”.
Il mio interesse per il problema eziologico in Freud risale al 1991, trent’anni fa, ai tempi del convegno romano Lacan in Italia. Allora lessi un testo, omesso dagli atti del convegno, intitolato “Preparare la scienza correggendo la posizione dell’etica”, tesi enunciata da Lacan nella prima pagina del suo saggio Kant avec Sade (1963).1 Alla luce dei successivi trent’anni di lavoro, la mia interpretazione di Lacan si è molto semplificata e precisata: la correzione dell’etica antica, che produsse la scienza moderna, fu la sospensione – il fenomenologo direbbe l’epochè – della nozione di causa. Il soggetto della scienza moderna agisce in modo autonomo e libero, non determinato da causalità estrinseche che lo precedano, neppure di tipo finalistico. Di conseguenza anche la produzione scientifica è poco eziologica.
Inventando la dinamica, Galilei sospese la nozione di causa del moto; infatti, inconcepibile per gli antichi, ammise il moto inerziale del mobile che prosegue il proprio percorso rettilineo a velocità uniforme in assenza di forze che lo modifichino. Si tratta di un moto che non ha un prima perché è già da prima: è causa di sé stesso. La nuova scienza corregge l’etica delle cause; meno deterministica dell’antica, diventerà espressamente probabilistica con la meccanica quantistica. Freud non registra l’evento; non parla di probabilità ma di verosimiglianza, grazie a due premesse, una individuale, l’altra collettiva. Per Freud non c’è ragione di pensare in termini probabilistici; “prima” di ogni altra viene la verità certa del parricidio; per la lingua tedesca probabilità e verosimiglianza si dicono allo stesso modo, Wahrscheinlichkeit. Per il tedesco è verosimile, cioè attendibile, che il “dopo” sia simile al “prima” in nome del principio di ragione.
Semplice, ma non per questo facilmente accettabile. La resistenza dei freudiani ad accettare la correzione dell’etica è dovuta al fatto che Freud stesso non si corresse. Non sospese la causa. Infatti, nella sua metapsicologia le cause pulsionali spadroneggiano; i suoi testi metapsicologici sono scorribande narrative che raccontano sempre la stessa favola del prima, che vien prima, e del dopo, che vien dopo. In questo senso la “nuova scienza” freudiana, la junge Wissenschaft di Freud, nacque antica: per ogni effetto psichico presupponeva un “prima”, una causa psichica, la pulsione, che determina “dopo” la soddisfazione libidica (chiusura causale). Pur non conoscendo Aristotele,2 che arrivò a lui contrabbandato dall’antica medicina di Ippocrate, Freud praticò l’aristotelico scire per causas: pretendeva di comprendere, begreifen, gli effetti psichici, riconoscendone le cause. Freud distingueva le cause efficienti, le pulsioni sessuali, dalle cause finali, le pulsioni di morte. Le prime sono veramente prime nel senso che vengono prima nel produrre la soddisfazione sessuale; le seconde si potrebbero dire cause ultime, nel senso che vengono dopo il trauma e tendono ad acquietare ogni tensione libidica post-traumatca.
Queste sono le due facce del “prima” che domina tutta la metapsicologia freudiana, degna della migliore tradizione alchemica, prolungata e confermata dalla psicologia archetipica di Jung, sua figlia naturale, da Freud non riconosciuta. Ho giustificato a sufficienza la mia ricerca statistica sulle ricorrenze di Ur in Freud? Tento, allora, di dare una spiegazione scientifica, documentata testualmente, di quel che nel terzo saggio sull’Uomo Mosè e la religione monoteistica Freud chiamò “imperativo bisogno di causalità”3 (gebieterisches Kausalbedürfnis). Tento di spiegare, senza voler comprendere, un fenomeno di pensiero assai diffuso dentro e fuori dalla psicanalisi; pretendo erklären al posto di begreifen; miro al “come” e sospendo il “perché”.
Devo innanzitutto dire che per il senso comune la transizione verso la moderna forma di scientificità che, ripeto, non è deterministica ma probabilistica, non è facile da comprendere, quindi da accettare. Il fenomeno si spiega storicamente, però, e non sarebbe difficile da comprendere. Dal 22 giugno 1633, quando si concluse con la condanna il processo della Chiesa cattolica a Galilei, alla scienza moderna i moderni resistono. Non perché siano particolarmente religiosi. Alla nuova forma di scienza, basata sulle “sensate esperienze e necessarie dimostrazioni” resistono allo stesso modo sia credenti sia non credenti, perché non vi trovano verità eterne da far proprie ma solo congetture, cioè verità incerte, addirittura “non vere”, ma false, che procedono dal falso al meno falso. Anche Freud resistette alla scienza moderna. In biblioteca non aveva le opere né di Galilei né di Cartesio. Non citò mai Galilei nelle Gesammelte Werke, affascinato com’era da Leonardo, più artista che uomo di scienza. Il senso comune, compreso quello psicanalitico, pretende verità certe, anche se false. Da Freud in poi, il senso psicanalitico si basa sulla verità mitologica dell’Edipo, un’esemplare verità narrativa, pre-cartesiana, posta assiomaticamente al di là di ogni dubbio, quindi non scientifica. Freud la riconosceva come il suo shibboleth.
Freud non fu un caso unico e neppure raro. Tuttora si resiste alla scienza in nome del riduzionismo; i lacaniani di scuola parlano di preclusione del soggetto da parte del discorso scientifico, classificato come paranoico. La diffidenza nei confronti della scienza anima i movimenti negazionisti. Freud l’aveva capito: un percorso di psicanalisi si fa strada attraverso resistenze. Credeva che fossero le resistenze ad accettare la mitologia edipica; molto più semplicemente e molto più in generale si resiste a un sapere che prescinda da enti a priori, le cause prime, le verità edipiche comprese. Sospendere la verità, vuol dire cadere nell’incertezza e questo non piace molto, anzi per nulla, a molti. L’uomo pretende certezze, non importa quanto false. I preti lo sanno bene, prima e meglio dei filosofi. Le certezze religiose o metafisiche sono più gradite delle congetture scientifiche, che non sono né vere né false, come il moto inerziale.
Mi preme chiarire che non sto parlando da antifreudiano. La mia critica a Freud è troppo pertinente per formularsi all’esterno del pensiero freudiano. Questa nuova traduzione dell’Uomo Mosè dovrebbe bastare a testimoniare la mia amicizia per Freud, il mio modo di “tornare a Freud”. Riconosco che il riferimento al “prima” è una premessa necessaria al freudismo per passare dalla psicologia individuale alla collettiva, da Freud chiamata, a mio parere riduttivamente, “psicologia delle masse”, Massenpsychologie, che è pure il tema prevalente dell’Uomo Mosè nella versione di “massa ebraica”. Freud stesso riconobbe che non è facile passare dall’individuale al collettivo.4 Senza affrontare lo scivoloso argomento della posizione di Freud verso la civiltà,5 qui mi limito ad affermare che il riferimento al “prima” è indispensabile a Freud per tradurre analogicamente la psicologia individuale in collettiva, grazie alla nozione comune ad entrambe di “tempo di latenza” (Latenzzeit). L’intero paragrafo C del terzo saggio sull’Uomo Mosè sviluppa tale analogia.6 Qualche riga più in là aggiunse sconsolato: “Non fu però facile introdurre la rappresentazione dell’inconscio nella psicologia delle masse”.7 Aveva forse intuito che non si può appiattire il collettivo sull’individuale?
E dopo?
Per parlare della verità, sono costretto ad allargare l’orizzonte, passando dalla statistica alla filosofia, in cui mi limiterò a intingere l’alluce. Nella logica del prima, il “prima” è l’assioma e il “dopo” il teorema; in linguaggio freudiano il dopo si chiama nachträglich, in lacanese après-coup: entrambi porgono la verità del prima che prima non si sapeva. L’eziologia gioca nell’intervallo tra il prima e il dopo; la sua verità deve attraversare un tempo di latenza, che meno ontologicamente di Freud preferisco chiamare “tempo di sapere”.8
Aristotele fondò la conoscenza eziologica: verum est scire per causas. In questo apoftegma si annodano i tre termini del gioco epistemologico antico: verità, sapere, causa. Si gioca alle seguenti condizioni: la verità è una, cioè è riassumibile in un concetto, e il sapere la riconosce come causa, applicando il principio di ragion sufficiente, per cui ogni effetto ha una causa. Il pensiero antico non conosce il non concettuale; ignora il “non tutto” di Lacan o le classi proprie di von Neumann, che non sono elementi di un insieme. Ammette solo l’universale “buono”, secondo Hegel, cioè il tutto che è uno. Nel linguaggio di Totem e tabù, il totem è ciò che unifica il clan e ne fa un insieme in funzione del Nome del Padre. In senso più astratto, ciò che unifica il tutto nell’uno è la sua causa, cioè la sua sufficiente ragion d’essere. In effetti, il totem è il capostipite del clan. Siamo in pieno discorso ontologico, dove sapere è sapere le cause, che precedono gli effetti. Il tandem prima/dopo è il veicolo su cui viaggia la verità storica, pedalando sulla verità materiale, nota dicotomia freudiana.
Due millenni dopo Aristotele, Hume fece crollare il castello eziologico dello Stagirita. Il principio di ragion sufficiente è privo di valore trascendentale. È un semplice pretesto euristico basato sull’abitudine a constatare l’associazione tra la causa supposta e il suo effetto reale. Certo, conserva un valore soggettivo, che sarà ripreso da Kant nelle sue categorie, ma non ha valore oggettivo: non è un fatto, anche se serve a stabilire fatti. Per esempio, non serve a dimostrare che i vaccini provocano l’autismo. Serve solo come bias di conferma a stabilire e diffondere fake news: se c’è l’effetto vuol dire che c’è stata la causa; se è bagnato per terra, è perché “verosimilmente” ha piovuto. Wittgenstein chiuse il discorso nell’unico libro pubblicato in vita; stabilì che credere al nesso di causa ed effetto è pura superstizione.9 La psicanalisi direbbe che il discorso eziologico è un delirio con un nocciolo di verità.
Fine di Ur? Non del tutto. Finisce il principio di ragion sufficiente basato sul tempo cronologico del prima/dopo. Resta valida la causazione, Verursachung, al tempo zero, quando l’effetto produce sé stesso, senza dover attendere la causa, perché è causa di sé stesso, causa sui, diceva Spinoza. È il caso dei processi a retroazione positiva o negativa. Per esempio, il ghiacciaio si scioglie perché si scioglie: tanto minore la massa, tanto più facile è che si scaldi e quindi si sciolga. La psiche sarebbe un ghiacciaio, causa di sé stesso? L’ipotesi è interessante, ma per ora non abbiamo sufficienti attrezzi teorici per darne un modello credibile.
Freud ci prova, abbozzando una psicologia della religione. Avverte oscuramente un “prima”: la presenza di quella cosa non concettuale che è l’infinito, ma non lo nomina, come nell’esergo riportato.10 Non siamo lontani da Avvenire di un’illusione di un decennio prima, dove Freud parla di sentimento oceanico alla base del senso religioso, cui lui stesso sarebbe estraneo. Mentiva. Nel romanzo qui tradotto il prima, grandioso, e il dopo, un po’ meno, sono personificati ed esaltati. Sulla scena compaiono ben due padri fondatori: il Mosè egizio, sacerdote del dio Aton, e il Mosè madianita, prete del dio vulcanico Yahwè. Tra i due Mosè Freud infila il parricidio del primo, elemento cardine, nonché sintomatico, della propria personale mitologia edipica, anche se storicamente verosimile. Il monoteismo ebraico sarebbe il ritorno del primo dio rimosso nelle vesti del secondo.
Mitologia a parte, il romanzo freudiano coglie una verità che non è storica ma scientifica: la verità dell’infinito. In proposito la statistica non lascia dubbi: il termine “infinito” (unendlich) non ricorre nel romanzo di Mosè. Proprio per questo sostengo non tanto paradossalmente che il romanzo abbia come protagonista sotto traccia – Freud direbbe rimosso – l’infinito, che si presenta in scena con due maschere: la maschera dell’uno e la maschera del due. L’accoppiamento produce l’infinito con la maschera di Dio. Siamo difronte all’“emergere dell’idea di un unico grande Dio”.11
Freud ha difficoltà a “capire perché debba esserci un dio unico, perché proprio il progresso dall’enoteismo al monoteismo acquisti il significato predominante”.12 Si limita a giustificarlo come psicogenesi di un’idea coatta legata al ritorno del padre nel parricidio rimosso. Cercherò di allargare il discorso con una considerazione matematica elementare, anzi assiomatica.
Prima di dedicarmi al temuto excursus matematico, mi soffermo un attimo per smontare un clamoroso “falso” freudiano, che può ostacolare la comprensione di quanto precede. Mi riferisco all’affermazione, già presente in Totem e tabù e ribadita in L’Uomo Mosè, che in Descent of Man (1872), l’unica opera di Darwin che Freud aveva in biblioteca, Darwin13 abbia esposto il mito dell’orda primitiva (die Urhorde), retta da un “forte stallone” (ein starke Männchen), Lacan direbbe l’uno non castrato, che teneva per sé tutte le donne, un’evidente fantasia di desiderio di Freud. Darwin non amava la mitologia; preferiva ragionare. Non parlò mai né di stalloni né di orde ma di piccole comunità (small communities). Il fatto curioso è che Freud abbia utilizzato proprio questo termine (kleine Gemeinschaften14) per descrivere le organizzazioni sociali dei fratelli espulsi (ausgetrieben) dall’orda paterna. Noi freudiani dobbiamo accontentarci di verità latenti nel delirio di Freud.15
Uno, due,… infinito
Dovrei dire infiniti… ma questo è un discorso per un’altra volta.
Ai tempi in cui a Vienna Freud iniziava a scrivere l’Uomo Mosè, a Parigi un collettivo di pensiero matematico, intitolato goliardicamente al generale napoleonico Nicolas Bourbaki (si preparava all’invasione tedesca?), progettava un’enciclopedia elementare della matematica allora nota, intitolato in modo euclideo Éléments de Mathématique. Il primo volume era dedicato alla teoria degli insiemi, intesa come base di tutta la matematica, alla luce di una sorta di monoteismo matematico.16 Gli assiomi di partenza dell’insiemistica bourbakista sono quattro, di cui almeno tre riguardano il discorso qui svolto.
Il primo assioma, l’assioma di equivalenza, stabilisce che due insiemi sono uguali se hanno gli stessi elementi.17 Questo assioma fonda l’insieme come “uno” in senso estensionale. (La teoria degli insiemi si può considerare una teoria della res extensa cartesiana). Tratta il passaggio dall’individuale – gli elementi – al collettivo – l'insieme. È un assioma ormai un po’ vecchiotto, che definisce l’insieme come riunione dei suoi elementi. Incorpora l’originale “definizione” di insieme secondo Cantor:
Con “insieme” intendiamo ogni riunione in un intero M di m oggetti determinati e ben distinti della nostra intuizione o del nostro pensiero, detti “elementi” di M.18
Ho detto vecchiotto, perché nella moderna teoria algebrica delle categorie si concepisce l’insieme come oggetto in sé, a prescindere dai suoi elementi, che si può trasformare in altri oggetti e può avere sotto-oggetti. Oggi è l’insieme a determinare i suoi elementi – a farne un “uno” – non viceversa gli elementi l’insieme. Essenziale è la funzione dell’insieme vuoto, l’insieme senza elementi, insieme iniziale di tutte le trasformazioni, sotto-oggetto di tutti gli oggetti.
Nel caso in esame l’insieme degli ebrei è sempre lo stesso, perché gli elementi sono sempre gli stessi ebrei di “dura cervice”; cambia l’esponente, Mosè, che non è ebreo – ek-siste – ma una volta è egizio e l’altra madianita. Il padre è ontologicamente straniero. Detto in modo meno mitologico, l’insieme non è un elemento dell’insieme stesso (assioma di fondazione o di regolarità secondo Fraenkel).
Il secondo è l’assioma della coppia.19 Fonda il due. Stabilisce che se x e y sono oggetti diversi, allora esiste l’insieme i cui unici elementi sono x e y. A prima vista non sembra, perché Aristotele non lavorava con assiomi, ma l’assioma della coppia è aristotelico. Infatti, prefigura l’infinito potenziale; aggiungendo a un insieme finito un secondo e diverso insieme finito, si ottiene un insieme finito più grande; il processo può potenzialmente continuare all’infinito in modo ricorsivo, senza mai raggiungere l’infinito in atto. La tesi che l’auto-dispiegamento della “duità” porti all’infinito fu esposta da Brouwer nella conferenza su “Matematica, scienza e linguaggio”, tenuta a Vienna il 10 marzo 1928. Freud aveva appena pubblicato Avvenire di un’illusione.
Il terzo assioma è detto assioma delle parti (o assioma potenza).20 Stabilisce che per ogni insieme esiste l’insieme delle sue parti (o sottoinsiemi) o insieme potenza. Non ho fatto uso di tale assioma nel mio discorso. Si potrebbe utilizzarlo per ampliare il discorso a infiniti sempre più grandi. Sarebbe un discorso che esula dal monoteismo, affermando che non esiste il dio “ultimo” e “unico”, di cui non si possa pensare un dio più grande, come pretende l’argomento ontologico di Anselmo. Lo stabilisce il famoso teorema di Cantor secondo cui non esiste una corrispondenza biunivoca tra un insieme e l’insieme delle sue parti, che ha più elementi dell’insieme dato.21
In termini freudiani, non esiste Mosè al di fuori del monoteismo. In altri termini, il monoteismo è condizione necessaria per l’esistenza di Mosè. Ossia, la verità del monoteismo è che, se c’è un solo Dio, c’è il suo profeta. Non vale il viceversa – se c’è il suo profeta, c’è il suo Dio – come vorrebbe farci credere Freud. L’assioma potenza, che non ho sfruttato a fondo, getta luce all’attaccamento sintomatico di Freud al problema monoteistico. Chiaramente a Freud non interessava il problema teologico se esistesse un dio unico o multiplo. A Freud interessava dimostrare che il suo popolo fosse unico come unico era il suo dio. Questo è anche il tratto sintomatico della freudiana Massenpsychologie: la massa è una e unica, perché identificata a un ben preciso Führer. Che altro fu Mosè? Il Führer dell’esodo degli ebrei dall’Egitto. Nel caso specifico dell’ebreo Freud un Führer reale causò il suo esodo da Vienna. La storia è fatta di simmetrie, di corsi e ricorsi equivalenti anche se diversi.
Il quarto assioma è il vero è proprio assioma dell’infinito in atto, che si può formulare semplicemente così: esiste un insieme infinito,22 posto che un insieme sia infinito se non è finito. Bourbaki fa notare che tuttora non si sa derivare l’assioma dell’infinito dagli altri assiomi, come l’assioma della parallela (un tipico assioma dell’infinito) dagli altri assiomi euclidei. Tuttavia si danno diversi modelli di infinito: i numeri interi sono infiniti numerabili, i numeri reali sono infiniti non numerabili, e non sono i soli modelli di infinito. Esiste un’interessante congettura di Cantor, si potrebbe dire un nuovo assioma insiemistico, come tale riconosciuto solo negli anni Sessanta del secolo scorso: tra l’infinito numerabile degli interi e l’infinito non numerabile dei reali non esistono infiniti intermedi, come tra 0 e 1 non esistono altri numeri interi.
Mi fermo qui perché ho la sensazione che la verità matematica dell’infinito non giovi alla “causa” del monoteismo, che si avvantaggia di più con la verità storica, derivata dalla materiale. La matematica, infatti, non è il discorso né dell’uno23 né del prima, in particolare non è un discorso sulle cause. Euclide precedette Galilei di 18 secoli nella sospensione delle cause. Il triangolo rettangolo non causa il teorema di Pitagora, che è la conseguenza logica dell’unicità dell’angolo retto (IV postulato) e della parallela a una retta per un punto (V postulato).
Perciò lascio la parola a Freud nella sua introduzione al Mosè del 9 agosto 1934, che non fu pubblicata, perché ben ci prepara alla lettura del suo romanzo. Dopo tutto l’uomo di Ur, l’uomo del prima/dopo, il nonno che imparò qualcosa dal nipotino che con un rocchetto attaccato a un filo giocava al fort/da, è homo in fabula. La sua storia è contraddittoria: da una parte assume l’assenza di tempo nell’inconscio, dall’altra basa sul tempo eziologico tutta la sua metapsicologia. Il romanzo fu il suo trucco per dominare la contraddizione, innestando la sincronia simbolica dei Mosè nella diacronia reale degli ebrei. Un’ammirevole performance, immaginaria, purtroppo inimitabile.
“Il romanzo storico” (Freud)
Come dall’unione sessuale tra cavallo e asino originano due differenti ibridi, il mulo e il bardotto, così l’unione tra storiografia e libera invenzione genera prodotti differenti che, sotto la comune designazione di “romanzo storico”, pretendono d’esser valutati ora come storie, ora come romanzi. Di essi, gli uni trattano di persone e fatti storicamente noti, non mirando però a renderne fedelmente la singolarità. Prendono a prestito l’interesse dalla storia, ma la loro intenzione è quella del romanzo; vogliono abbozzare quadri vivaci e muovere affetti. Altre creazioni letterarie si comportano in modo affatto opposto. Non si fanno scrupolo di inventare persone e addirittura fatti, sperando con questo espediente di riuscire a descrivere in modo particolarmente pertinente il carattere proprio di un’epoca storica. Ciò cui tendono è dunque in prima linea la verità storica, nonostante la confessata finzione. Altri ancora riescono a conciliare, fino a un certo punto o ampiamente, le esigenze della creazione artistica con quelle della fedeltà storica. Basta un sommesso accenno a quanta creazione poetica s’insinua nell’esposizione di chi scrive storia, pur contro le proprie intenzioni.
Se tuttavia io, che non sono né ricercatore in storia né artista, definisco uno dei miei lavori come “romanzo storico”, questo termine deve consentire ancora un altro uso. Sono stato educato all’osservazione accurata di un determinato ambito di fenomeni,24 e per me all’elaborazione letteraria e all’invenzione si collega facilmente la macchia dell’errore.
La mia successiva intenzione era di acquisire una conoscenza della persona di Mosè; il mio fine ultimo era di contribuire in tal modo alla soluzione di un problema ancor oggi attuale, che solo in un secondo momento potrà esser menzionato. Lo studio di un carattere richiede di fondarsi su materiale attendibile; ma nulla di ciò che è disponibile sull’uomo Mosè si può dire tale. È una tradizione da una sola fonte, non confermata altrove, verosimilmente fissata per iscritto troppo tardi, piena di contraddizioni interne, certamente più volte rielaborata e deformata per influsso di nuove tendenze, intimamente intessuta dei miti nazionali e religiosi di un popolo.
Sarebbe giustificato troncare il tentativo perché disperato, se la grandezza della figura non controbilanciasse la sua lontananza, inducendo a rinnovare gli sforzi. Ci si accinge dunque a usare ogni singola possibilità che il materiale offre come punto d’appoggio e a colmare le lacune tra un frammento e l’altro secondo la legge, per così dire, di minima resistenza, preferendo le ipotesi cui si possa attribuire la verosimiglianza maggiore. Ciò che si ottiene con l’aiuto di questa tecnica si può anche concepire come una sorta di “romanzo storico”. Non possiede alcun valore di realtà o solo uno indeterminabile. Infatti, una verosimiglianza, per quanto elevata, non coincide con la verità. La verità è spesso molto inverosimile e solo in misura esigua deduzioni e congetture possono sostituire le prove dei dati di fatto.
Nota di traduzione
Segnalo alcune divergenze lessicali tra questa traduzione e le traduzioni correnti di Freud.
Affekt, non è tradotto “affetto” ma “eccitazione”.
Besetzung, non è tradotto “investimento” ma “occupazione” (libidica).
Inzestscheu, non è tradotto “orrore dell’incesto” ma “fobia dell’incesto”.
Kastration, non è tradotto “evirazione” ma “castrazione”.
Psychoanalyse non è tradotto “psicoanalisi” ma “psicanalisi”.
Unlust, non è tradotto “dispiacere” ma “malavoglia” o “avversione”.
Primo saggio
Mosè, un egizio
Contestare a un popolo l’uomo celebrato come il più grande dei suoi figli non è impresa né gradevole né facile, tanto più appartenendo a quel popolo. Ma non c’è caso per quanto esemplare che possa portare a subordinare la verità a presunti interessi nazionali; solo chiarendo un dato di fatto, possiamo attenderci qualche profitto per il nostro modo di vedere.
L'uomo Mosè, liberatore, legislatore e fondatore religioso del popolo ebraico, appartiene a tempi tanto remoti che non è lecito aggirare la questione preliminare se sia personalità storica o creazione leggendaria. Se visse realmente, fu nel XIII o forse nel XIV secolo prima del nostro computo del tempo; di lui non abbiamo altre notizie, se non quelle provenienti dai libri sacri e dalle tradizioni trascritte dagli Ebrei. Pur non raggiungendo la certezza ultima e decisiva, la stragrande maggioranza degli storici ammette che Mosè sia realmente esistito e che l’esodo dall’Egitto, a lui connesso, si sia effettivamente verificato. A buon diritto si afferma che, non ammettendo tale presupposto, la storia successiva del popolo di Israele sarebbe incomprensibile. La scienza odierna è diventata più prudente; tratta le tradizioni con molto più riguardo della critica storica iniziale.
La prima cosa ad attirare il nostro interesse per la persona di Mosè è il nome, che in ebraico suona Mosheh.25 Ci si può chiedere da dove venga e cosa significhi. Come è noto, già il racconto dell’Esodo (2, 10) dà una risposta. Racconta che la principessa egizia, salvatrice del fanciullino esposto al Nilo, gli dette questo nome su base etimologica: “Perché l’ho tratto dall’acqua”. La spiegazione è chiaramente insufficiente. Secondo un autore del Jüdisches Lexikon,26 “l’interpretazione biblica del nome, ‘colui che è stato tratto dall’acqua’, è un'etimologia popolare, che non si accorda con la forma attiva del verbo ebraico (Mosheh può al massimo significare ‘colui che trae fuori’)”. Si può confermare il rifiuto con due altri argomenti; anzitutto, non ha senso attribuire a una principessa egizia la derivazione del nome dall’ebraico; poi, molto verosimilmente l’acqua da cui il bimbo fu tratto non fu del Nilo.
Per contro, da molto tempo e da diverse parti si è congetturato che il suo nome di condottiero, “Mosè”, derivi dal lessico egizio. Invece di citare tutti gli autori che si sono espressi in questo senso, mi limiterò a inserire il passo dedicato all’argomento nel recente libro di J. H. Breasted,27 autore di una History of Egypt (1906), giudicata fondamentale. “È importante osservare che il suo nome di condottiero, Mosè, era egizio. È semplicemente la parola egizia mose, che vuol dire ‘bambino’; è l’abbreviazione di forme nominali più estese come Amen-mose, che significa ‘Amon-bambino’, o Ptah-mose, che vuol dire ‘Ptah-bambino’, nomi a loro volta abbreviazioni della forma completa ‘Amon (ha dato) un bambino’ o 'Ptah (ha dato) un bambino’. Ben presto l’abbreviazione ‘bambino' divenne una forma rapida, più comoda dell’ingombrante nome intero; il nome Mose, ‘bambino’, non è raro nei monumenti egizi. Il padre di Mosè senza dubbio prepose al nome del figlio quello di un dio egizio come Amon o Ptah; nella vita quotidiana il nome divino andò man mano perso, finché il bambino fu semplicemente chiamato Mose (la s finale dell’inglese ‘Moses’ proviene dalla traduzione greca dell’antico Testamento; non appartiene all’ebraico, che ha Mosheh)”.
Ho citato il luogo alla lettera ma non sono affatto disposto a condividere la responsabilità delle singole affermazioni. Mi meraviglia anche un po’ che nella sua enumerazione Breasted abbia trascurato proprio gli analoghi nomi teofori delle liste dei re egizi, come Ah-mose, Tuht-mose e Ramses (Ra-mose).
Ora ci aspetteremmo che qualcuno dei molti studiosi che hanno riconosciuto in Mosè un nome egizio avesse tratto anche la conclusione, o almeno valutato la possibilità, che il portatore del nome egizio fosse egizio. Per i tempi moderni ci permettiamo senza esitare conclusioni del genere, anche se oggi le persone non portano un solo nome, ma due, cognome e nome, e non sono escluse variazioni del nome o il passaggio ad altri nomi simili in nuove circostanze. Perciò non ci sorprende trovare confermato che lo scrittore Chamisso fosse di origine francese, Napoleone Bonaparte italiana, e che Benjamin Disraeli fosse in realtà un ebreo italiano, come ci si attende dal nome. E quanto ai tempi antichi e remoti, dedurre la popolazione di appartenenza dal nome dovrebbe apparire ancora più lecito, anzi necessario. Eppure, a mia conoscenza, nel caso di Mosè nessuno storico ha tratto tale conclusione, neppure chi, come lo stesso Breasted, è disposto a supporre che Mosè avesse familiarità “con tutta la sapienza degli Egizi”.28
Non si indovina di sicuro quale sia stato l’ostacolo. Forse fu l’insuperabile rispetto per la tradizione biblica. Forse sembrò mostruoso affermare che Mosè fosse altro che ebreo. In ogni caso, per giudicare l’origine di Mosè, vien fuori che non si ritiene decisivo riconoscere il nome egizio e non se ne deduce altro. Considerata rilevante la questione della nazionalità di questo grand’uomo, sarebbe del tutto augurabile apportare nuovo materiale per darvi risposta.
È quanto si propone il mio breve saggio, che pretende trovar ospitalità nella rivista Imago, perché il suo contributo contiene un’applicazione della psicanalisi. Di certo l’argomentazione così acquisita impressionerà solo la minoranza di lettori già familiari con il pensiero analitico e in grado di apprezzarne i risultati. A loro si spera che appaia significativa.
Nel 1909 Otto Rank, ai tempi ancora sotto la mia influenza, stimolato da me pubblicava uno scritto dal titolo Il mito della nascita dell’eroe.29 Tratta del fatto che “nella preistoria … quasi tutti i principali popoli civili abbiano celebrato in poesia e leggende i loro eroi, re e principi mitici, fondatori di religioni, dinastie, regni, città, in breve i loro eroi nazionali”. “In particolare la storia della nascita e della giovinezza di tali personaggi è corredata da tratti fantastici, la cui stupefacente similarità, a volte l’accordo letterale, in popoli diversi, separati da grandi distanze e totalmente indipendenti tra loro, è da tempo nota e ha colpito molti studiosi”. Se, seguendo Rank, con una tecnica all’incirca simile a quella [fotografica] di Galton, ricostruiamo la “leggenda media”, che metta in risalto i tratti essenziali di tutti questi racconti, ne ricaviamo il seguente quadro:
“L’eroe è figlio di genitori di alti natali, per lo più di re. Precedono la sua nascita difficoltà come astinenza, lunga sterilità o relazione segreta dei genitori, a causa di divieti o ostacoli esterni. Durante la gravidanza o già prima, un annunzio premonitore (sogno, oracolo), di solito una minaccia per il padre, mette in guardia contro la sua nascita. Per tal ragione, in genere per volontà del padre o di chi lo rappresenta, appena nato il bimbo è condannato o a morte o a essere esposto; di regola è abbandonato in acqua in un cestino.
È allora salvato da animali o da persone umili (pastori) e allattato da un animale femmina o da un’umile nutrice.
Una volta cresciuto, dopo molte traversie ritrova i nobili genitori; da un lato si vendica del padre e dall’altro è riconosciuto e diventa grande e famoso.”
Il personaggio storico più antico cui si collega questo mito della nascita è Sargon di Agade, fondatore di Babilonia (circa 2800 a.C.). Per noi, non è senza interesse riferire il racconto attribuitogli:
“Sargon, il re potente, il re di Agade, io sono. Mia madre fu una vestale, mio padre non lo conobbi, il fratello di mio padre abitava sulle montagne. Nella mia città Azupirani, che giace sulle rive dell’Eufrate, mia madre, la vestale, mi concepì. In segreto mi partorì. Mi pose in un recipiente di canne di stiancia, chiuse con asfalto il coperchio e mi lasciò andare giù per il grande fiume, che non mi affogò. La corrente mi portò dov’era Akki, creatore dell’acqua. Akki, che crea l’acqua, nella bontà del suo cuore mi trasse fuori. Akki, creatore dell'acqua, mi allevò come suo figlio. Akki, creatore dell’acqua, fece di me il suo giardiniere. Mentre ero giardiniere, [la dea] Jshtar si scaldò per me, divenni re e per quarantacinque anni esercitai la sovranità regale.”
I nomi a noi più familiari della serie, che comincia con Sargon, sono Mosè, Ciro e Romolo. Oltre a loro, tuttavia, Rank raccolse un gran numero di figure eroiche appartenenti alla poesia o alla leggenda, cui è attribuita, per intero o in frammenti ben riconoscibili, la stessa storia giovanile: Edipo, Karna, Paride, Telefo, Perseo, Eracle, Gilgamesh, Anfione, Zeto e altri.
Grazie alle sue ricerche, Rank ci rese note fonte e ispirazione di tale mito. Mi basta farvi riferimento con brevi accenni. Eroe è chi ha il coraggio di levarsi contro il padre e alla fine lo supera vittoriosamente. Il nostro mito insegue questa lotta nella preistoria individuale, perché fa nascere il bambino contro la volontà del padre e lo salva nonostante le sue cattive intenzioni. L’esposizione nella cesta è l’inconfondibile raffigurazione simbolica della nascita: la cesta è il grembo materno, l’acqua è quella del parto. In moltissimi sogni il rapporto genitori-figlio è rappresentato dall’immagine di trarre o salvare dalle acque. Quando la fantasia popolare attribuisce il mito della nascita qui svolto a una personalità eminente, intende riconoscere così in quella figura un eroe, annunciando che ha realizzato lo schema della vita eroica. La fonte di tutta la creazione poetica è il cosiddetto “romanzo familiare” del fanciullo, in cui il figlio reagisce al mutamento delle sue relazioni emotive con i genitori, specialmente con il padre. La fantastica sopravvalutazione paterna domina gli anni dell’infanzia; nei sogni e nelle favole re e regine significano sempre solo i genitori, mentre più tardi, sotto la spinta della rivalità e della delusione reale, subentra il distacco dai genitori e l’atteggiamento critico verso il padre. Le due famiglie mitiche, la nobile e l’umile, sono perciò riflessi della famiglia autentica, come appare al bambino in momenti successivi della vita.
Si può dire che queste spiegazioni rendano del tutto comprensibili la diffusione e l’uniformità del mito della nascita dell’eroe. Tanto più merita il nostro interesse che la leggenda della nascita e dell’esposizione di Mosè assuma una posizione speciale che contraddice le altre in un punto essenziale.
Partiamo dalle due famiglie tra cui la leggenda fa giocare il destino del bambino. Dall’interpretazione analitica sappiamo che coincidono, differenziandosi l’una dall’altra solo per cronologia. Nella forma tipica della leggenda la prima famiglia, in cui il bambino nasce, è nobile, il più delle volte regale; la seconda, in cui il bambino cresce, è umile o decaduta, come del resto corrisponde alle circostanze [del “romanzo familiare”] cui l’interpretazione si rifà. Solo nella leggenda di Edipo la differenza scompare: il bambino esposto da una famiglia regale è accolto da un’altra coppia regale. Ci si dice che non sia un caso che proprio in questo esempio l’originaria identità delle due famiglie traspaia anche nella leggenda. Il contrasto sociale tra le due famiglie assegna al mito che, come sappiamo, deve confermare la natura eroica del grande uomo, una seconda funzione, particolarmente significativa nel caso di personalità storiche. Infatti, il mito può essere usato per conferire all’eroe una patente di nobiltà, elevandolo socialmente. Per i Medi, Ciro è un conquistatore straniero, ma la leggenda dell’esposizione ne fa un nipote del re dei Medi. Analogamente Romolo, se mai esistito, fu un avventuriero di origini oscure, un parvenu; grazie alla leggenda divenne discendente ed erede della casa regale di Alba Longa.
Nel caso di Mosè è tutto diverso. Qui la prima famiglia, altrove aristocratica, è piuttosto modesta. È figlio di Leviti ebrei. Ma la seconda famiglia, quella umile, in cui in altre leggende l’eroe cresce, è qui sostituita dalla casa reale d’Egitto: la principessa lo alleva come proprio figlio. Lo scostamento dal modello standard ha avuto su molti effetti devastanti. Eduard Meyer, e altri dopo di lui, hanno supposto che all’origine la leggenda fosse un’altra: il faraone sarebbe stato avvertito, da un sogno profetico,30 che un figlio della figlia avrebbe minacciato lui e il suo regno. Perciò dopo la nascita, avrebbe fatto esporre al Nilo il bimbo, che sarebbe stato salvato da certi Ebrei e allevato come figlio loro. Poi, per “motivi nazionali”, per dirla con Rank,31 la leggenda sarebbe stata rimaneggiata nella forma a noi nota.
Ma, come la seguente riflessione insegna, una simile leggenda mosaica originaria, non più diversa dalle altre, non sta in piedi. Infatti, la leggenda è di origine o egizia o ebraica. Il primo caso si esclude: gli Egizi non avevano motivi per glorificare Mosè, non essendo per loro un eroe. Allora la leggenda dovette essere forgiata dal popolo ebraico, cioè nella sua forma nota connessa alla persona del condottiero. Solo che era del tutto inadeguata allo scopo; infatti, cosa avrebbe fruttato al popolo una leggenda che faceva del suo grande uomo uno straniero al popolo?
Nella forma in cui oggi ci si presenta, la leggenda mosaica resta di gran lunga indietro rispetto alla sua intenzione segreta. Se Mosè non è di stirpe regale, la leggenda non può convalidarlo come eroe; se rimane figlio di Ebrei, non fa nulla per innalzarlo. Di tutto il mito, solo un pezzetto rimane effettivo, ossia l’assicurazione che il bimbo sopravvisse nonostante l’intervento di potenti forze esterne; il punto ricorre anche nella storia dell’infanzia di Gesù, in cui il re Erode assume la parte del faraone. In realtà siamo liberi di supporre che un tardo e maldestro revisore del materiale leggendario si sia trovato predisposto a introdurre nella storia del proprio eroe, Mosè, qualcosa di simile alla classica leggenda dell’esposizione che contrassegna l’eroe, cosa che, per le speciali circostanze del caso, non poteva adattarsi a Mosè.
La nostra indagine dovrebbe accontentarsi di questo risultato insoddisfacente e per giunta incerto; non avrebbe fornito alcun elemento per rispondere al quesito se Mosè fosse egizio. Ma c’è ancora un altro accesso forse più promettente per valorizzare la leggenda dell’esposizione.
Torniamo alle due famiglie del mito. A livello d’interpretazione analitica sappiamo che sono identiche, mentre a livello mitico si differenziano in aristocratica e umile. Se però si tratta di un personaggio storico, cui il mito è connesso, allora c’è un terzo livello, quello della realtà (Realität). Una famiglia è quella reale, dove il personaggio, il grande uomo, è effettivamente nato e cresciuto; l’altra è quella fittizia, inventata dal mito per i suoi intenti. Di regola la famiglia reale coincide con l’umile, quella inventata con l’aristocratica. Nel caso di Mosè sembrava esserci qualcosa di diverso. E ora forse il nuovo punto di vista ci porta a chiarire che la prima famiglia, quella che espone il bimbo, è, in tutti i casi che ci servono), la fittizia, mentre la successiva, in cui il bimbo è accolto e cresce, è la reale. Avendo il coraggio di riconoscere questa tesi come una generalità, cui assoggettiamo anche la leggenda mosaica, di colpo vediamo le cose in modo chiaro: Mosè è un Egizio, verosimilmente aristocratico, che grazie alla leggenda viene fatto (o “deve”) diventare ebreo. Sarebbe questo il nostro risultato! L’esposizione all’acqua era al posto giusto, ma, per adattarsi al nuovo proposito, l’intenzione dovette non senza violenza essere piegata: da abbandono del bambino divenne mezzo per salvarlo.
D’altronde il divario tra la leggenda mosaica e tutte le altre del suo genere poteva essere riportato a una particolarità della storia di Mosè. Mentre di solito un eroe nel corso della sua vita si eleva sopra le sue umili origini, la vita eroica dell’uomo Mosè iniziò discendendo dalle altezze in cui si trovava e si calò giù sino ai figli di Israele.
Abbiamo intrapreso questa piccola ricerca sperando di trarne un secondo, nuovo argomento a favore della congettura che Mosè fosse egizio. Abbiamo sentito che il primo argomento, tratto dal nome, non ha convinto molti.32 Dobbiamo perciò essere preparati al fatto che il nuovo argomento, proveniente dall’analisi della leggenda dell’esposizione, non trovi migliore fortuna. Certo si obietterà che le circostanze della formazione e trasformazione delle leggende sono troppo poco trasparenti per giustificare una conclusione come la nostra, e che le tradizioni circa la figura eroica di Mosè, confuse e contraddittorie presentano inequivocabili indizi della secolare opera di inesausta, tendenziosa rielaborazione e sovrapposizione, quindi sventeranno ogni tentativo di portare alla luce il retrostante nucleo di verità storica. Io stesso, che non condivido l’atteggiamento di rifiuto, non sono nemmeno in grado di confutarlo.
Se non si può arrivare a maggiore certezza, perché avrei portato a pubblica conoscenza questa ricerca? Mi spiace che anche la mia giustificazione non possa andare oltre alcuni accenni. In effetti, se ci lasciamo attrarre dai due argomenti qui addotti e proviamo a prendere sul serio l’ipotesi che Mosè fosse un aristocratico egizio, si aprono prospettive ampie e molto interessanti. Grazie a ipotesi non particolarmente remote, credo che riusciremmo a capire i motivi che hanno portato Mosè alla sua singolare impresa. In stretta connessione con questo, è possibile cogliere il fondamento di numerose caratteristiche e peculiarità della legge e della religione che diede al popolo ebraico, ricavandone persino idee significative sull’origine delle religioni monoteistiche in generale.
Tuttavia conclusioni di tale importanza non possono fondarsi solo su verosimiglianze psicologiche. Se come sostegno storico si fa valere l’origine egizia di Mosè, allora avremmo come minimo bisogno di almeno un secondo punto fermo, per proteggere la marea di possibilità emergenti, dalle critiche di essere prodotti di fantasia, troppo lontane dalla realtà (Wirklichkeit). Forse sarebbe sufficiente allo scopo una prova obiettiva sul tempo in cui Mosè visse e avvenne l’esodo dall’Egitto. Ma tale prova non fu mai trovata, e quindi faremmo meglio a non parlare di tutte le ulteriori deduzioni derivanti dal punto di vista che Mosè sia stato egizio.
Secondo saggio
Se Mosè fosse egizio…
In un precedente contributo a questa rivista33 ho tentato di corroborare con un nuovo argomento la congettura che Mosè, il liberatore e il legislatore del popolo ebraico, non fosse ebreo ma egizio. Da tempo si era notato, ma senza adeguato apprezzamento, che il nome Mosè proveniva dal lessico egizio; io vi aggiunsi che interpretare il mito dell’esposizione di Mosè portava alla necessaria conclusione che Mosè fosse egizio, e che il bisogno popolare pretese di farne un ebreo. Alla fine del mio saggio dicevo che dall’ipotesi di Mosè egizio derivavano conseguenze importanti e di ampia portata, ma che non ero pronto a sostenerle pubblicamente, essendo fondate solo su verosimiglianze psicologiche senza prove obiettive. Quanto più significative sono le cognizioni in tal modo acquisite, tanto più si sente il bisogno di cautela, per non esporle prive di solida base all’attacco delle critiche dell’ambiente, come una scultura di ferro dai piedi d’argilla. Nessuna verosimiglianza per quanto seducente ci protegge dall’errore; anche se tutte le parti di un problema sembrano adattarsi l’una all’altra, come pezzi di un puzzle, si deve pensare che il verosimile non è necessariamente vero e che la verità non è sempre verosimile. E infine non è allettante vedersi catalogare tra gli scolastici e i talmudisti, che si accontentano di far giocare la loro sottigliezza, indifferenti a quanto le loro affermazioni possano essere estranee alla realtà effettuale.
Senza tener conto di tali esitazioni, che pesano oggi come allora, il risultato del conflitto tra i miei opposti motivi è stato decidere di dar seguito a quella prima comunicazione con questa continuazione che, di nuovo, non è tutto né la parte più importante del tutto.
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Se dunque Mosè fu egizio, il primo punto a favore di quest’ipotesi è un nuovo indovinello cui è difficile rispondere. Se un popolo o una stirpe34 si accinge a una grande impresa, non c’è da attendersi altro che uno dei suoi membri si eriga o sia eletto suo condottiero. Ma non è facile indovinare che cosa dovesse indurre un egizio di alti natali, forse principe, sacerdote, alto funzionario, a mettersi a capo di una folla di stranieri immigrati, culturalmente arretrati, e a lasciare con loro il paese. Il ben noto disprezzo degli egizi per lo straniero rende un simile processo particolarmente inverosimile. Anzi, direi, proprio per questa ragione persino gli storici che hanno riconosciuto come egizio il nome di Mosè, attribuendogli tutta la sapienza dell’Egitto, non hanno voluto ammettere l’ovvia possibilità che Mosè fosse egizio.
A questa prima difficoltà ne segue subito una seconda. Non possiamo dimenticare che Mosè non fu solo il capo politico degli ebrei insediati in Egitto, ma anche il loro legislatore ed educatore, colui che li asservì a una nuova religione, ancora oggi detta in suo nome mosaica. Ma è così facile per un singolo uomo creare una nuova religione? E se uno pretende influire sulla religione di un altro, la cosa più naturale non è convertirlo alla propria? Il popolo ebraico in Egitto non era certamente privo di una qualche religione, e se Mosè, che gliene diede una nuova, era egizio, non va respinta la congettura che l’altra religione, la nuova, fosse l’egizia.
Questa possibilità urta un ostacolo: il dato di fatto del netto contrasto tra la religione ebraica, risalente a Mosè, e l’egizia. La prima è un rigorosissimo monoteismo: c’è un solo Dio, unico, onnipotente, inavvicinabile; la sua vista è insopportabile all’occhio umano; non è lecito farsene un’immagine e neppure pronunciare il suo nome. Nella religione egizia c’è invece uno stuolo incalcolabile di divinità di diversa importanza e origine: alcune sono personificazioni di grandi forze naturali come il cielo e la terra, il sole e la luna; altre astrazioni come Maat (verità, giustizia), o brutte facce come Bes il nano; la maggior parte, però, erano divinità locali del tempo in cui il paese era diviso in numerosi distretti; erano di forma animale, come se non avessero ancora compiuto l’evoluzione dagli antichi animali totemici, difficili da distinguere gli uni dagli altri, visto che a nessuno di loro erano attribuite funzioni particolari. Gli inni in onore di questi dei dicono di ciascuno di loro pressappoco le stesse cose; li identificano gli uni con gli altri senza andar troppo per il sottile, con il risultato di una confusione per noi inestricabile. I nomi degli dei si combinano gli uni con gli altri in modo che il nome di uno può divenire il semplice epiteto di un altro; così, nel periodo aureo del “Nuovo Regno”, il dio principale della città di Tebe era chiamato Amon-Ra, nome composto dove la prima parte designa il dio della città, dalla testa di ariete, mentre Ra è il nome del dio del sole di On [Eliopoli], dalla testa di falcone. Operazioni magiche e cerimoniali, incantesimi e amuleti dominavano il servizio di questi dei, così come la vita quotidiana degli egizi.
Alcune di queste differenze sono facilmente deducibili dall’opposizione di principio tra rigido monoteismo e politeismo illimitato; altre sono chiare conseguenze del diverso livello spirituale, poiché una delle due religioni era rimasta assai vicina alle fasi primitive, mentre l’altra si era elevata alle vette di un’astrazione sublime. Sono forse questi i due fattori per cui si ha talvolta l’impressione che la contrapposizione tra religione mosaica ed egizia sia intenzionalmente voluta e acuita: per esempio, perché l’una condanna nel modo più severo ogni forma di magia e stregoneria, che invece nell’altra fioriscono con il massimo rigoglio? O come quando all’insaziabile smania degli egizi di dar corpo ai loro dei con creta, pietra e metallo (cui i nostri musei devono esser tanto grati) si contrappone il ruvido divieto di dare immagine a qualsiasi essere vivo o immaginario.
Ma tra le due religioni vi è un’altra contrapposizione, con cui i nostri tentativi di spiegazione non si sono ancora cimentati. Nessun altro popolo dell’antichità [come l’egizio] fece tanto per rinnegare la morte, e tanto meticolosamente provvide a rendere possibile un’esistenza nell’aldilà; così Osiride, dio dei morti, signore dell’altro mondo, fu il più popolare e il più incontestato degli dei egizi. Per contro l’antica religione giudaica rinunciò del tutto all’immortalità; della possibile continuazione dell’esistenza dopo la morte non è mai fatto cenno in nessun luogo. Ciò è tanto più notevole avendo esperienze successive dimostrato che credere all’esistenza nell’aldilà è ben conciliabile con la religione monoteistica.
Avevamo sperato che l’ipotesi di Mosè egizio si sarebbe dimostrata fruttuosa e illuminante in diverse direzioni. Tuttavia, la nostra prima deduzione da questa ipotesi, cioè che la nuova religione data da Mosè agli ebrei fosse stata la propria, l’egizia, è naufragata costatando la diversità, anzi l’opposizione, tra le due religioni.
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Un notevole dato di fatto nella storia religiosa egizia, solo tardi riconosciuto e apprezzato, ci apre un’altra prospettiva. Resta la possibilità che la religione, data da Mosè al suo popolo ebraico, fosse proprio la sua: una religione egizia, anche se non la religione egizia.
Durante la gloriosa diciottesima dinastia, sotto la quale l’Egitto per la prima volta divenne un impero mondiale, intorno all’anno 1.375 a.C. salì al trono un giovane faraone, che dapprima si chiamò Amenofi IV come il padre, ma poi cambiò nome, e non solo il nome. Questo re tentò di imporre ai suoi egizi una nuova religione, in contrasto con le loro tradizioni millenarie e con tutte le consuetudini di vita loro familiari. Fu un rigoroso monoteismo, il primo tentativo del genere nella storia mondiale, per quanto riusciamo a saperne; con la fede in un unico dio nacque inevitabilmente l’intolleranza religiosa, rimasta ignota all’antichità prima di allora e ancora molto tempo dopo. Ma il regno di Amenofi durò solo 17 anni; subito dopo la sua morte, avvenuta nel 1358, la nuova religione fu spazzata via e la memoria del re eretico proscritta. II poco che sappiamo di lui proviene dalle rovine della nuova capitale che costruì e dedicò al suo dio, e dalle iscrizioni sulle adiacenti tombe rupestri. Tutto ciò che possiamo sapere di questo personaggio eccezionale, anzi unico, è degno del massimo interesse.35
Ogni novità deve trovare in precedenza la sua preparazione e condizione. Le origini del monoteismo egizio sono rintracciabili con notevole sicurezza facendo ancora qualche passo indietro.36 Nella scuola sacerdotale del tempio del sole a On (Eliopoli) era da tempo attiva, fra le altre, la tendenza a sviluppare la rappresentazione di un dio universale, accentuando il lato etico della sua essenza. Maàt, la dea della verità, dell’ordine, della giustizia, era figlia del dio del sole, Ra. Già sotto Amenofi III, padre e predecessore del riformatore, la venerazione del dio solare aveva riguadagnato slancio, verosimilmente in opposizione ad Amon di Tebe, divenuto troppo potente. Fu ripreso un nome preistorico del dio solare, Aton o Atum, e nella religione di Aton il giovane re trovò un movimento che non doveva neppure destare ex novo, cui poteva associarsi.
A quei tempi le condizioni politiche dell’Egitto avevano cominciato a influire in modo persistente sulla religione egizia. Grazie alle gesta guerresche del grande conquistatore Tutmosi III, l’Egitto era diventato una potenza mondiale: al sud la Nubia, al nord la Palestina, la Siria e parte della Mesopotamia erano state annesse all’impero. Questo imperialismo si rifletteva ora sulla religione come universalismo e monoteismo. Poiché l’attenzione del faraone ora si rivolgeva, oltre che all’Egitto, alla Nubia e alla Siria, anche la divinità doveva abbandonare la limitazione nazionale e, come il faraone era l’unico e assoluto signore del mondo noto agli egizi, così doveva essere anche per la nuova divinità degli egizi. Inoltre era naturale che, ampliandosi i confini dell’impero, l’Egitto fosse esposto a influssi stranieri; alcune mogli del re37 erano principesse asiatiche, ed è persino possibile che spinte dirette al monoteismo provenissero dalla Siria.
Amenofi non rinnegò mai la propria adesione al culto solare di On. In due inni ad Aton, conservati nelle iscrizioni sulle tombe rupestri e verosimilmente composti da lui stesso, il sole è celebrato come creatore e conservatore di tutti gli esseri viventi dentro e fuori l’Egitto, con un fervore che si ritrova solo molti secoli più tardi nei Salmi in onore del dio ebraico Yahweh. Non gli bastò tuttavia anticipare sorprendentemente la scoperta scientifica dell’effetto della radiazione solare. Non c’è dubbio che fece un passo avanti, onorando il sole non come oggetto materiale, bensì come simbolo di un essere divino la cui energia si manifestava appunto nei raggi solari.38
Non renderemmo giustizia al re, trattandolo solo da seguace e promotore della religione di Aton a lui preesistente. La sua attività incise molto di più. Apportò quel qualcosa di nuovo per cui per la prima volta la dottrina del dio universale divenne monoteismo, cioè il fattore dell’esclusività. In uno dei suoi inni si enuncia espressamente: “O tu, unico Dio, accanto al quale non ce n’è altri”.39 E non vogliamo dimenticare che per apprezzare la nuova dottrina non basta conoscere solo il suo contenuto positivo; quasi altrettanto importante è il suo lato negativo, cioè conoscere ciò che respinge. Sarebbe anche errato presupporre che la nuova religione prenda vita all’improvviso, perfetta e armata di tutto punto come Atena uscita dalla testa di Zeus. Anzi, tutto depone per il suo graduale rafforzamento durante il regno di Amenofi, progredendo verso una sempre maggiore chiarezza, coerenza, durezza e intolleranza. Verosimilmente questo sviluppo si compì per influenza della violenta opposizione che tra i sacerdoti di Amon si levò contro la riforma del re. Nel sesto anno del regno di Amenofi, l’ostilità era cresciuta al punto che il re cambiò il proprio nome, formato in parte con il nome proibito del dio Amon. Si chiamò, allora, Akhenaton invece di Amenofi.40 Cancellò il dio odiato non solo dal proprio nome, ma anche da tutte le iscrizioni, comprese quelle dove ricorreva nel nome del padre, Amenofi III. Poco dopo il cambiamento di nome, Akhenaton lasciò Tebe, dominata da Amon, e si costruì più a valle una nuova capitale, che denominò Akhetaton (Orizzonte di Aton). Il luogo in cui si trovano le sue rovine si chiama oggi Tell-el-Amarna.41
La persecuzione del re colpì nel modo più duro Amon, ma non solo lui. Ovunque nel regno i luoghi di culto furono chiusi, il servizio divino proibito, i beni dei templi confiscati. Lo zelo del re si spinse al punto da ordinare l’esame degli antichi monumenti per cassarvi la parola “dio” dove fosse usata al plurale.42 Non desta meraviglia che queste misure di Akhenaton provocassero nel clero represso e nel popolo insoddisfatto un risentimento e una fanatica sete di vendetta, che poterono scatenarsi dopo la morte del re. La religione di Aton non divenne popolare; verosimilmente rimase ristretta a una piccola cerchia attorno alla persona del re. La fine di Akhenaton resta per noi avvolta nell’oscurità. Abbiamo notizia di alcuni successori della sua famiglia, figure sbiadite che non vissero a lungo. Già suo genero, Tutankhaton, fu costretto a tornare a Tebe e a sostituire nel suo nome il dio Aton con Amon. Seguì poi un periodo di anarchia, finché nel 1350 il generale Haremhab riuscì a ristabilire l’ordine. La gloriosa diciottesima dinastia si estinse; contemporaneamente andarono perse le sue conquiste in Nubia e in Asia. In questo torbido tempo intermedio furono restaurate le antiche religioni egizie. La religione di Aton fu abolita, la residenza di Akhenaton distrutta e saccheggiata, il suo ricordo stimato meno di un criminale.
Ci serve ora, a un fine ben preciso, mettere in rilievo alcuni punti negativi caratteristici della religione di Aton. Anzitutto, era esclusa ogni forma di mito, di magia, di sortilegio.43
Inoltre era cambiato il modo di raffigurare il dio solare: non più come prima con una piccola piramide e un falco, ma, diremmo, quasi prosaicamente, con un disco rotondo da cui si dipartono raggi che terminano con mani umane. Nonostante l’amore per l’arte proprio del periodo di Amarna, non è stata trovata un’altra raffigurazione del dio solare, un’immagine personale di Aton, e possiamo tranquillamente dire che non si troverà.44
Infine, silenzio assoluto sul dio dei morti, Osiride, e sul regno dei morti. Né gli inni, né le iscrizioni sepolcrali fanno menzione di ciò che forse stava più a cuore agli egizi. Il contrasto con la religione popolare non si potrebbe illustrare in modo più chiaro.45
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Ora potremmo osare concludere: se Mosè fu egizio e trasmise agli ebrei la propria religione, allora fu la religione di Aton, quella di Akhenaton.
Poco fa abbiamo confrontato la religione ebraica con quella popolare egizia e stabilito la loro contrapposizione. Dobbiamo ora confrontare la religione ebraica con quella di Aton, aspettando di provare la loro originaria identità. Sappiamo che non è un compito facile. Della religione di Aton, proprio perché vittima della sete di vendetta dei sacerdoti di Amon, forse sappiamo troppo poco. La religione mosaica la conosciamo solo nella forma definitiva, fissata dai sacerdoti ebrei circa ottocento anni più tardi, in epoca successiva all’esilio. Se, nonostante l’esiguità del materiale, dovessimo trovare singoli indizi favorevoli alla nostra ipotesi, li terremo in gran conto.
La via più breve per dimostrare la nostra tesi che la religione mosaica non fu altro che quella di Aton, sarebbe una confessione, una proclamazione. Ma temo di sentirmi dire che tale via è preclusa. La professione di fede ebraica suona, com’è noto: “Shemà Israel, shemà Israel Adonai Elohenu Adonai Ehad”. Se l’assonanza tra il nome egizio Aton (o Atum), la parola ebraica Adonai [mio signore] e il nome divino siriaco Adon non fosse fortuita, ma dipendesse dalla comunanza primordiale di lingua e significato, potremmo tradurre così la formula ebraica: “Ascolta Israele, il nostro dio Aton (Adonai) è l’unico dio”. Purtroppo sono del tutto incompetente per risolvere la questione e in letteratura ho potuto trovare poco al riguardo,46 ma forse non è lecito liquidare il problema con tanta facilità. D’altra parte dovremo ancora ritornare sui problemi del nome di Dio.
Nelle due religioni sono facilmente evidenziabili tanto somiglianze quanto diversità, che non ci illuminano molto. Entrambe sono forme di monoteismo rigido; sin dall’inizio si è inclini a ricondurre a questo carattere di fondo quanto hanno di comune. In molti punti il monoteismo ebraico si rivela ancora più ruvido di quello egizio, come nel proibire in generale le rappresentazioni in immagini. La differenza essenziale – a parte il nome di Dio – consiste nel fatto che la religione ebraica prescinde totalmente dalla venerazione solare, a cui l’egizia ancora si appoggiava. Nel confronto con la religione popolare egizia abbiamo avuto l’impressione che nella diversità tra le due religioni, a parte la contrapposizione di principio, intervenisse un motivo di contraddizione intenzionale. L’impressione appare ora giustificata se nel confronto sostituiamo alla religione ebraica quella di Aton, che Akhenaton, come sappiamo, sviluppò con intenzionale ostilità alla religione popolare. A ragione ci ha stupito che la religione ebraica non volesse saperne di aldilà e di vita dopo la morte, perché una dottrina simile sarebbe stata compatibile con il più rigoroso monoteismo. La sorpresa svanisce tornando indietro dalla religione ebraica a quella di Aton e supponendo che da lì sia stato ripreso questo rifiuto, di cui Akhenaton aveva bisogno per combattere la religione popolare, in cui il dio dei morti, Osiride, aveva forse una parte maggiore di qualsiasi altro dio del mondo superiore. La coincidenza tra la religione ebraica e quella di Aton su questo punto importante è il primo argomento forte a favore della nostra tesi. Vedremo che non è l’unico.
Mosè non ha dato solo una nuova religione agli ebrei; si può anche affermare con la stessa determinazione che abbia introdotto tra loro l’uso della circoncisione. Questo dato di fatto ha un significato decisivo per il nostro problema e finora non è stato quasi mai considerato. A dire il vero, il racconto biblico lo contraddice più volte; da un lato fa risalire la circoncisione all’epoca patriarcale come segno del patto tra Dio e Abramo; dall’altro, in un passo particolarmente oscuro, narra che Dio si infuriò con Mosè, che aveva trascurato l’usanza divenuta sacra, e intendesse perciò farlo morire, ma la moglie, una madianita, salvò il marito, minacciato dall’ira divina, eseguendo prontamente l’operazione.
Tuttavia, queste sono deformazioni che non ci possono confondere; più avanti ne scopriremo i motivi. Resta che alla domanda da dove fosse giunta agli ebrei l’usanza della circoncisione c’è una sola risposta: dall’Egitto. Erodoto, il “padre della storia”, ci informa che in Egitto l’uso della circoncisione era da lungo tempo familiare (heimisch); le sue informazioni sono state confermate sia dai reperti sulle mummie sia da raffigurazioni sulle pareti delle tombe. A nostra conoscenza, nessun altro popolo del Mediterraneo orientale ebbe tale uso; di Semiti, Babilonesi, Sumeri si può con certezza presumere che non fossero circoncisi. Degli abitanti di Canaan lo dice la stessa storia biblica; è la premessa per l’esito dell’avventura della figlia di Giacobbe con il principe di Sichem.47 Scarteremmo come del tutto infondata la possibilità che, soggiornando in Egitto, gli ebrei abbiano adottato la pratica di circoncidere per altra via non connessa all’istituzione religiosa di Mosè. Ora, tenuto conto che la circoncisione fu un costume popolare generalmente praticato in Egitto, aggiungendo per un momento la supposizione comune che Mosè fosse un Ebreo che volle liberare i suoi connazionali dalla servitù egizia e condurli in un altro paese a realizzare un’esistenza nazionale indipendente e consapevole, come realmente avvenne, allora che senso avrebbe che egli imponesse loro al tempo stesso una consuetudine gravosa, che li rendeva in certa misura degli egizi, perpetuando la loro memoria dell’Egitto, mentre ogni suo sforzo poteva al contrario esser volto soltanto a rendere estraneo il suo popolo alla terra della schiavitù e a superare la nostalgia per le “marmitte d’Egitto”? No, il dato di fatto di partenza e la supposizione da noi aggiunta sono tra loro così incompatibili che si trova il coraggio di concludere che, se Mosè diede agli ebrei non solo una nuova religione, ma anche il precetto della circoncisione, fu perché non era ebreo, ma egizio; allora la religione mosaica fu verosimilmente egizia e, in verità, a causa del contrasto con la religione popolare, fu la religione di Aton, con cui anche la posteriore religione ebraica concorda su alcuni punti degni di nota.
Abbiamo notato che la nostra ipotesi, che Mosè non fosse ebreo ma egizio, crea un nuovo enigma. La modalità della sua azione, che a un ebreo appariva facilmente comprensibile, era per l’egizio incomprensibile. Se però spostiamo Mosè all’epoca di Akhenaton e lo poniamo in relazione con questo faraone, allora l’enigma svanisce e si scopre un motivo possibile che risponde a tutte le nostre questioni. Partiamo dal presupposto che Mosè fosse nobile e altolocato, forse realmente un membro della casa reale, come sostiene la leggenda. Ambizioso ed energico, era certo conscio delle sue grandi capacità; forse accarezzava l’idea di guidare un giorno il popolo, di reggere l’impero. Essendo vicino al faraone, era anche un convinto seguace della nuova religione, di cui aveva fatto propri i principi fondamentali. Alla morte del re e instaurata la reazione, vide distrutte tutte le sue speranze e le sue prospettive; poiché non voleva rinnegare le convinzioni a lui più care, l’Egitto non aveva più nulla da offrirgli: aveva perso la patria. In questa emergenza trovò una via d’uscita non comune.
II sognatore Akhenaton si era estraniato dal suo popolo; aveva lasciato che il suo impero mondiale si sgretolasse. Alla natura più energica di Mosè si addiceva il piano di fondare un nuovo regno, di trovare un nuovo popolo, alla cui venerazione offrire la religione che l’Egitto disdegnava. Come si vede, era il tentativo eroico di contestare il destino e di risarcirsi in due direzioni delle perdite inflitte dalla catastrofe di Akhenaton.
Forse a quel tempo Mosè era governatore della provincia di confine (Goshen) dove si erano insediate (già dal tempo degli Hyksos?) certe tribù semite. Egli le scelse perché fossero il suo nuovo popolo. Decisione storica mondiale!48 Si accordò con loro, si pose alla loro testa, guidò il loro esodo “con mano potente”. In totale contrasto con la tradizione biblica si dovrebbe supporre che questo esodo si compisse pacificamente e senza persecuzioni. L’autorità di Mosè lo rese possibile; a quel tempo non c’era un’amministrazione centrale in grado d’impedirlo.
Secondo la nostra ricostruzione, l’esodo dall’Egitto sarebbe avvenuto tra il 1358 e il 1350, cioè dopo la morte di Akhenaton e prima della restaurazione dell’autorità statale a opera di Haremhab.49 Meta della migrazione poteva essere solo la terra di Canaan. Qui, dopo il crollo del dominio egizio, avevano fatto irruzione, conquistando e saccheggiando, orde di bellicosi Aramei che avevano così mostrato come un popolo intraprendente potesse impossessarsi di nuove terre. Conosciamo questi guerrieri dalle lettere trovate nel 1887 nell’archivio delle rovine della città di Amarna. Là vengono chiamati Habiru e il nome fu trasferito, non sappiamo come, ai successivi invasori giudei, gli ebrei, che non possono essere quelli menzionati nelle lettere di Amarna. Nel sud della Palestina, in Canaan, abitavano anche le tribù più strettamente apparentate con gli ebrei che stavano appunto lasciando l’Egitto.
La motivazione, che abbiamo tirato a indovinare per l’esodo in toto, riguarda anche l’istituzione della circoncisione. Si sa come gli uomini, tanto i popoli quanto i singoli, reagiscono a questa preistorica usanza, oggi quasi non più compresa. A coloro che non la praticano, sembra assai sconcertante e un po’ ne inorridiscono; mentre gli altri che l’hanno adottata ne vanno orgogliosi. Si sentono da essa innalzati, in certo qual modo nobilitati, e guardano con disprezzo agli altri, considerati impuri. Ancor oggi il turco insulta il cristiano “cane incirconciso”. È credibile che Mosè, da egizio circonciso, condividesse tale atteggiamento. Gli ebrei, con i quali abbandonò la patria, dovevano essere per lui un sostituto migliore degli egizi lasciati in patria. In nessun caso potevano essere inferiori. Voleva farne un “popolo santo”, come esplicitamente dice ancora il testo biblico; come segno di tale consacrazione introdusse anche tra loro l’usanza che li rendeva almeno pari agli egizi. Poi poteva solo gradire che grazie a quel segno rimanessero isolati, lungi dal mescolarsi con i popoli stranieri tra cui la migrazione doveva portarli, così come gli stessi egizi erano rimasti separati da tutti gli stranieri.50
La tradizione giudaica si comportò più tardi come se temesse le conseguenze che abbiamo poco fa dedotto. Ammettere che la circoncisione fosse un’usanza egizia, introdotta da Mosè, sarebbe stato per loro quasi come riconoscere che la religione loro trasmessa da Mosè fosse anch’essa egizia. Ma c’erano buone ragioni per rinnegare questo dato di fatto; di conseguenza bisognava contraddire anche lo stato di cose riguardante la circoncisione.
4
A questo punto mi attendo il rimprovero per la mia costruzione che colloca Mosè, l’egizio, all’epoca di Akhenaton, fa discendere dalle condizioni politiche del tempo nel paese la sua decisione di interessarsi al popolo ebraico e individua la religione da dare o imporre ai suoi protetti in quella di Aton, che in Egitto era crollata; intendo il rimprovero per aver montato un castello di congetture con eccessiva determinazione, materialmente infondata. Credo che il rimprovero sia ingiustificato. Nell’introduzione ho già sottolineato il fattore di dubbio, messo per così dire fuori parentesi, per risparmiare la fatica di ripetermi ogni volta dentro parentesi.
Alcune tra le mie osservazioni critiche possono far proseguire la discussione. Il nucleo della mia esposizione, la dipendenza del monoteismo giudaico dall’episodio monoteistico della storia d’Egitto, è stato intuito e accennato da differenti autori. Mi dispenso dal riportare qui quanto hanno detto, visto che nessuno ha saputo stabilire come tale influsso abbia potuto effettivamente esercitarsi. Se per noi tutto ciò rimane legato alla persona di Mosè, vanno citate anche altre possibilità, oltre quella da noi preferita. Non è ammissibile che il crollo della religione ufficiale di Aton abbia posto del tutto fine alla corrente monoteistica in Egitto. La scuola sacerdotale di On, dalla quale era scaturita, sopravvisse alla catastrofe e poté attrarre nella sua orbita intellettuale ancora altre generazioni dopo Akhenaton. Pertanto il fatto di Mosè è concepibile anche se Mosè non visse al tempo di Akhenaton e non ne subì l’influsso personale, ma era solo un seguace o un membro della scuola di On. Questa possibilità sposterebbe la data dell’esodo, avvicinandola a quella comunemente ammessa (cioè nel tredicesimo secolo), ma non c’è altro che la raccomandi. Perderemmo la comprensione dei motivi di Mosè e decadrebbe [l’ipotesi] che l’anarchia imperante nel paese abbia facilitato l’esodo. I successivi re della diciannovesima dinastia stabilirono un governo forte. La convergenza di tutte le condizioni esterne e interne favorevoli all’esodo si ebbe solo nel periodo immediatamente posteriore alla morte del re eretico.
Gli ebrei possiedono un’abbondante letteratura extrabiblica, dove si trovano leggende e miti nati nel corso dei secoli attorno alla grandiosa figura del loro primo condottiero e fondatore religioso, trasfigurandola e oscurandola. In tale materiale possono essere dispersi frammenti di una buona tradizione, che non trovarono spazio nel Pentateuco. Una leggenda del genere illustra in modo piacevole come l’ambizione di Mosè si manifestasse sin dall’infanzia. Una volta il faraone lo prese in braccio e per gioco lo innalzò; allora il bimbo di tre anni gli strappò la corona dalla testa e la mise sulla sua. Il re si allarmò per il presagio e non tralasciò di consultare i suoi saggi in merito.51 Un’altra volta si racconta di sue vittoriose imprese guerresche, ottenute come generale egizio in Etiopia, e contestualmente della sua fuga dall’Egitto perché aveva da temere l’invidia di un partito di corte o del faraone stesso. La stessa descrizione biblica aggiunge a Mosè certi attributi plausibili. È descritto irascibile, collerico, come quando sdegnato ammazza il brutale sorvegliante che maltratta un operaio ebreo, o quando, amareggiato per l’apostasia del popolo, spezza le Tavole della Legge portate con sé dal monte di Dio; persino Dio lo punisce alla fine per un gesto di impazienza, non è detto quale. Poiché una qualità del genere non serve a glorificarlo, potrebbe corrispondere alla verità storica. Non si può neppure scartare la possibilità che certi tratti di carattere che gli ebrei ascrissero all’immagine primitiva del loro Dio, dicendolo geloso, severo e implacabile, provenissero in fondo dal ricordo di Mosè, dato che in realtà a guidarli fuori dall’Egitto non fu un Dio invisibile ma l’uomo Mosè.
Un altro tratto a lui attribuito merita il nostro particolare interesse. Sembra che abbia avuto “difficoltà di linguaggio”, forse un’inibizione a parlare o un difetto di parola, tanto da aver bisogno dell’aiuto di Aronne, detto suo fratello, nelle supposte trattative con il faraone. Questa potrebbe essere di nuovo una verità storica, un desiderabile contributo che vivifica la fisionomia del grande uomo. Può però avere un altro e più importante significato. Leggermente deformato, il racconto può riferirsi al fatto che Mosè parlasse un’altra lingua [l’egizia], e non potesse comunicare con i suoi semiti neo-egizi senza interprete, almeno all’inizio dei loro rapporti. Dunque, una nuova conferma alla tesi che Mosè fosse egizio.
Ora, però, per il momento il nostro lavoro sembra giunto alla fine. Dimostrata o no, dalla nostra ipotesi che Mosè fosse egizio, per ora non possiamo dedurre altro. Nessuno storico può ritenere il racconto biblico di Mosè e l’esodo nient’altro che una pia fantasia che ha rielaborato una remota tradizione a servizio delle sue intenzioni. Non ci è noto come si articolava la tradizione originaria; ci piacerebbe scoprire quali fossero le tendenze deformanti, che la nostra ignoranza degli eventi storici mantiene nell’oscurità. Che nella nostra ricostruzione non vi sia spazio per taluni pezzi forti della narrazione biblica, come le dieci piaghe, il passaggio del Mar Rosso, la solenne consegna della legge sul Monte Sinai, è un contrasto che non ci può sconcertare. Invece non ci può lasciare indifferenti scoprire di essere finiti in contraddizione con i risultati della sobria ricerca storica dei nostri giorni.
Gli storici moderni, preso come loro rappresentante Eduard Meyer,52 aderiscono al racconto biblico in un punto decisivo. Anche loro ritengono che le tribù ebraiche, dalle quali più tardi originò il popolo d’Israele, a un certo momento adottarono una nuova religione. Ma l’evento non avvenne in Egitto, e neppure ai piedi di un monte della penisola del Sinai, bensì in una località denominata Meribath-Qadesh, oasi contraddistinta da abbondanti sorgenti e pozzi, sita nel tratto di terra a sud della Palestina tra l’estremità orientale della penisola del Sinai e il margine occidentale arabico. Qui presero a venerare un dio, Yahweh, verosimilmente della contigua tribù araba dei madianiti, seguito presumibilmente anche da altre tribù vicine.
Yahweh fu certamente un dio vulcanico. Ora, l’Egitto è notoriamente privo di vulcani e anche i monti della penisola del Sinai non furono mai vulcanici; invece si trovano vulcani, che possono essere stati attivi sino a tempi recenti, lungo il margine occidentale dell’Arabia. Una di queste montagne dovette essere il Sinai (o Oreb), ritenuto residenza di Yahweh.53 Nonostante tutte le rielaborazioni subite dal testo biblico, l’immagine primitiva del carattere del dio può cosi essere ricostruita secondo Eduard Meyer: era un demone sinistro e sanguinario, che si aggirava di notte e aborriva la luce del giorno.54
II mediatore tra Dio e popolo nel fondare la religione fu chiamato Mosè. Era genero del sacerdote madianita Ietro; ne custodiva il gregge, quando sperimentò la chiamata divina. Ancora a Qadesh ricevette la visita di Ietro, che lo istruì.
Eduard Meyer dice di non aver mai dubitato che il racconto del soggiorno in Egitto e della catastrofe degli egizi contenga un qualche nucleo storico,55 ma non sa evidentemente né sistemare né valutare il dato di fatto riconosciuto. È pronto a derivare dagli egizi solo l’uso della circoncisione e arricchisce la nostra precedente argomentazione con due importanti indicazioni. La prima è di Giosuè che ingiunge al popolo la circoncisione per “togliersi di dosso lo scherno degli egizi”; la seconda è una citazione da Erodoto: “Gli stessi fenici (certo gli ebrei) e i siri di Palestina ammettono d’aver appreso la circoncisione dagli egizi”.56 Ma su Mosè egizio ha poco da aggiungere: “II Mosè che conosciamo è l’antenato dei sacerdoti di Qadesh, dunque una figura della leggenda genealogica in relazione a un culto, non un personaggio storico”. Infatti, a parte chi accetta in “blocco la tradizione come verità storica, ancora nessuno di chi lo tratta come figura storica ha saputo dargli un qualche contenuto, descrivendolo come individualità concreta o indicando cosa abbia fatto e quale sia stata la sua opera storica.”57
Per contro Meyer non si stanca di ribadire la relazione di Mosè con Qadesh e Madian: “La figura di Mosè, che è strettamente congiunta a Madian e ai luoghi di culto nel deserto …58 “Questa figura di Mosè è ora inseparabilmente collegata con Qadesh (Massa e Meriba); imparentarsi con il sacerdote madianita completa il quadro. Al contrario, il collegamento con l’esodo e tutta la vicenda giovanile sono assolutamente secondari e solo conseguenze dell’inserimento di Mosè in una connessa storia leggendaria che continuava”.59 Meyer mostra anche come i temi contenuti nella storia giovanile di Mosè siano in seguito interamente lasciati cadere. “Mosè a Madian non è più egizio e nipote del faraone, ma un pastore cui Yahweh si rivela. Nei racconti delle piaghe non si parla più delle sue antiche relazioni, che pure sarebbe stato facile sfruttare a effetto; l’ordine di uccidere i [primogeniti] maschi degli Israeliti è completamente dimenticato. Nell’esodo e nella rovina degli egizi Mosè non ha alcun ruolo, non è neppure menzionato. Il carattere eroico, che la leggenda della sua infanzia presuppone, è assente nel Mosè posteriore, che è solo l’uomo di Dio, il taumaturgo dotato da Yahweh di poteri soprannaturali”.60
Non possiamo contestare l’impressione che questo Mosè di Qadesh e Madian, cui la tradizione poté persino attribuire l’erezione di un serpente di bronzo come dio salvatore, sia tutt’altro dal presunto gran signore egizio che dischiuse al popolo una religione che con la massima severità proibiva magie e incantesimi. Forse il nostro Mosè egizio non è meno diverso dal Mosè madianita di quanto lo sia il dio universale Aton dal demone Yahweh, misero abitante della montagna divina. Ammessa la credibilità delle recenti scoperte storiche, come non confessare che il filo, dipanato partendo dalla supposizione che Mosè fosse egizio, si è ora rotto per la seconda volta? Stavolta, sembra, senza speranza di riannodarlo.
5
Anche qui si trova un’inattesa via d’uscita. Gli sforzi per riconoscere in Mosè una figura che vada oltre il sacerdote di Qadesh, e per confermare la magnificenza che la tradizione esalta in lui, non sono cessati con Eduard Meyer (vedi Gressmann et al.). Nel 1922, Ernst Sellin fece una scoperta che influisce in modo decisivo sul nostro problema.61 Trovò nel profeta Osea (seconda metà dell’ottavo secolo) tracce inconfondibili di una tradizione secondo cui il fondatore religioso Mosè perì di morte violenta in una sommossa del suo popolo recalcitrante e duro di cervice. Nello stesso tempo la religione da lui introdotta fu ripudiata. Questa tradizione non si limita però a Osea, ma ricorre nella maggior parte dei profeti successivi, e anzi, secondo Sellin, fu il fondamento di tutte le attese messianiche posteriori. All’uscita dall’esilio babilonese si sviluppò nel popolo ebraico la speranza che l’uomo ignobilmente trucidato sarebbe tornato dai morti e avrebbe guidato il suo popolo pentito, e forse non solo quello, nel regno dell’eterna beatitudine. Gli evidenti rapporti con il destino di un successivo fondatore religioso non ci riguardano.
Naturalmente, non sono di nuovo in grado di giudicare se Sellin abbia interpretato correttamente i passi dei profeti. Ma, se ha ragione, possiamo attribuire credibilità storica alla tradizione da lui riconosciuta, poiché cose simili non s’inventano facilmente. Manca un motivo tangibile per inventarle e per contro, se sono realmente accadute, si capisce facilmente che si voglia dimenticarle. Non occorre accettare tutti i particolari della tradizione. Sellin pensa che Shittim, nel territorio a est del Giordano, possa esser stato lo scenario dell’assassinio di Mosè. Riconosceremo subito che tale località è per noi inaccettabile.
Riprendiamo da Sellin l’ipotesi che il Mosè egizio sia stato ucciso dagli ebrei e la religione da lui introdotta abbandonata. Essa ci permette di continuare a filare il nostro filo, senza contraddire i risultati credibili della ricerca storica. Ma per altro osiamo restare indipendenti dagli autori, procedendo in modo autonomo “sulla nostra traccia”.
L’esodo dall’Egitto rimane il nostro punto di partenza. Dovette essere un notevole numero di persone a lasciare il paese con Mosè; una piccola massa non avrebbe meritato gli sforzi di un uomo ambizioso con grandi mire. Verosimilmente i migranti avevano dimorato abbastanza a lungo in Egitto da formare un bel numero di persone. Ma non sbaglieremmo certo supponendo, con la maggior parte degli autori, che solo una frazione del futuro popolo ebraico avesse partecipato alle vicende dell’Egitto. In altre parole, la tribù tornata dall’Egitto si unì più tardi, nel tratto di terra tra Egitto e Canaan, con altre tribù affini che già da tempo si erano là stabilite. Espressione di tale unione, da cui provenne il popolo d’Israele, fu accettare una nuova religione comune a tutte le tribù, quella di Yahweh, accettazione che, secondo Eduard Meyer, si compì a Qadesh per influsso madianita. Da allora il popolo si sentì abbastanza forte da far irruzione nella terra di Canaan. Con tale svolgimento non s’accorda la scelta del territorio a est del Giordano come luogo della catastrofe di Mosè e della sua religione, che deve essersi verificata molto prima dell’unione.
È certo che elementi molto diversi contribuirono a creare il popolo ebraico, ma la differenza maggiore tra quelle tribù dovette farla l’avere o no condiviso il soggiorno in Egitto, con quanto ne seguì. Su questo punto, si può dire che la nazione risultò dall’unione di due componenti; quadra con questo dato di fatto il suo spezzarsi dopo un breve periodo di unità politica in due parti: il regno d’Israele e il regno di Giuda. La storia ama questi ricorsi in cui fusioni tardive si dissolvono e riemergono antiche separazioni. Com’è noto, l’esempio più impressionante lo produsse la Riforma che, dopo un intervallo di più di un millennio, rimise in evidenza il confine tra la Germania un tempo romana e quella rimasta indipendente. Nel caso del popolo ebraico non possiamo provare una così fedele riproduzione dell’antico stato di cose; la nostra conoscenza di quei tempi è troppo incerta per permetterci di affermare che nel regno settentrionale confluirono le genti già insediate e nel meridionale le reduci dall’Egitto, ma anche qui la successiva scissione non poteva non esser stata in qualche modo connessa con la saldatura precedente. Verosimilmente gli egizi di prima erano in numero inferiore agli altri, ma si dimostrarono più forti per civiltà, ed esercitarono un influsso più potente sulla successiva evoluzione del popolo, portando con sé una tradizione mancante agli altri.
Forse ci fu ancora qualcos’altro di più concreto di una tradizione. Fra i maggiori enigmi della preistoria ebraica c’è l’origine dei Leviti. Si fanno derivare da una delle dodici tribù di Israele, la tribù di Levi, ma nessuna tradizione è giunta a dire dove tale tribù in origine risiedesse o quale parte del paese conquistato, Canaan, le fosse assegnata. Occupavano i più importanti uffici sacerdotali, ma erano tuttavia distinti dai sacerdoti; un Levita non era necessariamente sacerdote; Levita non è il nome una casta. Il nostro presupposto sulla persona di Mosè suggerisce una spiegazione. Non è attendibile che un gran signore come l’egizio Mosè si esponesse senza compagni a un popolo a lui straniero. Portò certo con sé il suo seguito, i suoi seguaci più stretti, i suoi scribi, i suoi servi. Questi furono in origine i Leviti. L’affermazione della tradizione, che Mosè fosse un Levita, pare una trasparente deformazione dello stato delle cose: i Leviti erano la gente di Mosè. Questa soluzione si basa sul fatto già citato nel mio saggio precedente, che più tardi solo tra i Leviti ricorressero ancora nomi egizi.62 Va ammesso che un buon numero di questa “gente di Mosè” sfuggisse alla catastrofe toccata a Mosè stesso e alla religione da lui fondata. Essi aumentarono di generazione in generazione; si fusero con il popolo in cui vivevano, ma rimasero fedeli al loro signore, ne preservarono la memoria e curarono la tradizione del suo insegnamento. All’epoca dell’unione con i credenti in Yahweh formarono una minoranza influente, di civiltà superiore agli altri.
Butto lì provvisoriamente l’ipotesi che fra il tramonto di Mosè e la fondazione della religione a Qadesh siano trascorse due generazioni, forse anche un secolo. Non vedo mezzi per decidere se i neo-egizi, come vorrei chiamarli per distinguerli, ovvero i reduci dall’Egitto, si incontrarono con le tribù loro affini dopo che queste avevano accolto la religione di Yahweh o già prima. Si potrebbe ritenere più verosimile l’ultima ipotesi. Per il risultato finale non fa differenza. Ciò che accadde a Qadesh fu un compromesso, in cui la parte avuta dalle tribù mosaiche è inconfondibile.
Qui possiamo di nuovo richiamarci alla testimonianza della circoncisione che, come fossile guida, per così dire, ci ha ripetutamente reso i più importanti servigi. Quest’uso divenne precetto anche nella religione di Yahweh, ed essendo indissolubilmente connesso all’Egitto, la sua accoglienza può essere stata solo una concessione alla gente di Mosè, la quale – con i Leviti tra loro – non voleva rinunciare a tale segno di consacrazione. Tanto volevano salvare della loro antica religione che in cambio erano disposti ad accettare la nuova divinità e quanto ne andavano predicando i sacerdoti di Madian. È possibile che avessero ottenuto altre concessioni. Abbiamo già visto che il rituale giudaico prescriveva certe limitazioni nell’uso del nome di Dio. Invece di Yahweh si doveva dire Adonai. Sarebbe ovvio introdurre questo precetto nel nostro contesto, ma sarebbe una congettura senza ulteriore appoggio. Il divieto sul nome di Dio è notoriamente un tabù preistorico. Non si capisce perché fosse rinnovato proprio nella legislazione giudaica; non è escluso che sia accaduto per influsso di un nuovo motivo. Non è necessario supporre che il divieto fosse rigorosamente osservato; rimase la libertà di usare il nome del dio Yahweh per formare nomi personali teofori, come nelle combinazioni Iochanan, Yehu, Yeshua). Ma c’è un motivo particolare per questo nome. È noto che la critica biblica ammette due fonti scritte dell’Esateuco, designate con J e con E, perché una usa il nome di Dio Jahvè (Yahweh), l’altra Elohim. Elohim, è vero, non Adonai, ma può bastare l’osservazione di uno dei nostri autori: “I nomi differenti sono chiaro contrassegno di divinità originariamente differenti”.63
Abbiamo fatto valere la circoncisione come prova del compromesso raggiunto con la fondazione della religione a Qadesh. Il suo contenuto risulta dalle relazioni concordi che ne danno J ed E, perciò risalenti a una fonte comune (tradizione scritta o orale). La tendenza principale era dimostrare la grandezza e la potenza del nuovo dio Yahweh. Poiché la gente di Mosè dava tanto valore all’esperienza dell’esodo dall’Egitto, Yahweh doveva essere riconosciuto autore di tale atto di liberazione; l’evento fu arricchito di abbellimenti, che manifestavano la terribile maestà del dio vulcanico, come la colonna di fumo che di notte si mutava in colonna di fuoco o il turbine che prosciugò temporaneamente il mare, così che gli inseguitori annegarono al ritorno della massa d’acqua. Allora l’esodo e la fondazione della religione furono accostati, misconoscendo il lungo intervallo di tempo tra i due eventi; anche l’istituzione della legge non si compì a Qadesh, ma ai piedi della montagna di Dio nel segno di un’eruzione vulcanica. Ma questa presentazione dei fatti faceva un grave torto alla memoria dell’uomo Mosè; era stato lui, non il dio vulcanico, a liberare il popolo dall’Egitto. Così gli era dovuta una compensazione che fu trovata trasferendo Mosè a Qadesh o al Sinai-Oreb e mettendolo al posto dei sacerdoti madianiti.
Discuteremo più avanti come questa soluzione soddisfacesse a una seconda, innegabilmente urgente tendenza. In questo modo si giunse in un certo senso a un accomodamento: a Yahweh, che sedeva su una montagna a Madian, fu concesso di estendersi fino all’Egitto, e viceversa l’esistenza e l’attività di Mosè giunsero fino a Qadesh e al territorio a est del Giordano. Furono così fuse la sua persona e quella dell’altro, successivo fondatore religioso, il genero del madianita Ietro, cui egli prestò il suo nome, Mosè. Ma di quest’altro Mosè non abbiamo nulla da dire di personale, tanto è oscurato dal primo, il Mosè egizio. A meno di non cogliere le contraddizioni nel modo di caratterizzare Mosè, che si trovano nel testo biblico, dove Mosè è dipinto spesso come autoritario, collerico e persino violento, ma talvolta come il più mansueto e il più paziente degli uomini. È chiaro che queste ultime qualità sarebbero servite a poco al Mosè egizio, che con il suo popolo si proponeva di compiere così grandi e ardue imprese; forse appartenevano all’altro, al madianita. Credo sia giustificato separare di nuovo le due figure, e supporre che il Mosè egizio non sia mai stato a Qadesh né abbia mai udito il nome di Yahweh e che il Mosè madianita non abbia mai messo piede in Egitto né saputo nulla di Aton. Per saldare le due persone, la tradizione o la leggenda si trovò costretta a portare il Mosè egizio a Madian, e abbiamo visto che in proposito circolava più di una spiegazione.
6.
Con ciò siamo pronti a sentirci di nuovo rimproverare d’aver esposto la nostra ricostruzione della preistoria del popolo d’Israele con eccessiva, ingiustificata sicurezza. La critica non ci pesa troppo, trovando eco nel nostro stesso giudizio. Noi stessi sappiamo che il nostro edificio ha i suoi punti deboli, ma anche i suoi lati forti. Nel complesso prevale l’impressione che valga la pena continuare il lavoro nella direzione presa. Il racconto biblico che ci sta davanti contiene indicazioni storiche preziose, anzi inestimabili, però deformate dall’influsso di potenti tendenze e decorate dai prodotti dell’invenzione poetica. Finora, nel corso dei nostri sforzi abbiamo potuto individuare una di queste tendenze deformanti. Ciò che abbiamo trovato ci mostra la via da percorrere. Dobbiamo scoprire altre tendenze simili. Con punti d’appoggio per riconoscere le deformazioni da esse prodotte, porteremo alla luce dietro di esse nuovi frammenti del vero stato delle cose.
Anzitutto, facciamoci raccontare dalla critica biblica quanto ci sa dire sulla storia delle origini nell’Esateuco (i cinque libri di Mosè e il libro di Giosuè, i soli che qui ci interessano).64 Come fonte scritta più antica, c’è J, cioè il Yahwista, di recente identificato nel sacerdote Ebiatar, contemporaneo di re Davide. Un po’ dopo, non si sa quanto, si colloca il cosiddetto Elohista, che appartiene al regno settentrionale.65 Dopo la caduta del regno settentrionale nel 722 un sacerdote ebreo riunì sezioni di J e di E, aggiungendovi contributi personali. La sua compilazione si designa con JE. Nel settimo secolo fu aggiunto il Deuteronomio, il quinto libro, ritrovato – a quanto si dice – intero nel Tempio. All’epoca successiva alla distruzione del Tempio (586), durante l’esilio e dopo il ritorno, fu compilato il rimaneggiamento noto come “Codice sacerdotale”; nel quinto secolo l’opera fu sottoposta all’ultima redazione, da allora non più sostanzialmente modificata.66
Molto verosimilmente la storia di re Davide e del suo tempo è opera di un contemporaneo. È un vero e proprio scritto storico, cinquecento anni prima di Erodoto, “padre della storia”. Ci si avvicina a comprendere quest’opera ammettendo un’influenza egizia, nel senso della nostra ipotesi.67 È emersa persino la congettura che gli Israeliti del periodo più antico, cioè gli scribi di Mosè, non fossero estranei all’invenzione del primo alfabeto.68 Naturalmente, sfugge alla nostra conoscenza in che misura le storie dei tempi remoti si rifacciano a documenti precedenti o a tradizioni orali, e quali intervalli di tempo intercorrano nei singoli casi tra un avvenimento e la sua fissazione [per iscritto]. Però il testo che oggi ci sta davanti racconta abbastanza anche il proprio destino. Due trattamenti tra loro opposti vi hanno lasciato tracce. Da un lato se ne sono impadronite delle rielaborazioni che lo hanno falsificato, mutilato e ampliato in funzione di loro intenzioni segrete, sino a capovolgerne il senso; dall’altro è stato avvolto da una devozione piena di riguardi, che ha voluto mantenere tutto così come l’aveva trovato, senza badare se fosse coerente o si smentisse da sé. Così quasi in ogni parte si sono realizzate vistose omissioni, fastidiose ripetizioni, evidenti contraddizioni, indizi che tradiscono cose che non si intendeva comunicare. La deformazione di un testo è simile a un delitto. La difficoltà non sta nell’eseguire l’atto, ma nell’eliminare le tracce. Alla parola Entstellung (deformazione) si potrebbe dare il doppio senso che le spetta, anche se oggi non lo si usa più. Non dovrebbe significare solo modificare nella forma, ma anche portare in altro luogo, spostare altrove. Così in molti casi di deformazione testuale possiamo contare di trovare nascosto altrove, sia pure modificato e avulso dal contesto, il materiale soppresso e ripudiato. Solo che non è sempre facile riconoscerlo.
Le tendenze deformanti, che pretendiamo di acciuffare, dovettero aver avuto effetto sulle tradizioni già prima di ogni trascrizione. Una di esse, forse la più forte di tutte, l’abbiamo già scoperta. Abbiamo detto che, introdotto il nuovo dio Yahweh a Qadesh, bisognava far qualcosa per glorificarlo. Sarebbe più giusto dire che occorreva installarlo, dargli spazio, cancellare le tracce di precedenti religioni. Sembra che ciò sia riuscito del tutto per la religione delle tribù già insediate, di cui non sentiamo più nulla. Non era così facile con i reduci, che non si lasciavano derubare dell’esodo dall’Egitto, dell’uomo Mosè e della circoncisione. Dunque, erano stati in Egitto, ma lo avevano di nuovo lasciato, e da allora in poi ogni traccia dell’influsso egizio doveva essere misconosciuta. L’uomo Mosè fu tolto di mezzo spostandolo a Madian e a Qadesh e fondendolo con il sacerdote di Yahweh, promotore della religione. La circoncisione, l’indizio più grave di dipendenza dall’Egitto, dovette essere mantenuta, ma a dispetto di ogni evidenza non si tralasciò il tentativo di distaccarla dall’Egitto. Si può intendere solo come intento di contrastare lo stato di cose rivelatore l’enigmatico passo dell’Esodo [4, 24-26], schematizzato in modo incomprensibile, secondo cui un giorno Yahweh si adirò con Mosè per aver trascurato la circoncisione, ma la moglie madianita gli salvò la vita procedendo in fretta all’operazione! Incontreremo presto un’altra invenzione intesa a rendere innocua una prova scomoda.
Non si può indicarla come nuova tendenza emergente; piuttosto continua la precedente, mostrando gli sforzi di contestare che Yahweh fosse un dio nuovo, estraneo agli ebrei. A tal fine furono introdotte le leggende dei progenitori del popolo: Abramo, Isacco e Giacobbe. Yahweh assicura di essere già stato il Dio di questi padri; certo, ma egli stesso dovrebbe ammettere che non lo adoravano sotto questo suo nome.69
Non aggiunge neppure sotto quale altro. Sta qui l’occasione per il colpo decisivo all’origine egizia dell’uso della circoncisione: Yahweh la pretese già da Abramo, posta come segno del patto tra sé e la posterità di Abramo. Ma fu un’invenzione particolarmente maldestra. Se si vuole distinguere con un contrassegno qualcuno dagli altri e prediligerlo rispetto a loro, si sceglie qualcosa che non si trovi già negli altri, non qualcosa che milioni di altri potrebbero ugualmente esibire. Invece, l’Israelita trasferito in Egitto avrebbe dovuto riconoscere in tutti gli egizi come fratelli nel patto, fratelli in Yahweh. Non è possibile che gli Israeliti che composero il testo biblico ignorassero il dato di fatto che in Egitto la circoncisione era di casa. Il passo da Giosuè citato da Eduard Meyer lo ammette senza dubbi, ma appunto per questo doveva essere misconosciuto ad ogni costo.
Dalle costruzioni religiose dei miti non si può pretendere che abbiano molti riguardi per la consistenza logica. Altrimenti il sentimento popolare si sarebbe giustamente scandalizzato per il comportamento di una divinità che conclude con gli antenati un patto con obbligazioni reciproche, e poi per secoli non si cura dei partner umani, finché improvvisamente non le viene in mente di manifestarsi di nuovo ai loro discendenti. Ancora più sconcertante è l’idea che a un tratto un dio “scelga” un popolo, dichiarandolo suo popolo e dichiarando sé stesso suo dio. Credo che sia l’unico caso del genere nella storia delle religioni umane. Altrove dio e popolo sono inseparabilmente connessi, sin dall’inizio una cosa sola; certo, talvolta si sente che un popolo si prenda un altro dio, mai però che un dio si cerchi un altro popolo. Forse ci avviciniamo a comprendere questo evento unico, pensando alle relazioni tra Mosè e il popolo ebraico. Mosè si era abbassato fino agli ebrei, ne aveva fatto il suo popolo; erano loro il suo “popolo eletto”.70
Introdurre i progenitori serviva anche a un altro intento. Erano vissuti in Canaan; la loro memoria era legata a determinati luoghi del paese. Chissà che all’origine non fossero essi stessi eroi cananei o figure divine locali, che gli immigrati Israeliti sequestrarono per la loro preistoria. Appellandosi a loro, in certo qual modo gli Israeliti affermavano la loro origine autoctona e si premunivano contro l’odio che attira il conquistatore straniero. Fu una svolta abile che il dio Yahweh restituisse loro ciò che un tempo i loro avi avevano posseduto.
Nelle successive aggiunte al testo biblico si impose l’intenzione di evitare di citare Qadesh. Il luogo in cui la religione era stata fondata fu fissato per sempre nella montagna divina Sinai-Oreb. Il motivo non è del tutto evidente; forse non si voleva richiamare l’influsso di Madian. Ma tutte le deformazioni posteriori, specie quelle del periodo del cosiddetto Codice sacerdotale, servivano a un’altra intenzione. Non era più necessario modificare racconti di avvenimenti in base ai propri desideri, dato che era stato fatto già da tempo. Ci si sforzò invece di spostare all’indietro nel tempo comandamenti e istituzioni del presente, fondandoli di regola sulla legislazione mosaica, per far derivare da essa la loro pretesa di sacralità e obbligatorietà. Per quanto falso fosse il quadro del passato così risultante, questo modo di procedere non mancava di una certa giustificazione psicologica. Rifletteva il dato di fatto che in tutto quel tempo – circa ottocento anni dall’esodo dall’Egitto alla fissazione del testo biblico sotto Esdra e Nehemia – la religione di Yahweh si era ridotta a coincidere, forse fino a identificarsi, con la religione originaria di Mosè.
Questo è il risultato essenziale, il contenuto carico di destino della storia religiosa ebraica.
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Fra tutti i fatti preistorici che i successivi scrittori, sacerdoti e storici presero a rielaborare, ne spiccava uno che i migliori e più ovvi motivi umani prescrivevano di sopprimere. Fu l’assassinio del gran condottiero e liberatore Mosè, che Sellin indovinò dalle allusioni dei Profeti. Il prospetto di Sellin non si può dire fantastico, anzi è abbastanza verosimile. Provenendo dalla scuola di Akhenaton, Mosè non usava metodi diversi da quelli del re: dava ordini, imponeva al popolo la sua fede.71 Forse la dottrina di Mosè era ancora più ruvida di quella del suo maestro; non aveva bisogno di continuare ad appoggiarla al dio solare, perché la scuola di On non significava nulla per il suo popolo straniero. Mosè e Akhenaton andarono incontro al medesimo destino, che attende tutti i despoti illuminati. Il popolo ebraico di Mosè era tanto poco in grado di reggere una religione così altamente spiritualizzata, quanto gli egizi della diciottesima dinastia, non trovando nelle sue rappresentazioni una soddisfazione ai propri bisogni. In entrambi i casi accadde la stessa cosa: messi sotto tutela e sminuiti, si sollevarono e rigettarono il fardello della religione loro imposta. Ma, mentre i docili egizi attesero finché il destino non tolse di mezzo la persona sacra del faraone, i selvaggi semiti presero in mano il loro destino e si sbarazzarono del tiranno.72
Non si può nemmeno dire che il testo biblico giunto sino a noi non ci prepari a un esito simile riguardo a Mosè. Il racconto della “peregrinazione nel deserto”, che potrebbe corrispondere al tempo del dominio di Mosè, descrive una catena di gravi agitazioni contro la sua autorità che, per ordine di Yahweh, furono anche punite e soffocate nel sangue. È facile immaginare che una di tali rivolte abbia avuto un esito diverso da quello che il testo pretende. Anche l’apostasia del popolo dalla nuova religione è narrata nel testo, sia pure come episodio. È la storia del vitello d’oro, in cui con abile inversione la rottura delle Tavole della Legge (da intendersi simbolicamente: “Ha infranto la legge") è attribuita a Mosè e motivata con il suo adirato sdegno.
Venne il tempo in cui si compianse l’uccisione di Mosè e si cercò di dimenticarla. Fu certo al tempo dell’incontro di Qadesh. Ma, avvicinando la data dell’esodo a quella della fondazione religiosa nell’oasi e facendovi partecipare Mosè invece dell’altro personaggio, non solo si appagarono le pretese della gente di Mosè, ma si smentì anche con successo il fatto penoso della sua fine violenta. In realtà è molto inverosimile che Mosè potesse prender parte alla fondazione svoltasi a Qadesh, anche ammettendo che la sua vita non fosse stata stroncata prima.
Ora dobbiamo tentare di chiarire i rapporti cronologici fra questi fatti. Abbiamo collocato l’esodo dall’Egitto nel periodo successivo all’estinzione della diciottesima dinastia (1350). Avvenne o allora o poco dopo, dato che i cronisti egizi hanno calcolato gli anni successivi di anarchia nel regno di Haremhab, che vi pose fine e regnò sino al 1315. Il più vicino, ma anche unico, punto di riferimento cronologico è dato dalla stele del faraone Meneptah (1225-1215 a.C.), che si vanta della vittoria su lsiraal (Israele) e della distruzione del suo seme (?). Purtroppo l’uso che si può fare di questa iscrizione è dubbio, valendo come dimostrazione che a quel tempo tribù israelitiche si erano già insediate a Canaan.73 Giustamente Eduard Meyer deduce da questa stele che Meneptah non poté essere il faraone dell’esodo, come si presumeva prima senza difficoltà. L’esodo deve essere stato precedente. La questione circa il faraone dell’esodo ci pare del tutto oziosa. Non vi fu un faraone dell’esodo che cadde in un interregno. Ma la scoperta della stele di Meneptah non fa luce neanche sulla possibile data dell’unione e dell’accettazione della nuova religione a Qadesh. Tutto ciò che possiamo dire con certezza è che fu in un momento qualunque tra il 1350 e il 1215 a.C.. In questi cent’anni, supponiamo che l’esodo sia molto vicino all’inizio e che i fatti di Qadesh non siano lontani dalla fine. La maggior parte di questo periodo preferiamo riservarla all’intervallo tra i due eventi. Infatti, abbiamo bisogno di un periodo di tempo abbastanza lungo affinché, dopo l’assassinio di Mosè, le passioni tra i reduci si acquietino e l’influsso della gente di Mosè, i Leviti, aumentino sino al punto presupposto dal compromesso di Qadesh. Due generazioni, sessant’anni all’incirca, potrebbero bastare a malapena. Ciò che si deduce dalla stele di Meneptah ci lascia troppo poco tempo, e poiché riconosco che nel nostro montaggio una supposizione si fonda unicamente sull’altra, concedo che questa discussione rivela un lato debole della nostra costruzione. Purtroppo tutto ciò che concerne l’insediamento del popolo ebraico a Canaan è così oscuro e confuso! Ci rimane forse una via d’uscita: supporre che il nome d’Israele sulla stele non si riferisca alle tribù le cui vicende ci sforziamo di seguire e che più tardi si unirono nel popolo d’Israele. D’altronde anche il nome di habiru = ebrei fu trasferito a questo popolo, ma proviene dal periodo di Amarna.
In qualsiasi momento sia avvenuta l’unificazione delle tribù in nazione grazie all’accettazione di una religione comune, per la storia del mondo avrebbe potuto facilmente dimostrarsi un atto del tutto indifferente. La nuova religione poteva essere travolta dal fluire degli eventi; Yahweh avrebbe potuto prender posto nella processione degli dei passati, vista dallo scrittore Flaubert; avrebbero potuto andar “perdute” tutte e dodici le tribù del suo popolo, e non solo le dieci cercate così a lungo dagli Anglosassoni. Il dio Yahweh, al quale il Mosè madianita portava allora un nuovo popolo, non era verosimilmente un essere preminente sotto nessun aspetto. Era piuttosto un rozzo dio locale, di animo meschino, violento e assetato di sangue; aveva promesso ai suoi fedeli un paese “stillante latte e miele” e li aveva incitati a scacciare i suoi attuali abitanti e a “passarli a fil di spada". C’è da meravigliarsi che, nonostante tutte le rielaborazioni delle narrazioni bibliche, sia rimasto così tanto da riconoscerne l’essenza originaria. Non è neppure sicuro che la sua religione fosse un vero monoteismo, che contestasse la natura divina degli dei di altri popoli. Verosimilmente bastava che il proprio dio fosse più potente di tutti gli altri dei stranieri. Se tuttavia in seguito tutto andò diversamente da come questi inizi lasciavano prevedere, si può rintracciare la causa in un unico dato di fatto. A una parte del popolo il Mosè egizio aveva fornito un’altra rappresentazione di dio, più altamente spiritualizzata, l’idea di una divinità unica che abbracciasse tutto il mondo, non meno amante di tutto che onnipotente, avversa a ogni cerimoniale e magia, che agli uomini proponeva come meta suprema una vita in verità e giustizia. Per quanto incomplete possano essere le narrazioni sul lato etico della religione di Aton, non può essere senza valore rilevare che nelle sue iscrizioni Akhenaton si autodesignasse come “vivente in Maat” (verità, giustizia).74 A lungo andare, verosimilmente dopo breve tempo, non importò più che il popolo avesse rigettato l’insegnamento di Mosè e si fosse sbarazzato di lui. La sua tradizione rimase e la sua influenza riuscì, sia pure solo gradualmente nel corso dei secoli, là dove Mosè stesso aveva fallito. Il dio Yahweh ottenne un onore immeritato quando, da Qadesh in poi, gli fu attribuita l’impresa della liberazione, compiuta da Mosè, ma l’usurpazione gli costò cara. L’ombra del dio di cui aveva preso il posto, divenne più forte di lui; alla fine dell’evoluzione, dietro la sua essenza venne alla luce quella del dio mosaico dimenticato. Nessuno dubita che solo l’idea di quest’altro dio abbia permesso al popolo d’Israele di sopravvivere a tutti i colpi del destino e l’abbia mantenuto in vita sino a oggi.
Non è più possibile accertare quale parte i Leviti abbiano avuto nella vittoria finale del dio mosaico su Yahweh. In passato, quando fu stipulato il compromesso di Qadesh e il ricordo del signore di cui erano seguaci e conterranei era ancora vivo, i Leviti si schierarono dalla parte di Mosè. Nei secoli seguenti si erano fusi con il popolo o con il clero; ufficio principale dei sacerdoti era divenuto quello di sviluppare e sorvegliare i riti e preservare le sacre scritture rielaborandole. Ma i sacrifici e tutto il cerimoniale non erano in fondo solo magia e stregoneria, già incondizionatamente condannate dall’antica dottrina di Mosè? Sorse allora in mezzo al popolo una successione ininterrotta di uomini, non legati a Mosè per discendenza, ma presi dalla grande e potente tradizione gradualmente cresciuta nell’oscurità; questi uomini, i profeti, annunciarono instancabilmente l’antica dottrina mosaica, secondo cui la divinità disdegna i sacrifici e le cerimonie e chiede solamente fede e una vita vissuta secondo verità e giustizia (Maat). Gli sforzi dei profeti ebbero durevole successo; gli insegnamenti con cui ristabilivano l’antica fede divennero contenuto permanente della religione ebraica. Va a onore del popolo ebraico aver conservato tale tradizione e avere espresso uomini che se ne fecero banditori, anche se lo stimolo venne dall’esterno, da un grande straniero.
Non mi sentirei sicuro su questa esposizione, se non potessi rifarmi al giudizio di altri ricercatori competenti in materia, che attribuiscono a Mosè la stessa importanza nella storia religiosa ebraica, pur non riconoscendo la sua origine egizia. Per esempio, afferma Sellin:75 “Pertanto abbiamo dovuto rappresentarci l’autentica religione di Mosè – la fede nell’unico Dio morale da lui annunciato – fin da principio come patrimonio di una ristretta cerchia del popolo. Fin da principio, è inutile aspettarci di ritrovarla nel culto ufficiale, nella religione dei sacerdoti, nella fede del popolo. Fin da principio possiamo solo contare sul fatto che, ora qui ora là, una scintilla si levi di nuovo dal fuoco spirituale che un giorno egli accese e che le sue idee non si siano estinte, ma che qua e là silenziosamente abbiano avuto effetto sulle credenze e i costumi, finché presto o tardi, in virtù di particolari esperienze o di personalità particolarmente penetrate dal suo spirito, non tornino ancora una volta alla luce con forza accresciuta e guadagnino la fiducia delle masse popolari. È da tale angolo visuale che va sin da principio considerata la storia dell’antica religione israelitica. Chi volesse ricostruire la religione mosaica lasciandosi guidare dalla religione com’era, secondo i documenti storici, nella vita popolare dei primi cinque secoli in Canaan, commetterebbe il più grave errore di metodo.” E ancora più chiaramente Volz76 pensa che “l’opera altissima di Mosè fu dapprima capita e messa in pratica solo debolmente e scarsamente, finché nel corso dei secoli toccò sempre più i cuori e infine trovò nei grandi profeti quell’affinità spirituale che permise di continuare l’opera del Solitario”.
Sarei così giunto al termine del mio lavoro, che doveva servire solo a inserire la figura di un Mosè egizio nella storia ebraica. Per esprimere nella formula più breve le nostre conclusioni, alle ben note dualità di questa storia – due masse popolari che concorrono a formare la nazione, due regni in cui si scinde questa nazione, due nomi divini nelle fonti scritte della Bibbia – ne aggiungiamo altre due nuove: due fondazioni religiose, la prima rimossa dalla seconda e tuttavia poi riapparsa vittoriosamente alle sue spalle, e due fondatori religiosi, che portavano entrambi lo stesso nome, Mosè, le cui personalità occorre distinguere l’una dall’altra. E tutte queste dualità sono conseguenze necessarie della prima, cioè che una parte del popolo ebbe un’esperienza da considerare traumatica, da cui l’altra restò lontana.
Oltre a ciò, vi sarebbero ancora molte cose da discutere, spiegare e stabilire. Solo allora si giustificherebbe l’interesse per il nostro studio puramente storico. In cosa consista la vera natura di una tradizione, su cosa poggi il suo particolare potere, come sia impossibile negare l’influsso personale di alcuni grandi uomini sulla storia mondiale, che delitto contro la grandiosa multiformità della vita umana commetta chi pretende riconoscere solo i fattori dei bisogni materiali, da quali sorgenti alcune idee, in particolare le idee religiose, traggano forza per soggiogare gli individui e i popoli – studiare tutto ciò nel caso particolare della storia ebraica, sarebbe impresa affascinante. Il mio lavoro, così sviluppato, andrebbe a ricongiungersi con le tesi che ho messo per iscritto, or sono venticinque anni, in Totem e tabù (1912-13). Ma non confido di avere più la forza per simile impresa.
Terzo saggio
Mosè, il suo popolo e la religione monoteista
Prima avvertenza
([Vienna] prima del marzo 1938)
Con l’audacia di chi ha poco o nulla da perdere, per la seconda volta rompo un ben fondato proposito e a ai due saggi su Mosè in “Imago”77 faccio seguire la parte finale che ho tenuto per me. Avevo concluso assicurando di sapere che le mie forze non sarebbero bastate; naturalmente intendevo riferirmi all’indebolirsi delle facoltà creative che accompagna l’età avanzata,78 ma pensavo anche a un altro ostacolo.
Viviamo in un’epoca particolarmente strana. Stupiti vediamo il progresso allearsi alla barbarie. La Russia sovietica ha intrapreso a elevare a migliori forme di vita circa cento milioni di uomini mantenuti repressi, abbastanza audace da sottrarre loro la “droga” della religione e altrettanto saggia da concedere una giudiziosa misura di libertà sessuale, ma sottomettendoli al tempo stesso alla più brutale coercizione e privandoli di ogni possibilità di libertà di pensiero. Con pari violenza il popolo italiano viene educato all’ordine e al senso del dovere. Si percepisce come alleggerimento da un pensiero opprimente vedere nel caso del popolo tedesco che la ricaduta in una barbarie quasi preistorica può andare da sé anche senza attenersi ad alcuna sua idea progressiva. Comunque sia, le cose hanno preso una piega tale che oggi le democrazie conservatrici sono diventate le custodi del progresso civile e, stranamente, proprio l’istituzione della Chiesa cattolica oppone una potente difesa contro la diffusione di un simile pericolo per la civiltà. Proprio la Chiesa, fino ad oggi nemica spietata della libertà di pensiero e del progresso nella conoscenza della verità!
Qui viviamo in un paese cattolico, protetti da questa Chiesa, incerti su quanto durerà. Ma, finché dura, avremmo naturalmente scrupolo di fare qualsiasi cosa che desti l’inimicizia della Chiesa. Non è viltà ma prudenza; il nuovo nemico, al cui servizio vogliamo evitare di cadere, è più pericoloso del vecchio, con cui abbiamo già imparato a trattare. La ricerca psicanalitica, che coltiviamo, è ad ogni modo l’oggetto di diffidente attenzione da parte del cattolicesimo. Non diciamo che non sia senza ragione. Se il nostro lavoro ci porta al risultato che la religione si riduce a una nevrosi dell’umanità e che il suo formidabile potere si chiarisce come la coazione nevrotica dei nostri pazienti, singolarmente considerati, siamo certi di attirare su di noi il più forte risentimento dei poteri qui da noi dominanti. Non che non abbiamo qualcosa di nuovo da dire, qualcosa che già da un quarto di secolo abbiamo detto in modo abbastanza chiaro; ma da allora è stato dimenticato, e non può restar senza effetto ripeterlo oggi e spiegarlo con un esempio determinante per tutte le fondazioni religiose. Verosimilmente ciò porterebbe a vietarci l’esercizio della psicanalisi. Tali metodi violenti di repressione non sono certo estranei alla Chiesa che, piuttosto, sente come attentato ai suoi privilegi che anche altri vi facciano ricorso. Ma la psicanalisi, che nel corso della mia lunga vita è arrivata dappertutto, continua a non aver dimora per lei più preziosa proprio della città dove è nata e cresciuta.
Non solo credo, ma so che, a causa di quest’altro ostacolo, il pericolo esterno, mi lascerò trattenere dal pubblicare l’ultima parte del mio studio su Mosè. Ho fatto ancora un tentativo per togliermi di mezzo la difficoltà; mi sono detto che il mio timore si fondava sulla sopravvalutazione della mia persona e della sua importanza. Verosimilmente nelle sedi che contano sarebbe risultato del tutto irrilevante quel che volevo scrivere su Mosè e sull’origine delle religioni monoteistiche. Ma sul punto non mi sento sicuro del mio giudizio. Piuttosto mi sembra molto più probabile che cattiveria e gusto del sensazionale compenseranno ciò che nel giudizio dei contemporanei a me manca. Non renderò dunque noto questo lavoro, ma non per questo mi tratterrò dallo scriverlo, anche perché l’ho già buttato giù due anni or sono e devo solo rielaborarlo e aggiungerlo ai due saggi precedenti. Dovrà poi rimanere accuratamente celato fino al giorno in cui potrà avventurarsi alla luce del sole senza pericolo, o finché qualcuno, giunto alle stesse conclusioni e opinioni, possa dire: “In tempi più bui c’è già stato qualcuno che pensava proprio le stesse cose”.
Seconda avvertenza
([Londra] giugno 1938)
Le molto particolari difficoltà che hanno gravato su di me durante la stesura di questo studio sulla persona di Mosè – perplessità interne e ostacoli esterni – fanno sì che questo terzo e conclusivo saggio sia preceduto da due preamboli diversi, che si contraddicono, anzi si escludono a vicenda. Infatti, nel breve intervallo temporale fra le due sono radicalmente mutate le circostanze esterne all’autore. Allora vivevo protetto dalla Chiesa cattolica e temevo, pubblicando il mio saggio, di perderne la protezione e di provocare il divieto di lavorare ai seguaci e agli allievi della psicanalisi in Austria. Poi all’improvviso è arrivata l’invasione tedesca e il cattolicesimo si è mostrato, per dirla con parole bibliche, una “canna al vento”. Certo di essere ora perseguitato non solo per il mio modo di pensare ma anche per la mia “razza”, insieme a molti amici ho abbandonato la città che fin dalla prima infanzia, per settantotto anni, è stata per me la patria.
Ho trovato l’accoglienza più amichevole nella bella, libera, magnanima Inghilterra. Qui vivo ora come ospite ben accetto, traendo un sospiro di sollievo perché mi è stato tolto di dosso quel peso e perché posso nuovamente parlare e scrivere – stavo per dire: pensare – come voglio o devo. Oso rendere di dominio pubblico l’ultima parte del mio lavoro.
Non più ostacoli esterni o almeno tali da potersi tirare indietro. Nelle poche settimane da quando soggiorno qui, ho ricevuto innumerevoli manifestazioni di benvenuto da parte di amici che si rallegrano della mia presenza, da sconosciuti e anche da estranei che vogliono solamente esprimere la loro soddisfazione per aver qui trovato libertà e sicurezza. E sono persino arrivate, con una frequenza sorprendente per uno straniero, lettere di altra natura preoccupate per la salvezza della mia anima, che volevano indicarmi la via di Cristo e illuminarmi circa il futuro di Israele.
La brava gente che mi scriveva così non poteva sapere molto di me; ma mi attendo, quando questo lavoro su Mosè, tradotto, sarà conosciuto dai miei nuovi connazionali, di perdere tra un buon numero di loro non poche delle simpatie che ora mi dimostrano.
Quanto alle difficoltà interne, svolta politica e cambiamento di residenza non potevano cambiare nulla. Come prima, mi sento insicuro di fronte al mio stesso lavoro; mi è venuta a mancare la coscienza dell’unità e dell’affinità che devono esistere tra l’autore e la sua opera. Non che mi manchi la convinzione dell’esattezza del risultato cui sono giunto, acquisito già un quarto di secolo fa, quando nel 1912 scrissi il libro su Totem e tabù e che da allora si è solo rinforzata. Da allora non ho più dubitato che i fenomeni religiosi siano comprensibili solo nello schema dei sintomi nevrotici individuali a noi familiari, come ritorno di processi significativi della preistoria della famiglia umana da lungo tempo dimenticati, che devono il loro carattere coatto a tale origine, e quindi agiscono sugli uomini in forza del loro contenuto di verità storica. La mia insicurezza entra in gioco solo quando mi chiedo se sia riuscito a dimostrare queste affermazioni nell’esempio qui prescelto del monoteismo ebraico. Questo lavoro, che parte dall’uomo Mosè, sembra al mio spirito critico una ballerina in equilibrio sulle punte. Se non avessi trovato sostegno nell’interpretazione analitica del mito dell’esposizione e non mi fossi potuto ricollegare da lì alla congettura di Sellin sulla fine di Mosè, il tutto non avrebbe potuto essere scritto.
Comunque, il dado è tratto.
A. La premessa storica79
Lo sfondo storico degli eventi che hanno avvinto il nostro interesse è dunque il seguente. Grazie alle conquiste della diciottesima dinastia l’Egitto è diventato un impero mondiale. Il nuovo imperialismo si riflette nello sviluppo delle rappresentazioni religiose, anche se non dell’intero popolo, almeno della sua classe dominante e intellettualmente attiva. Per influsso dei sacerdoti del dio del Sole a On (Eliopoli), forse rinforzato da sollecitazioni provenienti dall’Asia, sorge l’idea di un dio universale, Aton, non più ristretto a un paese e a un popolo. Con il giovane Amenofi IV sale al trono un faraone che non nutre altro interesse se non quello di sviluppare questa idea di dio. Eleva la religione di Aton a religione di Stato; grazie a lui il dio universale diventa l’unico dio; tutto ciò che si racconta di altri dei è inganno e menzogna. Con inaudita inflessibilità resiste a ogni seduzione di pensiero magico; respinge l’illusione, cara agli Egizi in modo speciale, della vita dopo la morte. Presentendo in maniera sorprendente la successiva intuizione scientifica, riconosce nell’energia della radiazione solare la fonte di ogni vita sulla terra e la venera come simbolo della potenza del suo dio. Si vanta di gioire della creazione e di vivere in verità e giustizia (Maat)
È il primo e forse più puro caso di religione monoteistica nella storia dell’umanità; sarebbe di valore inestimabile riuscire a gettare uno sguardo più profondo nelle condizioni storiche e psicologiche della sua genesi. Ma si badò a non far arrivare fino a noi troppe informazioni sulla religione di Aton. Già sotto i suoi deboli successori, tutto ciò che Akhenaton aveva creato crollò. La vendetta del clero da lui represso si accanì contro la sua memoria: la religione di Aton fu abolita; distrutta e saccheggiata la capitale del faraone, ora bollato come malfattore. Intorno al 1350 a.C. la diciottesima dinastia si estinse; dopo un periodo di anarchia, il generale Haremhab, che regnò fino al 1315, ristabilì l’ordine. La riforma di Akhenaton sembrò un episodio destinato a essere dimenticato.
Fin qui ciò che è storicamente accertato; ora inizia la nostra ipotetica continuazione. Fra le persone vicine ad Akhenaton c’era un uomo, forse chiamato Tutmosi, come allora molti altri.80 Il nome non importa molto, se non per la sua seconda componente che doveva essere –mose. Aveva una posizione elevata, era convinto seguace della religione di Aton ma, all’opposto del re assorto nei suoi pensieri, era energico e appassionato. Per lui l’uscita di scena di Akhenaton e l’abolizione della sua religione significarono la fine di ogni speranza. Poteva rimanere a vivere in Egitto solo come proscritto o rinnegato. Come governatore della provincia di frontiera era forse venuto in contatto con una tribù semitica, là immigrata da alcune generazioni. Nel travaglio della delusione e dell’isolamento, si rivolse a questi stranieri, cercando in loro il risarcimento per la sua perdita. Li scelse come suo popolo e tentò di realizzare in loro il suo ideale. Dopo aver lasciato l’Egitto con costoro, accompagnato dai suoi seguaci, li consacrò con il segno della circoncisione; diede loro leggi; li introdusse alle dottrine della religione di Aton, dagli egizi appena respinta. Forse i precetti che l’uomo Mosè diede ai suoi ebrei erano ancora più aspri di quelli del suo signore e maestro Akhenaton; forse rinunciò anche alla protezione del dio solare di On, cui si era ancora attenuto.
Per l’esodo dall’Egitto dobbiamo fissare l’epoca dell’interregno dopo il 1350. I tempi successivi fino al compimento dell’occupazione della terra di Canaan sono particolarmente oscuri. Dal buio qui lasciato o piuttosto creato dal racconto biblico, la ricerca storica dei nostri giorni ha potuto estrarre due dati di fatto.
Il primo dato, scoperto da Ernst Sellin, è che gli ebrei, anche secondo la dichiarazione della Bibbia, caparbi e recalcitranti verso il loro legislatore e capo, un giorno gli si ribellarono, lo uccisero, e, come già gli egizi, respinsero la religione di Aton loro imposta.
Il secondo dato, dimostrato da Eduard Meyer, è che questi ebrei tornati dall’Egitto si unirono successivamente ad altre tribù loro affini nel territorio fra la Palestina, la penisola del Sinai e l’Arabia, e che ivi, nell’irrigua località detta Qadesh, assunsero sotto l’influsso degli arabi Madianiti una nuova religione, l’adorazione del dio vulcanico Yahweh. Subito dopo furono pronti a irrompere in Canaan da conquistatori.
I rapporti cronologici tra questi due eventi e con l’esodo dall’Egitto sono assai incerti. Il punto di riferimento storico più vicino è dato da una stele del faraone Merneptah (regnante fino al 1215), che nel racconto delle campagne di guerra in Siria e Palestina cita “Israele” tra i vinti. Assumendo la data di questa stele come terminus ad quem, per tutto il tempo decorso dall’esodo in poi resta circa un secolo: dal 1350 al 1215. È però possibile che il nome di “Israele” non si riferisca ancora alle tribù di cui stiamo seguendo le vicende e che, in verità, resti a nostra disposizione un intervallo di tempo più lungo. Lo stabilirsi di quello che sarà il popolo ebraico in Canaan non fu una conquista rapida, ma un processo compiuto a più riprese ed esteso su tempi più lunghi. Liberandoci dalla limitazione imposta dalla stele di Merneptah, possiamo facilmente assegnare una generazione (trent’anni) al periodo di Mosè,81 e poi lasciar passare almeno due generazioni, ma verosimilmente di più, fino all’unione di Qadesh; ora occorre che l’intervallo fra Qadesh e l’irruzione in Canaan sia breve. La tradizione ebraica, come mostra il saggio precedente, aveva le sue buone ragioni per accorciare l’intervallo fra l’esodo e la religione fondata a Qadesh, mentre la nostra descrizione ha l’interesse opposto.
Ma tutto ciò è ancora racconto storico, tentativo di colmare le lacune della nostra conoscenza storica, in parte ripetizione del secondo saggio su “Imago”. A noi interessa seguire i destini di Mosè e della sua dottrina, cui la ribellione degli ebrei aveva solo in apparenza posto fine. Dal racconto dello Yahwista, scritto intorno all’anno 1000 ma certo basato su attestati precedenti, abbiamo riconosciuto che con l’unione e la fondazione religiosa di Qadesh si concluse un compromesso, in cui le due parti contraenti si possono ancora facilmente distinguere. L’una si preoccupò soltanto di rinnegare la novità e l’estraneità del dio Yahweh e di rinvigorire la sua pretesa di essere venerato dal popolo; l’altra non volle sacrificargli cari ricordi concernenti la liberazione dall’Egitto e la figura grandiosa del capo, Mosè. E quest’altra riuscì effettivamente a introdurre quel fatto e l’uomo nella nuova narrazione della preistoria, a mantenere almeno il segno esteriore della religione mosaica, la circoncisione, e forse a far adottare alcune restrizioni nell’uso del nome del nuovo dio.
Abbiamo detto che a rappresentare queste pretese furono i discendenti della gente di Mosè, i Leviti, che solo da poche generazioni si erano separati dai contemporanei e connazionali di Mosè ed erano ancora legati da vividi ricordi alla sua memoria. Le narrazioni poeticamente abbellite, attribuite allo Yahwista e al suo successivo concorrente, l’Elohista, furono come mausolei al disotto dei quali la vera notizia di quelle antiche cose – ossia la natura della religione mosaica e la fine violenta del grand’uomo – era in un certo senso destinata a trovare la pace eterna, restando sottratta alla conoscenza delle generazioni successive. E, se abbiamo correttamente indovinato lo svolgimento dei fatti, non resta altro di enigmatico; avrebbero però potuto significare una volta per tutte la fine dell’episodio di Mosè nella storia del popolo ebraico.
Ora il fatto notevole è che le cose non andarono così; gli effetti più forti di quella vicenda vissuta dal popolo dovevano venire alla luce solo più tardi, spingendo nel corso di molti secoli per farsi gradatamente strada nella realtà effettuale. Non è verosimile che Yahweh si distinguesse molto per carattere dagli dei di popoli e tribù circostanti. A dire il vero, fu in lotta con questi, come i popoli stessi si combattevano tra loro, ma è anche presumibile che a un adoratore di Yahweh di allora venisse tanto poco in mente di negare l’esistenza degli dei di Canaan, Moab, Amalek eccetera, quanto quella dei popoli che ci credevano.
L’idea monoteistica, balenata con Akhenaton, si oscurò di nuovo; doveva restare nell’ombra ancora per molto. Reperti nell’isola di Elefantina, proprio davanti alla prima cateratta del Nilo, hanno fornito la sorprendente notizia che là si era da secoli insediata una colonia militare ebraica, nel cui tempio si adoravano, oltre al dio principale Yahu, due divinità femminili, di cui una chiamata Anat-Yahu. Questi ebrei erano di fatto tagliati fuori dalla madre patria e non avevano preso parte al suo sviluppo religioso; il governo imperiale persiano (V secolo a.C.) trasmise loro la notizia dei nuovi precetti di culto di Gerusalemme.82
Tornando a tempi più antichi, possiamo dire che il dio Yahweh non somigliava certo al dio mosaico. Aton fu pacifista come il suo rappresentante in terra, o meglio il suo modello, il faraone Akhenaton, che assistette inattivo alla disgregazione dell’impero mondiale conquistato dai suoi avi. Yahweh era sicuramente più adatto a un popolo che stava per occupare nuove terre con la violenza. E tutto ciò che nel dio mosaico era degno di venerazione sfuggiva del tutto alla comprensione della massa primitiva.
Rifacendomi volentieri alla concordanza con altri autori, ho già detto che il fatto centrale dell’evoluzione religiosa ebraica fu che il dio Yahweh nel corso del tempo perse i propri connotati, assomigliando sempre più all’antico dio di Mosè, Aton. Rimasero certe differenze, cui a prima vista si sarebbe portati a dare molta importanza, che però si spiegano facilmente. Aton aveva cominciato a predominare in Egitto in un’epoca felice di sicurezza del possesso; anche quando l’impero cominciò a vacillare, i suoi adoratori avevano potuto restare distaccati dalle perturbazioni e continuare a magnificare le sue creazioni e a goderne.
Al popolo ebraico, invece, il destino arrecò una serie di dure prove e di esperienze dolorose; il suo dio divenne rigido e severo, quasi offuscato. Mantenne il carattere di dio universale, dominatore di tutti i paesi e tutti i popoli, ma quando la sua adorazione si trasmise dagli egizi agli ebrei si verificò un eloquente progresso, grazie al quale gli ebrei diventarono il suo popolo eletto, le cui particolari obbligazioni alla fine sarebbero state premiate. È possibile che il popolo non trovasse facile conciliare la credenza di essere privilegiato dal suo dio onnipotente con le tristi esperienze del suo infelice destino. Ma il popolo non si lasciò sviare, accrebbe il proprio senso di colpa per soffocare i dubbi su Dio, e forse da ultimo fece ricorso agli “imperscrutabili decreti divini”, come i devoti fanno ancor oggi. Se era tentato di meravigliarsi che Dio permettesse il susseguirsi di aggressori, assiri, babilonesi, persiani, che lo sottomettevano e maltrattavano, riconobbe però il potere di Dio, vedendo che a loro volta tutti questi malvagi nemici venivano a loro volta sconfitti e i loro imperi dissolti.
In tre punti importanti il tardo dio ebraico divenne simile al vecchio dio mosaico. Il primo e decisivo è che fu davvero riconosciuto come l’unico dio, accanto al quale era impensabile ogni altro dio. Un intero popolo prese sul serio Il monoteismo di Akhenaton; anzi, il popolo si attaccò tanto a questa idea che divenne il contenuto principale della sua vita spirituale e non gli restò interesse per altro. Il popolo e il clero, divenuto su di lui dominante, furono su questo punto unanimi; ma ogni volta che i sacerdoti esaurivano la loro attività nel perfezionare il cerimoniale del culto, finivano per contrastare forti correnti popolari, che cercavano di far rivivere due altre dottrine di Mosè sul suo dio. Le voci dei profeti non si stancavano di proclamare che Dio disdegnava il cerimoniale e i sacrifici ed esigeva soltanto di credere in lui e di condurre una vita in verità e giustizia. Quando esaltavano la semplicità e la santità della vita nel deserto, erano sicuramente influenzati dall’ideale mosaico.
È tempo di porre la questione se sia proprio necessario invocare l’influsso di Mosè sulla configurazione finale della rappresentazione ebraica di Dio, o se non basti supporre l’evoluzione spontanea verso una spiritualità superiore di una civiltà vissuta per secoli. Su questa possibile spiegazione, che porrebbe fine a tutti i nostri enigmi, ci sono due cose da dire. In primo luogo, non spiega nulla. Le stesse circostanze non hanno condotto il popolo greco, certo altamente dotato, al monoteismo, bensì all’allentamento della religione politeistica e all’inizio del pensiero filosofico. Per quanto ci è dato capire, in Egitto il monoteismo sorse come effetto secondario dell’imperialismo: Dio fu l’effetto collaterale del faraone, signore assoluto di un grande impero mondiale. Presso gli Ebrei le condizioni politiche impedivano che dall’idea del dio esclusivo del popolo si passasse a quella del dio sovrano universale del mondo; e donde venne a questa minuscola e impotente nazione la temerarietà di spacciarsi per la figlia preferita ed eletta del grande Signore? Così il problema dell’origine del monoteismo nel popolo ebraico rimarrebbe irrisolto, a meno di accontentarsi della risposta corrente, che si tratti cioè semplicemente dell’espressione del particolare genio religioso di questo popolo. Il genio è notoriamente incomprensibile e irresponsabile, e perciò non si dovrebbe invocarlo come spiegazione, salvo il fallimento di ogni altra soluzione.83
Poi ci s’imbatte nel dato di fatto che la stessa cronaca e storia scritta ebraica ci indica la strada, asserendo con la massima risolutezza, questa volta senza contraddirsi, che l’idea di un dio unico fu portata al popolo da Mosè. Se c’è da obiettare alla credibilità di quanto ci si assicura, è che la rielaborazione sacerdotale del testo che abbiamo di fronte fa palesemente risalire a Mosè troppe cose. Istituti come i precetti del rito, che indubbiamente appartengono a epoche più tarde, sono spacciati come comandamenti mosaici, con il chiaro intento di conferire loro autorità. Ciò è per noi ragione di sospetto, ma non basta per un rifiuto. Infatti, il motivo più profondo dell’esagerazione è evidente. La rappresentazione sacerdotale pretende di stabilire una continuità tra il suo presente e il passato mosaico; pretende di rinnegare proprio ciò che abbiamo designato come il fatto più vistoso della storia religiosa ebraica, cioè che tra la legislazione di Mosè e la successiva religione ebraica si spalanca una lacuna, riempita dapprima dal servizio di Yahweh e colmata solo più tardi per gradi. Essa contesta questo processo con ogni mezzo, benché non sussista alcun dubbio sulla sua esattezza storica, dato che nel particolare trattamento subito dal testo biblico sono rimasti sovrabbondanti elementi che lo provano. La rielaborazione sacerdotale ha qui tentato qualcosa di simile alla tendenza deformante che fece del nuovo dio Yahweh il dio dei padri. Tenuto conto di questo motivo del Codice sacerdotale, ci resta difficile non dar credito all’affermazione che davvero lo stesso Mosè diede ai suoi ebrei l’idea monoteistica. Ci è tanto più facile consentire, perché siamo in grado di dire da dove Mosè trasse quell’idea, mentre i sacerdoti ebrei non lo sapevano certamente più.
Qui qualcuno potrebbe domandarci quale sia il vantaggio di derivare il monoteismo ebraico da quello egizio, perché così il problema viene solo spostato di un po’, senza che sulla genesi dell’idea monoteistica ne sappiamo di più. La risposta all’obiezione è che non si tratta di utilità, ma d’indagine. E forse abbiamo qualcosa da imparare scoprendo l’andamento reale dei fatti.
B. Tempo di latenza e tradizione
Dunque ci dichiariamo a favore della credenza che tanto l’idea di un dio unico, quanto il rifiuto del cerimoniale che agisce magicamente, nonché l’accento sulla pretesa etica, avanzata in suo nome, furono effettivamente dottrine mosaiche, che all’inizio non trovarono ascolto, ma dopo un lungo intervallo di tempo andarono a effetto e infine si imposero durevolmente. Come si deve spiegare l’effetto ritardato e dove s’incontrano fenomeni simili?
La prima idea che viene in mente dice che non si trovano raramente in campi molto diversi e che verosimilmente si realizzano in molteplici modi più o meno facili da comprendere. Prendiamo per esempio il destino di una nuova teoria scientifica come la dottrina evoluzionistica di Darwin. Dapprima incontra un accanito rifiuto; per decenni è violentemente avversata, ma basta non più di una generazione perché sia riconosciuta come grande progresso verso la verità. Darwin stesso ottiene l’onore di una tomba in Westminster.
Un caso del genere non è difficile da decifrare. La nuova verità ha risvegliato resistenze affettive, che si fanno rappresentare da argomenti con cui si dovrebbero contestare le prove a favore della dottrina sgradita; la controversia delle opinioni richiede un certo tempo; fin dall’inizio vi sono sostenitori e oppositori; il numero e il peso dei primi aumenta sempre più finché non prendono il sopravvento; per tutta la durata della disputa non si è mai dimenticato di che cosa si tratta. Quasi non ci meravigliamo che l’intero svolgimento abbia richiesto un certo tempo, e forse non valutiamo abbastanza di avere a che fare con un processo di psicologia delle masse.
Non è difficile trovare un’analogia corrispondente in pieno a questo processo nella vita psichica del singolo. Sarebbe il caso di chi viene a sapere qualcosa di nuovo, che in base a prove certe dovrebbe riconoscere come vero, ma che contraddice qualche suo desiderio e offende certe sue preziose convinzioni. Allora esiterà, cercherà ragioni per mettere in dubbio la novità, e per un po’ combatterà con sé stesso, finché alla fine confesserà: “È proprio così, sebbene non sia facile da ammettere e mi sia penoso doverlo credere”. Da questo esempio apprendiamo solo che ci vuole del tempo perché il lavoro intellettuale dell’Io superi obiezioni sostenute da forti [pre]occupazioni (Besetzungen) affettive. La somiglianza tra questo caso e quello che ci stiamo sforzando di capire non è molta.
L’esempio successivo cui ci rivolgiamo ha apparentemente ancor meno in comune con il nostro problema. Succede che un uomo lasci in apparenza indenne il luogo in cui ha vissuto un pauroso incidente, ad esempio uno scontro di treni. Però nelle settimane seguenti sviluppa una serie di gravi sintomi psichici e motori, che si possono far derivare solo dal suo shock, da quella scossa o da qualcosa accaduto allora. Ora ha una “nevrosi traumatica”. È un fatto del tutto incomprensibile, quindi nuovo. Il tempo intercorso tra l’incidente e il primo apparire dei sintomi è detto “periodo d’incubazione”, con trasparente allusione alla patologia delle malattie infettive. A posteriori dobbiamo renderci conto che, nonostante la fondamentale differenza dei due casi, tuttavia il problema della nevrosi traumatica e del monoteismo ebraico coincidono in un punto, precisamente nel carattere che si potrebbe chiamare latenza. Secondo la nostra accertata ipotesi, dopo il distacco dalla religione di Mosè, nella storia della religione ebraica vi è appunto un lungo periodo in cui non c’è traccia né dell’idea monoteistica, né del disprezzo per il cerimoniale, né di una particolare sottolineatura per tutto ciò che è etico. Allora siamo pronti ad ammettere la possibilità che la soluzione del nostro problema vada cercata in una particolare situazione psicologica.
Abbiamo già ripetutamente descritto cosa avvenne a Qadesh, quando le due parti del futuro popolo ebraico si radunarono per adottare una nuova religione. Da parte di chi era stato in Egitto, i ricordi dell’esodo e della figura di Mosè erano ancora così forti e vividi da richiedere di essere inclusi nel racconto sulla preistoria. Erano forse i nipoti di persone che avevano conosciuto lo stesso Mosè, e alcuni di loro si sentivano ancora egizi e portavano nomi egizi. Avevano però buoni motivi per rimuovere il ricordo del destino procurato al loro capo e legislatore. Per gli altri fu determinante l’intenzione di glorificare il nuovo dio e contestare la sua estraneità. Le due parti avevano lo stesso interesse a disconoscere che tra loro vi era stata una precedente religione e qual era il suo contenuto. Si realizzò così un primo compromesso che verosimilmente fu ben presto messo per iscritto. La gente d’Egitto aveva portato con sé la scrittura e il piacere della storiografia, ma doveva passare ancora molto tempo prima che la storiografia riconoscesse l’obbligo dell’inflessibile veridicità. All’inizio non si fece scrupolo di conformare i suoi racconti ai bisogni e alle tendenze del momento, come se il concetto di alterazione dei fatti non fosse ancora sorto in lei. In conseguenza di tali circostanze poté formarsi la contrapposizione fra fissazione scritta e trasmissione orale dello stesso materiale, la tradizione. Ciò che fu omesso o alterato nella redazione scritta poté molto facilmente rimanere conservato intatto nella tradizione. La tradizione completava e al tempo stesso contraddiceva la storiografia. Era meno soggetta all’influsso delle tendenze deformanti, forse in alcuni parti vi si sottraeva del tutto, e per questo poté essere più veritiera del racconto fissato nello scritto. Però la sua attendibilità soffriva perché meno stabile e meno determinata della redazione scritta, ma esposta comunque a numerose alterazioni e deformazioni, visto che si tramandava per comunicazione orale da una generazione all’altra. A una simile tradizione potevano toccare sorti di diverso tipo. Per prima cosa ci aspetteremmo che fosse stata sopraffatta dalla redazione scritta, che non fosse stata in grado di affermarsi accanto ad essa, che fosse diventata sempre più vaga e infine che fosse caduta in oblio. Ma altri destini sono ugualmente possibili; uno è che la tradizione stessa si fissi infine per iscritto, e via via che procederemo tratteremo ancora di altre possibilità.
Del fenomeno di cui ci stiamo occupando, della latenza nella storia religiosa ebraica, si offre ora la spiegazione che le circostanze e i contenuti rinnegati intenzionalmente dalla storiografia, per così dire, ufficiale, in realtà non andarono mai persi. Ne rimase viva la notizia in tradizioni conservate nel popolo. A quanto ci assicura Sellin, proprio sulla fine di Mosè c’era una tradizione in netto contrasto con la presentazione ufficiale e molto più vicina alla verità. Possiamo supporre che lo stesso sia accaduto anche per altro che apparentemente scomparve con Mosè, per certi contenuti della religione mosaica inaccettabili dalla maggioranza dei suoi contemporanei.
Lo strano dato di fatto che qui s’incontra è, tuttavia, che queste tradizioni, invece di affievolirsi nel tempo, divennero nel corso dei secoli sempre più importanti; si fecero strada nelle successive rielaborazioni della cronaca ufficiale, e infine si mostrarono talmente forti da influire in modo decisivo sul pensiero e sull’azione del popolo. Per ora le condizioni che resero possibile questo sbocco della vicenda ci restano ignote.
Il dato è così curioso che ci sentiamo giustificati a tenerlo ancora davanti a noi, perché racchiude il nostro problema. Il popolo ebraico aveva abbandonato la religione di Aton, recata da Mosè, e si era rivolto al culto di un altro dio, poco diverso dai Baalim dei popoli vicini. Nessuno sforzo delle tendenze successive riuscì a occultare questo vergognoso stato di cose. Tuttavia, la religione di Mosè non era scomparsa senza lasciar tracce; se ne era conservato una specie di ricordo, forse una tradizione oscurata e deformata. Fu così che questa tradizione di un grande passato continuò a essere efficace come di sfondo; gradualmente acquistò sempre maggior potere sugli spiriti e alla fine riuscì a trasformare il dio Yahweh nel dio mosaico e a richiamare in vita la religione di Mosè, introdotta molti secoli prima e poi abbandonata. L’idea che una tradizione scomparsa debba esercitare un effetto così potente sulla vita spirituale di un popolo non ci è familiare. Ci troviamo qui in un campo della psicologia delle masse dove non ci sentiamo a casa (heimisch). Teniamo d’occhio analogie, fatti di natura almeno simile, sebbene in altri campi. Pensiamo che sia possibile trovarli.
Ai tempi in cui tra gli ebrei si preparava il ritorno della religione mosaica, il popolo greco si trovava in possesso di un tesoro oltremodo ricco di leggende sulla stirpe e di miti eroici. Nel nono e nell’ottavo secolo, si ritiene, ebbero origine le due epopee omeriche, che trassero la loro materia da questo ciclo di leggende. Con le nostre odierne vedute psicologiche avremmo potuto assai prima di Schliemann ed Evans porci la domanda da dove i Greci avessero preso tutto il materiale leggendario che Omero e i grandi drammaturghi attici elaborarono nei loro capolavori. La risposta sarebbe stata che, verosimilmente, nella sua preistoria quel popolo aveva vissuto un periodo di splendore esteriore di fioritura civile; una catastrofe storica aveva posto fine a questo periodo, di cui si era però conservata un’oscura tradizione in quelle leggende. La ricerca archeologica dei giorni nostri ha poi confermato questa congettura, che in passato sicuramente sarebbe apparsa troppo azzardata. Gli scavi hanno scoperto le testimonianze della grandiosa civiltà minoico-micenea, che nel continente greco si era probabilmente estinta già prima del 1250 a.C. Negli storici greci di epoca successiva se ne trova appena un cenno; tutt’al più il nome del re Minosse e del suo palazzo, il Labirinto, e l’osservazione che ci fu un tempo in cui i Cretesi avevano avuto il dominio dei mari; questo è tutto, per il resto non è rimasto nulla se non le tradizioni riprese dai poeti.
Sono state scoperte epopee popolari anche presso altri popoli, come i tedeschi, gli indiani, i finnici. Tocca agli storici della letteratura controllare se la loro origine faccia supporre le stesse condizioni del caso dei greci. Credo che la ricerca darà un risultato positivo. La condizione che riconosciamo è che un pezzo di preistoria, che immediatamente dopo dovette apparire ricco di contenuto, importante, grandioso e forse sempre eroico, ma situato tanto lontano, appartenne a tempi così remoti che solo un’oscura e incompiuta tradizione ne diede notizia alle generazioni successive. Ha stupito che il genere artistico epico si sia estinto in tempi più tardi. Forse la spiegazione è che non si produssero più le condizioni necessarie. L’antico materiale era ormai rivisto criticamente e per tutti gli avvenimenti successivi la storiografia era subentrata alla tradizione. Le più grandi imprese eroiche dei nostri giorni non sono state in grado di ispirare un’epica; già Alessandro Magno a ragione si rammaricava che non avrebbe trovato un Omero.
Epoche remote esercitano una grande, spesso enigmatica, attrazione sulla fantasia degli uomini. Ogni volta che sono scontenti del loro presente – e lo sono abbastanza spesso – si volgono indietro al passato, sperando di trovarvi finalmente avverato il sogno mai estinto di un’età dell’oro.84 Verosimilmente sottostanno sempre all’incantesimo della loro infanzia, in loro riflessa dal ricordo non imparziale come tempo d’indisturbata beatitudine. Quando del passato non rimane altro che ricordi incompiuti e confusi, che chiamiamo tradizione, essi costituiscono un particolare stimolo per l’artista, che così è libero di colmare i vuoti del ricordo come vuole la sua fantasia, e di formare a modo suo il quadro dell’epoca che vuole riprodurre. Si potrebbe quasi dire che quanto più indeterminata diventa la tradizione, tanto più utile sarà per il poeta. Quindi non ci dobbiamo stupire dell’importanza della tradizione per la poesia, e l’analogia con ciò che condiziona l’epica ci renderà meno strana l’ipotesi che, presso gli ebrei, la tradizione mosaica fu quella che trasformò il servizio di Yahweh nell’antica religione mosaica. Ma per un altro verso i due casi sono ancora molto diversi. Là il risultato è un poema, qui una religione; e di quest’ultima abbiamo supposto che fosse riprodotta, sotto la spinta della tradizione, con una fedeltà che, com’è naturale, non trova analogo corrispettivo nel caso dell’epica. Pertanto il nostro problema resta aperto quanto basta a giustificare il bisogno di trovare analogie più calzanti.
C. L’analogia
L’unica soddisfacente analogia con il notevole processo individuato nella storia religiosa ebraica si trova in un campo apparentemente assai distante; ma è un’analogia assai completa, che si avvicina all’identità. Vi incontriamo di nuovo il fenomeno della latenza, l’emergenza di manifestazioni incomprensibili, che esigono una spiegazione, e la condizione dell’esperienza precedente in seguito dimenticata. E troviamo pure il carattere della coazione, che s’impone alla psiche, sopraffacendo il pensiero logico in un modo che, per esempio nella genesi dell'epica, non si era presentato.
L’analogia s’incontra in psicopatologia nella genesi della nevrosi umana, cioè in un campo che riguarda la psicologia del singolo, mentre i fenomeni religiosi appartengono naturalmente alla psicologia delle masse. Si mostrerà che l’analogia non è così sorprendente come si potrebbe a prima vista pensare, anzi corrisponde piuttosto a un postulato.
Chiamiamo traumi le impressioni precocemente vissute e poi dimenticate, cui attribuiamo grande importanza per l’eziologia delle nevrosi. Può restare in sospeso se l’eziologia delle nevrosi possa in genere considerarsi traumatica. L’ovvia obiezione a questa tesi è che non in tutti i casi si riesce a scovare un trauma palese nella preistoria dell’individuo nevrotico. Spesso dobbiamo accontentarci di dire che non c’è altro che una reazione inconsueta, abnorme, a esperienze e richieste che riguardano tutti gli individui, che le rielaborano e le liquidano in altro modo, da definire normale. Dove non disponiamo di altre spiegazioni che le predisposizioni ereditarie e costituzionali, siamo naturalmente portati a dire che la nevrosi non è ereditata ma sviluppata.
In questo contesto, però, si mettono in evidenza due punti. Il primo è che la genesi della nevrosi risale sempre e comunque a impressioni infantili molto precoci.85 In secondo luogo, è giusto che ci siano casi designati come “traumatici”, perché i loro effetti risalgono inequivocabilmente a una o più forti impressioni di un’epoca precoce, che si sono sottratte alla normale liquidazione, tanto da poter ritenere che, se non fossero accadute, anche la nevrosi non si sarebbe instaurata. Ora, per i nostri intenti, basterebbe limitare l’analogia ricercata a questi casi traumatici. Ma la frattura tra i due gruppi non sembra insuperabile. È senz’altro possibile unificare le due condizioni eziologiche in un’unica concezione; dipende solo da ciò che si definisce come “traumatico”. Una volta ammesso che I’esperienza acquisti carattere traumatico solo a seguito di un fattore quantitativo (ossia, se l'esperienza provoca reazioni patologiche insolite, la colpa è sempre della richiesta eccessiva) allora si può arrivare facilmente a dire che in una certa costituzione agisce come trauma qualcosa che in un’altra non avrebbe lo stesso effetto. Ne risulta così la rappresentazione di una cosiddetta serie complementare mobile, in cui due fattori concorrono a completare l’eziologia: un meno dell’uno è compensato da un più dell’altro; in generale si ha un effetto congiunto dei due e solo ai due estremi della serie si può parlare di motivazione semplice. Dopo questa considerazione, la distinzione tra eziologia traumatica e non si può mettere da parte come inessenziale per l’analogia da noi cercata.
Forse, nonostante il rischio di ripeterci, serve al nostro scopo riassumere i dati di fatto contenenti l’analogia per noi significativa. Sono i seguenti. Dalla nostra ricerca risulta che quelli che chiamiamo fenomeni (sintomi) di una nevrosi sono conseguenze di certe esperienze e impressioni, che proprio per questo riconosciamo come traumi eziologici. Ci si presentano due compiti: in primo luogo, ricercare i caratteri comuni di queste esperienze e, in secondo luogo, i caratteri dei sintomi nevrotici; così facendo non potremo evitare certe schematizzazioni.
a) Tutti questi traumi appartengono alla prima infanzia, fino all'età di cinque anni circa. Le impressioni al tempo dell’incipiente capacità di parola risaltano come particolarmente interessanti; il periodo tra i due e i quattro anni appare il più importante; non è possibile stabilire con precisione quando dopo la nascita inizi quest’epoca di recettività.
b) Le relative esperienze sono di regola del tutto dimenticate; inaccessibili al ricordo, ricadono nel periodo dell’amnesia infantile, interrotta al più da singoli residui mnestici, i cosiddetti ricordi di copertura.
c) Questi si riferiscono a impressioni di natura sessuale e aggressiva e certo anche a offese remote che l’Io ha subito (offese narcisistiche). Va al riguardo osservato che bambini così piccoli non distinguono nettamente, come fanno dopo, tra azioni sessuali e puramente aggressive (fraintendimento sadico dell’atto sessuale). Il prevalere del fattore sessuale balza naturalmente agli occhi ed esige un riconoscimento teorico.
I tre punti – presenza precoce entro i primi cinque anni, dimenticanza, contenuto sessuale-aggressivo – sono strettamente associati. I traumi sono o esperienze nel proprio corpo o percezioni sensoriali, soprattutto visive e uditive; sono cioè o esperienze o impressioni. La connessione tra questi tre punti è stabilita da una teoria, a sua volta risultato del lavoro analitico, il quale soltanto è capace di procurare una conoscenza delle esperienze dimenticate o, per esprimerci in modo più vivido ma anche più scorretto, di riportarle nel ricordo. Secondo la teoria analitica, contrariamente all’opinione popolare, la vita sessuale dell’uomo – o ciò che le corrisponde più tardi – mostra per tempo una fioritura che termina a circa cinque anni, cui segue la cosiddetta epoca di latenza – fino alla pubertà – in cui non c’è alcun progresso nello sviluppo della sessualità, anzi quel che è stato raggiunto regredisce. Questa dottrina è confermata dalla ricerca anatomica sulla crescita dei genitali interni; conduce alla congettura che l’uomo discenda da una specie animale che raggiungeva la maturità sessuale a cinque anni, e desta il sospetto che il differimento e l’inizio in due tempi della vita sessuale siano intimamente connessi con la storia del diventare uomo. L’uomo sembra l’unico essere animale con simile latenza e ritardo sessuale. Ricerche sui primati (che non mi risulta ci siano) sarebbero indispensabili per provare la teoria. Psicologicamente non può essere indifferente che il periodo dell’amnesia infantile coincida con questa preistoria della sessualità. Forse questo stato di cose determina la vera condizione che rende possibile la nevrosi, che in un certo senso è un privilegio umano e appare in questa prospettiva come un resto (survival) di epoche remote, allo stesso modo di certe componenti dell’anatomia del nostro corpo.
In secondo luogo, sulle comuni caratteristiche o sulle peculiarità dei fenomeni nevrotici, vanno sottolineati due punti.
a) Gli effetti del trauma sono di due tipi, positivi e negativi. I primi sono sforzi di riattivare il trauma, quindi di ricordare l’esperienza dimenticata, o ancora meglio di renderla reale, vivendone una ripetizione ex novo, anche se si tratta solo di una relazione affettiva del passato, rivivendo la stessa in un’analoga relazione con un’altra persona. Questi sforzi si considerano insieme come fissazione al trauma e coazione a ripetere. Possono essere assunti nel cosiddetto Io normale, conferendogli come sue tendenze stabili tratti immutabili di carattere, benché o, molto meglio, proprio perché il loro effettivo fondamento, la loro origine storica è stata dimenticata. Così un uomo che ha trascorso l’infanzia attaccato in maniera eccessiva e oggi dimenticata alla madre, può per tutta la vita cercare una donna da cui dipendere, farsi nutrire e mantenere. Una ragazza che è stata oggetto di seduzione sessuale da piccola, può indirizzare la successiva vita sessuale in modo da continuare a provocare attacchi simili. È facile indovinare che, grazie a tali vedute sul problema della nevrosi, ci inoltriamo nella comprensione del carattere in generale.
Le reazioni negative perseguono lo scopo opposto, cioè non ricordare né ripetere alcunché dei traumi dimenticati. Possiamo considerarle insieme come reazioni di difesa. Loro espressione principale sono i cosiddetti evitamenti, che possono crescere fino a inibizioni e fobie. Le reazioni negative danno i contributi più forti alla formazione del carattere. Di base sono fissazioni al trauma, proprio come il loro opposto, solo che sono fissazioni con tendenza opposta. I sintomi della nevrosi in senso stretto sono formazioni di compromesso, cui partecipano entrambe le tendenze derivanti dai traumi, in modo che in essi trovi espressione preponderante l’apporto ora dell’una ora dell’altra direzione. Grazie al contrasto tra le reazioni si producono conflitti, che di regola non possono arrivare ad alcuna conclusione.
b) Tutti questi fenomeni, dai sintomi alle restrizioni dell'Io e alle alterazioni stabili del carattere, hanno carattere di coazione, cioè accanto a grande intensità psichica mostrano un’ampia indipendenza dall’organizzazione degli altri processi psichici, adattati alle richieste del mondo esterno reale e corrispondenti alle leggi del pensiero logico. Questi fenomeni non sono o non sono abbastanza influenzati dalla realtà esterna; non si curano né di essa né del suo rappresentante psichico, incorrendo così facilmente nell’opposizione attiva ad ambedue. Sono per così dire uno Stato nello Stato, un partito inaccessibile, inutilizzabile per la cooperazione, che può però riuscire a prevalere sull’altro, il cosiddetto “normale”, costringendolo al suo servizio. Quando ciò accade, vuol dire che si è raggiunto il predominio di una realtà psichica interna sulla realtà del mondo esterno e si apre la via alla psicosi. Anche se non si arriva a tanto, l’importanza pratica di questi comportamenti non va sottovalutata. L’inibizione e l’incapacità a vivere delle persone dominate da una nevrosi sono un fattore molto importante nella società umana, ed è lecito riconoscervi l’espressione diretta della loro fissazione a un primo pezzo del loro passato.
Chiediamoci ora cosa ne sia della latenza che, riguardo all’analogia, ci deve interessare in modo particolare. Al trauma infantile può immediatamente seguire l’esplosione nevrotica, una nevrosi infantile, piena di sforzi difensivi e accompagnata da formazione di sintomi. Può durare piuttosto a lungo, causare vistosi disturbi, ma anche decorrere latente e passare inosservata. Di regola nella nevrosi la difesa prende il sopravvento; in ogni caso permangono alterazioni dell’Io paragonabili a cicatrici. Solo di rado la nevrosi infantile si prolunga senza interruzioni in quella dell’adulto. Molto più spesso le dà il cambio una fase di sviluppo apparentemente indisturbato, processo sostenuto o reso possibile dal sovrapporsi del periodo fisiologico di latenza. Solo più tardi subentra il mutamento con cui la nevrosi definitiva si manifesta come effetto ritardato del trauma. Ciò accade o con l’irruzione della pubertà o un poco più tardi. Nel primo caso, ciò avviene perché le pulsioni, rinforzate dalla maturazione fisica, possono ora riprendere il combattimento, in cui prima erano state sconfitte dalla difesa; nel secondo, perché le reazioni e le alterazioni dell’Io prodotte dalla difesa si mostrano ora di impedimento per fronteggiare i nuovi doveri imposti dalla vita, tanto che si arriva ad acuti conflitti tra le richieste del mondo esterno reale e l’Io, che vuole preservare la propria organizzazione faticosamente acquisita nella battaglia difensiva. Nella nevrosi il fenomeno del tempo di latenza, compreso tra le prime reazioni al trauma e il successivo scoppio della malattia, va considerato tipico. È anche possibile vedere in questo modo di ammalarsi un tentativo di guarigione, lo sforzo di conciliare con il resto le parti dell’Io scisse a causa del trauma, riunendole in un tutto potente a fronte del mondo esterno. Ma il tentativo riesce solo di rado, quando non venga in soccorso il lavoro analitico, e anche allora non riesce sempre e termina abbastanza spesso nella piena devastazione e frammentazione dell'Io, o nella sua sopraffazione a opera della parte precocemente scissa e dominata dal trauma.
Per convincere il lettore, sarebbe necessario comunicare nei dettagli molte storie di vite nevrotiche. Ma, data l’ampiezza e la difficoltà dell’argomento, ciò distruggerebbe il carattere di questo lavoro, che si trasformerebbe in un trattato di teoria delle nevrosi; ma anche così finirebbe forse per avere un valore solo per la minoranza di persone che hanno fatto dello studio e dell’esercizio della psicanalisi lo scopo della loro vita. Rivolgendomi qui a una cerchia più vasta, non posso far altro che invitare il lettore a concedere una certa provvisoria credibilità alle tesi già brevemente esposte, al che si accompagna da parte mia l’ammissione che dovrà accettare le conseguenze verso le quali Io conduco solo se le teorie che ne sono il presupposto si dimostreranno giuste.
Posso tuttavia cercare di narrare un singolo caso che permette di riconoscere in modo particolarmente chiaro alcune delle menzionate peculiarità della nevrosi. Naturalmente non ci si può aspettare da un singolo caso che mostri tutto, e non si deve restare delusi se nel contenuto disti molto da ciò per cui cerchiamo un’analogia.
Un ragazzino che, come avviene molto spesso nelle famiglie piccolo-borghesi, condivideva da piccolo la camera da letto con i genitori, ebbe ripetute, anzi regolari occasioni, all’età dell’appena acquisita capacità di parola, di osservare le faccende sessuali tra i genitori, di vedere qualcosa e di udire ancora di più. Nella successiva nevrosi, scoppiata immediatamente dopo la prima polluzione spontanea, il primo e più fastidioso sintomo fu l’insonnia. Divenne sensibile in modo straordinario ai rumori notturni e, una volta sveglio, non riusciva a riprendere sonno. Il disturbo del sonno era un vero sintomo di compromesso, da un lato espressione della sua difesa contro le percezioni notturne, dall’altro il tentativo di ristabilire Io stato di veglia, in cui poteva origliare quelle impressioni.
Precocemente stimolato da quelle osservazioni a un’aggressiva virilità, il bambino cominciò a eccitare con le mani il suo piccolo pene e a intraprendere diverse aggressioni sessuali verso la madre, identificandosi con il padre, al cui posto così si poneva. Le cose continuarono così finché si buscò dalla madre la proibizione di toccarsi il membro, e anzi la sentì minacciare che Io avrebbe detto al padre, che per punizione gli avrebbe portato via il membro peccaminoso. La minaccia di castrazione ebbe sul ragazzino un effetto traumatico straordinariamente forte. Cessò la sua attività sessuale e cambiò carattere. Invece di identificarsi con il padre, ora Io temeva, si atteggiava passivamente verso di lui e Io provocava con occasionali marachelle a castighi corporali, che per lui avevano un significato sessuale, in modo che così poteva identificarsi con la madre maltrattata. Alla madre poi si aggrappava sempre più angosciosamente, come se non potesse fare a meno per un solo momento del suo amore, in cui vedeva uno scudo contro il pericolo di castrazione, minacciata dal padre. In questa modificazione del complesso edipico trascorse l’epoca di latenza durante la quale non si presentarono disturbi appariscenti. Divenne un ragazzo modello, ebbe successo a scuola.
Fin qui abbiamo seguito l’effetto immediato del trauma e confermato il dato di fatto della latenza.
L’ingresso della pubertà coincise con la nevrosi manifesta e ne rivelò il secondo sintomo fondamentale, l’impotenza sessuale. Aveva perso la sensibilità del pene, non cercava di toccarlo, non osava avvicinare una donna con mire sessuali. La sua attività sessuale rimase limitata all’onanismo psichico con fantasie sado-masochistiche, in cui non è difficile riconoscere gli esiti delle sue primitive osservazioni del coito dei genitori. L’irrobustita virilità, con l’inizio della pubertà, fu impiegata per alimentare un odio furioso contro il padre e un atteggiamento insubordinato verso di lui. Il rapporto estremo con il padre, esacerbato fino all’autodistruzione, fu anche causa del suo insuccesso nella vita e dei suoi conflitti con il mondo esterno. Non poteva certo riuscire nella professione, perché a quella professione l’aveva spinto il padre. Non riusciva a farsi degli amici né era mai in buoni rapporti con i superiori.
Quando, affetto da questi sintomi e incapacità, ebbe finalmente trovato moglie dopo la morte del padre, vennero alla luce, quasi fossero il nucleo del suo essere, qualità di carattere che rendevano difficile il rapporto con lui a tutti coloro che gli stavano vicino. Sviluppò una personalità assolutamente egoistica, dispotica e brutale, che palesemente aveva bisogno di reprimere e ferire gli altri. Era la copia fedele del padre, così come se ne era formato l’immagine nel ricordo, dunque una reviviscenza dell’identificazione paterna in cui a suo tempo si era collocato il ragazzino per motivi sessuali. Qui in particolare riconosciamo il ritorno del rimosso, da noi descritto come uno dei tratti essenziali della nevrosi, insieme agli effetti immediati del trauma e al fenomeno della latenza.
D. Applicazione
Trauma precoce – difesa – latenza – scoppio della malattia nevrotica – parziale ritorno del rimosso: è la nostra formula dello sviluppo di una nevrosi. Ora il lettore è invitato a fare un altro passo, ossia a supporre che nella vita del genere umano sia accaduto qualcosa di simile a ciò che accade in quella dell’individuo, quindi che anche qui si siano verificati eventi di contenuto sessuale-aggressivo, i quali hanno lasciato conseguenze stabili, ma il più delle volte siano stati respinti e dimenticati, e più tardi, dopo lunga latenza, siano giunti a effetto creando fenomeni simili ai sintomi per struttura e tendenza.
Crediamo di poter indovinare questi eventi e vogliamo mostrare che i fenomeni religiosi sono loro conseguenze simili a sintomi [nevrotici]. Non potendo più mettere in dubbio, dopo l’emergere dell’idea di evoluzione, che il genere umano abbia una preistoria, ed essendo questa sconosciuta, cioè dimenticata, tale conclusione ha quasi il peso di un postulato. Quando apprendiamo che i traumi efficaci e dimenticati si riferiscono, qui come là, alla vita della famiglia umana, salutiamo questo fatto come gradita e imprevista novità, non srichiesta dalla discussione finora svolta.
Ho già esposto queste affermazioni un quarto di secolo fa nel mio libro Totem e tabù (1912-13) e mi basta qui solo richiamarle. La costruzione parte da un’indicazione di Charles Darwin e include una congettura di Atkinson. Dice che nella preistoria l’uomo primitivo viveva in piccole orde, ciascuna dominata da un forte stallone (ein starkes Männchen). Non è possibile stabilire l’epoca e ci sfugge il collegamento con ere geologiche a noi note; è verosimile che quell’essere umano non avesse un uso della parola molto sviluppato. Una parte essenziale della costruzione è la supposizione che il destino che sto per descrivere riguardasse tutti gli uomini primitivi, e quindi tutti i nostri antenati.
La storia è narrata in forma estremamente condensata, come se fosse accaduto una volta sola ciò che di fatto si è esteso per un periodo di millenni e che in questo lungo tempo si è ripetuto innumerevoli volte. Il forte stallone era padre e padrone di tutta l’orda; il suo potere, che esercitava con violenza, non aveva limiti. Tutti gli esseri femminili erano sua proprietà, sia le donne che le figlie della sua orda, sia forse anche quelle rapite ad altre orde. Il destino dei figli era crudele; quando suscitavano la gelosia del padre, erano trucidati o castrati o espulsi. Erano costretti a vivere insieme in piccole comunità, procurandosi le donne mediante il ratto e, quando uno di loro ci riusciva, cercava di raggiungere una posizione simile a quella del padre nell’orda primitiva. Per ragioni naturali, i figli più piccoli si trovavano in una situazione eccezionale: protetti dall’amore della madre, traevano vantaggio dall’età del padre e potevano succedergli dopo la sua scomparsa. Nelle leggende e nelle favole sembra di avvertire echi sia dell’espulsione dei figli maggiori, sia della preferenza accordata ai più piccoli.
Il successivo e decisivo passo verso la modificazione di questa prima forma di organizzazione “sociale” dovette essere che i fratelli scacciati, che vivevano in comunità si riunirono, sopraffecero il padre e, secondo il costume dei tempi, lo divorarono crudo. Non deve scandalizzare questo cannibalismo, che si estende a lungo in epoche più tarde. Essenziale è invece attribuire a questi uomini primitivi gli stessi atteggiamenti emotivi che possiamo stabilire mediante l’indagine analitica nei primitivi del presente, i nostri bambini. E cioè che non solo odiassero e temessero il padre, ma anche che lo venerassero come modello e che ognuno in realtà volesse mettersi al suo posto. L’atto cannibalesco diviene allora comprensibile come tentativo per assicurarsi l’identificazione con lui incorporandone un pezzo.
Si deve supporre che al parricidio seguisse un lungo periodo in cui i fratelli lottarono tra loro per l’eredità paterna, che ciascuno voleva ottenere solo per sé. Visti i pericoli e l’infruttuosità di queste lotte, il ricordo dell’atto liberatorio compiuto in comune e i legami emotivi reciproci nati fin dai tempi della cacciata, finirono per portare a un’unione tra loro, a una sorta di contratto sociale. Nacque così la prima forma di organizzazione sociale, con la rinuncia pulsionale, il riconoscimento di obbligazioni reciproche, la fondazione di determinate istituzioni dichiarate inviolabili (sacre), dunque gli inizi della morale e del diritto. Ogni singolo rinunciò all’ideale di ereditare per sé la posizione del padre, rinunciò al possesso della madre e delle sorelle. Da qui fu stabilito il tabù dell’incesto e l’ordine dell’esogamia. Buona parte del potere assoluto reso disponibile dalla soppressione del padre passò alle donne, venne il tempo del matriarcato. In questo periodo di “alleanza fraterna”, la memoria del padre sopravvisse. Si trovò come sostituto un animale robusto, che forse all’inizio era sempre anche temuto. Una scelta del genere può sembrare strana, ma l’abisso che l’uomo stabilì in seguito tra sé e l’animale era ignoto ai primitivi, e non esiste nemmeno per i nostri bambini, le cui fobie per gli animali sono state da noi spiegate come timore del padre. Nel rapporto con l’animale totemico fu mantenuta interamente l’originaria contraddittorietà della relazione emotiva con il padre (ambivalenza). Da un lato il totem valeva come progenitore carnale e genio tutelare del clan, e doveva dunque essere venerato e protetto; dall’altro fu istituita una solennità in cui gli era riservato il destino toccato al padre primigenio. Esso veniva ucciso e consumato da tutti i membri della tribù riunitisi insieme (pasto totemico, secondo Robertson Smith). Questo grande giorno di festa era in realtà la celebrazione trionfale della vittoria dei figli alleati sul padre.
Dove si colloca la religione in questo contesto? Ritengo che abbiamo pieno diritto di riconoscere nel totemismo, con la sua venerazione di un sostituto paterno, con l’ambivalenza testimoniata dal pasto totemico, con l’istituzione di celebrazioni commemorative, di divieti la cui trasgressione era punita con la morte, nel totemismo, dicevo, ci è lecito riconoscere la prima forma di apparizione della religione nella storia umana e confermare fin da principio il suo nesso con gli ordinamenti sociali e gli obblighi morali. Possiamo qui passare solo in rapidissima rassegna gli sviluppi successivi della religione. Essi procedono senza dubbio parallelamente al progresso civile del genere umano e alle modificazioni nella struttura delle comunità umane.
Il passo successivo al totemismo è l’umanizzazione dell’essere venerato. Al posto degli animali subentrano divinità umane, la cui origine dal totem non è velata. Il dio è ancora raffigurato o in forma animale o almeno con faccia d’animale, oppure il totem diviene il compagno preferito del dio, da cui è inseparabile, oppure ancora la leggenda fa sì che il dio uccida proprio questo animale, che era solo un suo stadio preliminare. A un certo punto difficilmente determinabile di questa evoluzione fanno la loro comparsa grandi divinità materne, verosimilmente anche prima degli dei maschili, con i quali coesistettero poi a lungo. Si era frattanto compiuto un grande rivolgimento sociale. Il matriarcato era stato sostituito dal ristabilirsi di un ordine patriarcale. I nuovi padri non raggiunsero in verità mai il potere assoluto del padre primitivo; erano in molti e vivevano associati in raggruppamenti più grandi dell’orda di un tempo; dovevano mantenere buoni rapporti reciproci ed erano limitati da norme sociali. È verosimile che le divinità materne abbiano avuto origine al tempo della restrizione del matriarcato, per risarcire le madri messe da parte. Le divinità maschili apparvero dapprima come figli accanto alle grandi madri, e solo dopo assunsero in modo netto i tratti di figure paterne. Gli dei maschili del politeismo rispecchiano i rapporti dell’epoca patriarcale. Sono numerosi, si limitano a vicenda, occasionalmente sono subordinati a un dio supremo sovrastante. Il passo successivo, però, porta al tema di cui ci stiamo occupando, ossia al ritorno di un unico dio-padre, dominante senza limiti.
Va detto che questa panoramica storica è lacunosa e in alcuni punti incerta. Ma chi pretendesse spiegare la nostra ricostruzione della preistoria come pura fantasia, sottovaluterebbe di molto la ricchezza e la forza dimostrativa del materiale ivi incluso. Vaste porzioni del passato, qui collegate in un tutto, sono storicamente documentate, come il totemismo e le associazioni maschili. Altro si è conservato in ottime repliche. Così più di un autore ha fatto osservare quanto fedelmente il rito della comunione cristiana, in cui il credente incorpora in forma simbolica il sangue e la carne del suo dio, ripeta il senso e il contenuto dell’antico pasto totemico. Numerose reminiscenze dei dimenticati primordi sono conservate nelle leggende e nelle favole dei popoli, e lo studio analitico della vita psichica del bambino ha fornito con inaspettata ricchezza il materiale per supplire ai difetti della nostra conoscenza di quei tempi. Come contributi alla miglior conoscenza dei rapporti così importanti con il padre, mi basti citare le zoofobie, la paura, che ci sembra così stravagante, di essere divorati dal padre, la mostruosa intensità dell’angoscia di castrazione. Nella nostra costruzione non vi è nulla di liberamente inventato, non sostenibile su buone basi.
Ammessa come complessivamente credibile la nostra presentazione della preistoria, si riconosceranno nelle dottrine e nei riti religiosi due elementi: da un lato il fissarsi all’antica storia familiare con le sue reminiscenze, dall’altro il rinnovarsi del passato, i ritorni del dimenticato dopo lunghi intervalli. L’ultimo aspetto soprattutto, finora trascurato e per questo non compreso, va qui dimostrato almeno su un esempio efficace.
Merita particolare risalto il fatto che ogni parte del passato che ritorna dall’oblio s’impone con particolare forza, esercita un potere incomparabile sulle masse umane e pretende irresistibilmente d’esser ritenuta vera, mentre l’obiezione logica resta impotente, al modo del Credo quia absurdum. Questo carattere notevole si può comprendere solo secondo il modello del delirio degli psicotici. Da tempo abbiamo compreso che nell’idea delirante si immette una parte di verità dimenticata, che al suo ritorno ha dovuto farsi piacere una serie di deformazioni e fraintendimenti; abbiamo compreso inoltre che la convinzione coatta relativa al delirio origina da questo nucleo di verità e si estende agli errori che lo avvolgono. Dobbiamo concedere un simile contenuto di verità, da chiamare storica, anche ai dogmi di fede delle religioni, che portano in sé il carattere dei sintomi psicotici ma, come i fenomeni di massa, si sottraggono alla maledizione dell’isolamento.
Nessun altro brano della storia delle religioni ci è diventato così trasparente come l’inizio del monoteismo nel giudaismo e la sua continuazione nel cristianesimo, a prescindere dall’evoluzione, ugualmente intelligibile senza soluzione di continuità, dal totem animale al dio umano con il suo immancabile compagno (ciascuno dei quattro evangelisti cristiani ha ancora il suo animale favorito). Considerando provvisoriamente valida l'ipotesi secondo cui l’impero mondiale dei faraoni fu la causa dell’emergere dell’idea monoteistica, vediamo che questa idea, lasciato il suo terreno e trasferita a un altro popolo, è fatta propria da quest’ultimo dopo un lungo periodo di latenza, è custodita come un possesso prezioso e a sua volta mantiene il popolo vivo, regalandogli l’orgoglio d’essere prescelto. Alla religione del padre primitivo si lega la speranza della ricompensa, della distinzione, e infine del dominio mondiale. Quest’ultima fantasia di desiderio, da molto tempo abbandonata dal popolo ebraico, sopravvive ancor oggi tra i suoi nemici, che credono alla cospirazione dei “Saggi di Sion”. In una sezione successiva ci riserviamo di presentare come le particolari proprietà della religione monoteistica tratta dall’Egitto agirono sul popolo ebraico e ne plasmarono durevolmente il carattere, sia mediante il rifiuto della magia e del misticismo, sia incitandolo a progredire sulla via della spiritualità e sollecitandolo alla sublimazione; lo descriveremmo come il popolo beato per il possesso della verità, soggiogato dalla coscienza della predilezione, giunse a sopravvalutare l’intellettuale e ad accentuare il lato etico, e come i tristi destini, le delusioni reali di questo popolo poterono rafforzare tutte queste tendenze. Per ora vogliamo seguire lo sviluppo in un’altra direzione.
La reintegrazione del padre primitivo nei suoi diritti storici fu un gran progresso, ma non poteva essere la fine. Anche gli altri pezzi della tragedia preistorica premevano per il riconoscimento. Non è facile indovinare cosa mise in moto il processo. Sembra che un crescente senso di colpa si sia impadronito del popolo ebraico e forse dell’intero mondo civile di allora, precorrendo il ritorno del contenuto rimosso. Finché un uomo venuto da questo popolo ebraico, giustificando un agitatore politico-religioso, trovò l’occasione per distaccare una nuova religione, quella cristiana, dall’ebraismo. Paolo, un ebreo romano di Tarso, riprese questo senso di colpa, riconducendolo correttamente alla sua prima fonte preistorica. La chiamò “peccato originale”: era un delitto contro Dio, che si poteva espiare solo con la morte. Con il peccato originale la morte era venuta al mondo. In effetti, questo delitto meritevole di morte era l’uccisione del padre primitivo, successivamente deificato. Ma non si ricordava l'assassinio, si fantasticava piuttosto la sua espiazione, e perciò questa fantasia poteva essere salutata come messaggio di redenzione (vangelo). Un figlio di Dio si era fatto uccidere innocente e così facendo aveva preso su di sé la colpa di tutti. Doveva trattarsi di un figlio, essendo stato assassinato il padre. Verosimilmente tradizioni orientali e misteri greci avevano influenzato la costruzione della fantasia di redenzione. Essenziale in essa sembra sia stato il contributo personale di Paolo, uomo dotato di un vero e proprio talento religioso, nella cui anima stavano in agguato oscure tracce del passato, pronte a irrompere in regioni più coscienti.
Fu chiaramente una deformazione tendenziosa, che procurava difficoltà alla comprensione logica, che il redentore si fosse sacrificato senza colpa; infatti, come può un innocente dell’assassinio prendere su di sé la colpa degli assassini facendosi uccidere? Nella realtà storica tale contraddizione non si dava. Il “redentore” non poteva essere altri che il principale colpevole, il capo della banda dei fratelli che avevano sopraffatto il padre. A mio giudizio bisogna lasciare indecisa la questione se ci fu o no questo principale ribelle e capo. È certamente possibile, ma in alternativa bisogna considerare che nella banda dei fratelli ciascuno aveva certamente il desiderio di commettere solo lui il misfatto, creando così a sé stesso una posizione eccezionale e un compenso per l’identificazione paterna che si stemperava nella collettività e alla quale perciò bisognava rinunciare. Pertanto, se tale capo non vi fu, Cristo eredita una fantasia di desiderio rimasta inappagata; se vi fu, Cristo ne è il successore e la reincarnazione. Comunque sia, fantasia o ritorno di una realtà dimenticata, è questo il punto in cui ritrovare l’origine della rappresentazione dell’eroe: l’eroe che sempre si ribella al padre e in qualche forma lo uccide.86 Qui sta anche il vero fondamento della “tragica colpa” dell’eroe nel dramma. È fuor di dubbio che l’eroe e il coro della tragedia greca raffigurino questo stesso eroe ribelle e la banda dei fratelli; non è senza significato che nel Medioevo il teatro ricominci rappresentando la storia della Passione.
Abbiamo già detto che la cerimonia cristiana della Santa Comunione, in cui il credente incorpora corpo e sangue del Salvatore, ripete il contenuto dell’antico pasto totemico, solo nel suo senso di tenerezza, esprimendo la venerazione e non l’aggressione. Tuttavia l’ambivalenza dominante il rapporto con il padre si mostrò chiaramente nel risultato finale dell’innovazione religiosa. Volta presumibilmente a riconciliarsi con Dio Padre, finì per detronizzarlo ed eliminarlo. Il giudaismo fu una religione del Padre, il cristianesimo divenne la religione del Figlio. Il vecchio Dio Padre passò in secondo piano e al suo posto venne Cristo, il figlio, proprio come in quella preistoria ogni figlio aveva agognato. Paolo, il continuatore del giudaismo, fu anche il suo distruttore. Il suo successo fu certo dovuto innanzitutto al dato di fatto di aver messo il peso del senso di colpa sulle spalle di tutta l’umanità grazie all’idea di redenzione; oltre a ciò, grazie alla circostanza di aver rinunciato all’elezione del suo popolo e al suo segno visibile, la circoncisione, la nuova religione poté diventare universale e abbracciare tutti gli uomini. Può darsi che al passo di Paolo abbia in parte contribuito il suo personale desiderio di vendetta per l’opposizione che la sua innovazione aveva incontrato nei circoli ebraici, ma in ogni caso si ristabiliva così un carattere dell’antica religione di Aton, una volta tolta la strettoia passando a un nuovo portatore dopo il popolo ebraico.
Per alcuni aspetti la nuova religione significò un regresso di civiltà rispetto alla più antica, l’ebraica, come regolarmente è il caso con l’irruzione o l’ammissione di nuove masse umane di livello inferiore. La religione cristiana non mantenne l’altezza spirituale cui era asceso il giudaismo. Non era più strettamente monoteistica; assunse dai popoli circostanti numerosi riti simbolici; ripristinò la grande divinità materna e trovò spazio per collocare, seppure in posizione subordinata, molte figure divine del politeismo, appena dissimulate. Soprattutto non escluse, come la religione di Aton e quella mosaica che venne subito dopo, l’introduzione di elementi superstiziosi, magici e mistici, che dovevano inibire pesantemente l’evoluzione spirituale dei due millenni successivi.
Il trionfo del cristianesimo fu una nuova vittoria dei sacerdoti di Amon sul dio di Akhenaton dopo un intervallo di millecinquecento anni e su una scena più vasta. Eppure, per ciò che attiene la storia della religione, cioè riguardo al ritorno del rimosso, il cristianesimo fu un progresso, e da allora in poi la religione ebraica fu in certa misura un fossile.
Varrebbe la pena capire come avvenne che l’idea monoteistica abbia fatto così profonda impressione proprio sul popolo ebraico, che poté mantenerla tanto tenacemente. Credo che si possa rispondere a questa domanda. Il destino avvicinò il popolo ebraico al grande fatto e misfatto della preistoria, l’uccisione del padre, ripetuto nella persona di Mosè, eminente figura paterna. Fu un caso di “agire” invece di ricordare, come tanto spesso avviene con il nevrotico durante il lavoro analitico. Allo stimolo a ricordare, che la dottrina di Mosè dava loro, reagirono invece rinnegando il loro atto; si bloccarono sul riconoscimento del grande Padre e si preclusero l’accesso al punto in cui più tardi Paolo doveva riprendere la continuazione della storia primitiva. Non è affatto indifferente o casuale che l’uccisione violenta di un altro grand’uomo diventasse il punto di partenza della nuova creazione religiosa di Paolo. Si trattava di un uomo che un piccolo numero di seguaci in Giudea riteneva figlio di Dio e l’annunciato Messia, al quale poi fu anche attribuito qualcosa della storia infantile inventata a proposito di Mosè, ma sul conto del quale in realtà non sappiamo quasi nulla di più che sul conto di Mosè. Non sappiamo neppure se davvero fu il grande maestro che i Vangeli dipingono, o se piuttosto i fatti e le circostanze della sua morte furono decisivi per il significato assunto dalla sua figura. Paolo, divenuto suo apostolo, neppure Io conobbe di persona.
L’uccisione di Mosè da parte del suo popolo ebraico,87 riscoperta da Sellin dalle tracce rimaste nella tradizione e curiosamente supposta anche dal giovane Goethe senza alcuna prova, diviene così un pezzo indispensabile della nostra costruzione, un importante anello di congiunzione tra l’evento dimenticato dei primordi e il suo più tardo riapparire in forma di religione monoteistica.88 È attraente supporre che il pentimento per l’assassinio di Mosè desse impulso alla fantasia di desiderio di un ritorno del Messia che portasse al suo popolo la redenzione e il promesso dominio mondiale. Se Mosè fu questo primo Messia, allora Cristo divenne il suo sostituto e successore; anche Paolo poté con una certa giustificazione storica proclamare ai popoli: “Vedete, il Messia è davvero venuto, ed è stato ucciso sotto i vostri occhi”. Allora, anche nella resurrezione di Cristo c’è un pezzo di verità storica; infatti, era il padre primigenio dell’orda primitiva che tornava trasfigurato e come figlio spostato al posto del padre.
Il povero popolo ebraico, che con la solita dura cervice continuò a rinnegare l’uccisione del padre, nel corso dei secoli l’ha espiata duramente. Gli si è sempre di nuovo rinfacciato: “Avete ucciso il nostro Dio”. Rimprovero corretto, se tradotto in modo corretto. Riferito alla storia delle religioni suona: “Non avete voluto ammettere di aver ucciso Dio (l’immagine originaria di Dio, il padre primitivo e le sue successive reincarnazioni)”. Ci sarebbe da aggiungere una dichiarazione: “Certo, noi abbiamo fatto Io stesso, ma Io abbiamo ammesso e da allora siamo stati assolti”. Non tutti i rimproveri con cui l’antisemitismo perseguita i discendenti del popolo ebraico possono appellarsi a una giustificazione analoga.
Un fenomeno di tale intensità e durata come l’odio dei popoli per gli ebrei deve naturalmente avere più di un fondamento. Si può indovinare tutta una serie di ragioni; alcune dedotte palesemente dalla realtà, che non richiedono alcuna interpretazione, altre, più profonde, derivanti da fonti occulte, si potrebbe dire che ne siano i motivi specifici. Fra le prime, il rimprovero di essere stranieri al paese è certo il più debole, poiché in molti luoghi, oggi dominati dall’antisemitismo, gli ebrei appartengono alle parti più antiche della popolazione o addirittura si erano insediati prima degli attuali abitanti. Vale, per esempio, per la città di Colonia, dove gli ebrei giunsero con i romani, prima ancora che fosse occupata dai germani. Altre ragioni di odio per gli ebrei sono più forti, come la circostanza che essi vivono perlopiù come minoranze tra gli altri popoli, poiché il senso comunitario delle masse ha bisogno, per essere compiuto, dell’ostilità contro una minoranza estranea, e la debolezza numerica di questi esclusi invita alla repressione.
Assolutamente imperdonabili appaiono però altre due particolarità degli ebrei. In primo luogo il fatto che per certi aspetti sono diversi dai loro “popoli albergatori”. Non fondamentalmente diversi, poiché non sono asiatici di strane razze, come i nemici asseriscono, ma perlopiù un misto di resti di popoli mediterranei ed eredi della civiltà mediterranea. Eppure sono altri, spesso indefinibilmente altri, soprattutto rispetto ai popoli nordici; l’intolleranza delle masse si esprime stranamente di più contro piccole differenze che contro differenze fondamentali. Ancora più forte è l’effetto del secondo punto, ed è il loro tener testa a ogni oppressione; si aggiunga che alle più crudeli persecuzioni non sia riuscito di sterminarli, anzi mostrano di avere la capacità di affermarsi nel commercio e, dove sia loro consentito, di dare validi contributi in ogni campo della civiltà.
I motivi più profondi di odio per gli ebrei si radicano nel passato più remoto, agiscono dall’inconscio dei popoli, e mi sorprende che sulle prime appaiano incredibili. Arrischio l’affermazione che la gelosia per il popolo che si è spacciato per il figlio primogenito e preferito del Padre divino non sia stata tuttora superata dagli altri popoli, quasi avessero prestato fede a tale pretesa. Inoltre uno dei costumi distintivi degli ebrei, la circoncisione, fa un’impressione sgradevole e inquietante, che si spiega facilmente con il richiamo alla temuta castrazione e, pertanto, riguarda qualcosa da dimenticare, appartenente al passato preistorico. Infine, l’ultimo motivo: non dimentichiamo che tutti questi popoli che oggi eccellono nell’odiare gli ebrei sono diventati cristiani solo in epoca storica tarda, spesso spinti da sanguinosa coercizione. Si potrebbe dire che sono tutti “battezzati male” e che sotto una sottile verniciatura di cristianesimo sono rimasti quello che erano i loro antenati, i quali professavano un barbaro politeismo. Non avendo superato il rancore contro la nuova religione loro imposta, l’hanno però spostato sulla fonte donde il cristianesimo è loro pervenuto. Ha facilitato lo spostamento il fatto che i Vangeli narrino una storia svolta tra ebrei e tratti propriamente solo di ebrei. Il loro odio per gli ebrei è al fondo odio per i cristiani, e non stupisce se nella rivoluzione nazionalsocialista tedesca questa intima relazione tra le due religioni monoteiste trovi così chiara espressione nel trattamento ostile riservato a entrambe.
E. Difficoltà
Forse quanto precede è riuscito a completare l’analogia tra processi nevrotici ed eventi religiosi, dimostrando così l’origine inaspettata dei secondi. Nel passare dalla psicologia individuale a quella delle masse emergono due difficoltà di diversa natura e importanza, cui dobbiamo ora dedicarci. La prima è che qui abbiamo trattato solo un caso della ricca fenomenologia delle religioni e non abbiamo gettato nessuna luce sugli altri. L’autore deve confessare con rincrescimento di non poter fornire altro che questo saggio e che la sua conoscenza specialistica non basta a completare l’indagine. In base alle sue limitate conoscenze, può aggiungere forse ancora che il caso della fondazione della religione maomettana gli pare quasi una ripetizione abbreviata di quella ebraica, imitando la quale entrò in scena. Sembra anzi che il Profeta avesse originariamente l’intenzione di accettare pienamente per sé e per il suo popolo il giudaismo. L’aver ritrovato l’unico grande padre primitivo conferì agli arabi una sicurezza straordinariamente elevata di sé, che li condusse a grandi successi terreni, nei quali però tale sicurezza si esaurì. Allah si mostrò molto più grato al suo popolo eletto che in altri tempi Yahweh al suo. Ma l’evoluzione interna della nuova religione si arrestò presto, forse perché mancò l’approfondimento prodotto, nel caso degli ebrei, dall’aver ucciso il fondatore della loro religione. Le religioni apparentemente razionalistiche degli orientali sono, nel loro nocciolo, culto degli antenati e si arrestano così anch’esse a uno dei primi gradini della ricostruzione del passato. Se è vero che presso i popoli primitivi di oggi troviamo, come unico contenuto della religione, il riconoscimento di un essere supremo, possiamo considerare ciò soltanto come un’atrofia dello sviluppo religioso e metterlo in relazione con gli innumerevoli casi di nevrosi rudimentali che constatiamo in altro campo. Perché, sia qui che là, non si sia andati avanti, non abbiamo modo di capirlo in nessuno dei due casi. Non ci resta che attribuirne la responsabilità al talento individuale di questi popoli, alla direzione presa dalla loro attività e al loro assetto sociale generale. Del resto, è buona regola del lavoro analitico accontentarsi di spiegare ciò che ci sta dinanzi, senza affannarsi a spiegare ciò che non è avvenuto.
Passando alla psicologia delle masse, la seconda difficoltà è molto più importante, perché solleva un problema nuovo di principio. Si pone la questione circa la forma in cui è presente la tradizione che opera nella vita dei popoli; tale questione non si pone nell’individuo, essendo in questo caso risolta dall’esistenza nell’inconscio delle tracce mnestiche del passato. Torniamo al nostro esempio storico. Abbiamo attribuito il compromesso di Qadesh alla persistenza di una poderosa tradizione nei reduci dall'Egitto. Questo caso non cela alcun problema. Secondo la nostra congettura una simile tradizione si sosteneva sul ricordo cosciente delle comunicazioni orali che gli allora viventi avevano ricevuto dai loro antenati di solo due o tre generazioni addietro, i quali erano stati partecipi e testimoni oculari degli avvenimenti che qui importano. Ma possiamo pensare Io stesso per i secoli successivi? cioè che la tradizione avesse sempre a fondamento un sapere comunicato in maniera normale, che si trasmetteva da nonno a nipote? Non è più possibile precisare, come nel caso precedente, chi fossero le persone che custodivano un simile sapere e Io propagavano oralmente. Secondo Sellin la tradizione dell’uccisione di Mosè fu sempre presente nelle cerchie sacerdotali, finché trovò la sua espressione scritta, la sola che rese possibile a Sellin arguirla. Ma essa può essere stata nota solo a pochi, non era patrimonio popolare. Basta questo a spiegare la sua efficacia? Si può attribuire a simile sapere di pochi, quando veniva a conoscenza delle masse, il potere di catturarle in modo così duraturo? Sembra piuttosto che anche nella massa ignara ci dovesse essere qualcosa in qualche modo imparentato al sapere dei pochi e che gli venne incontro quando si manifestò.
Rivolgendosi all’analogo caso preistorico, il giudizio è ancora più difficile. L’esistenza di un padre primitivo con le note proprietà, e il destino al quale andò incontro furono certamente dimenticati nel corso dei secoli, e non si può nemmeno supporre qualche tradizione orale come nel caso di Mosè. In che senso allora possiamo parlare di tradizione? In che forma può essere stata presente?
Per agevolare i lettori che non desiderano o non sono disposti a immergersi in un complicato stato di cose psicologico, presenterò il risultato della seguente ricerca. Penso che la concordanza tra individuo e massa sia in questo punto quasi perfetta: anche nelle masse l’impressione del passato si conserva in tracce mnestiche inconsce.
Nell’individuo crediamo di vederci chiaro. La traccia mnestica di ciò che ha provato da bambino piccolo si è conservata in lui, solo in uno stato psichico particolare. Si può dire che l’individuo lo ha sempre saputo, proprio come ognuno sa qualcosa del rimosso. In proposito mi sono fatto certe idee, non difficili da corroborare con l’analisi, secondo cui certe cose si possono dimenticare e dopo un po’ di tempo possono ricomparire. Il dimenticato non è estinto ma solo “rimosso”; le sue tracce mnestiche sono presenti in tutta la loro freschezza, per quanto isolate da “contro-occupazioni “. Non possono entrare in circolazione con gli altri processi intellettuali, sono inconsce, inaccessibili alla coscienza. Può anche darsi che certe parti del rimosso si siano sottratte al processo, restino accessibili al ricordo, ed emergano occasionalmente alla coscienza, ma anche allora sono isolate, come corpi estranei non connessi al resto. Ciò può accadere, ma non necessariamente; la rimozione può anche essere totale e in seguito ci atterremo a questo caso.
Tale rimosso mantiene la sua spinta ascensionale, continua a sforzarsi di penetrare nella coscienza. Raggiunge lo scopo a tre condizioni: 1) se la forza della contro-occupazione è ridotta o da processi morbosi che colpiscono l’altro, il cosiddetto Io, o da una diversa distribuzione delle energie d’occupazione in questo lo, come avviene di regola nello stato di sonno; 2) se le componenti pulsionali legate al rimosso sperimentarono un particolare rinforzamento (il migliore esempio è dato dai processi che accompagnano la pubertà); 3) se nel vivere una certa esperienza a un certo momento si producono impressioni ed esperienze così simili al rimosso da ridestarlo. Allora il recente si rinforza mediante l’energia latente del rimosso, e il rimosso giunge a effetto dietro al recente con il suo aiuto. In nessuno di questi tre casi il materiale fino allora rimosso giunge alla coscienza in modo piano senza alterazioni; al contrario deve sempre rassegnarsi a deformazioni che testimoniano l’influsso della resistenza (non del tutta superata) che nasce dalla contro-occupazione, o l’influsso modificatore dell’esperienza recente, o di entrambi. 202
Come criterio e punto di orientamento è servita la distinzione tra processo psichico conscio e inconscio. Il rimosso è inconscio. Ora sarebbe una fortunata semplificazione se questa tesi ammettesse anche di essere rovesciata, se cioè la differenza tra le qualità del conscio (c) e dell’inconscio (inc) coincidesse con la divisione: appartenente all’Io o al rimosso. Già il fatto che nella nostra vita psichica ci siano cose come queste, isolate e inconsce, sarebbe nuovo e abbastanza importante. Ma la realtà non è così semplice. È giusto che ogni rimosso è inconscio, ma non che tutto ciò che appartiene all’Io è conscio. Ci rendiamo conto che la coscienza è una qualità fugace, che accompagna il processo psichico solo in via transitoria. Ai nostri fini dobbiamo pertanto sostituire “conscio” con “capace di diventare cosciente” e chiamare questa qualità “preconscio” (prec). Diremo allora più correttamente che l’Io è essenzialmente preconscio (virtualmente conscio), ma che parti dell’Io sono inconsce.
Quest’ultima constatazione ci insegna che le qualità cui fin qui ci siamo attenuti non bastano per orientarci nel buio della vita psichica. Dobbiamo introdurre un’altra distinzione, che non è più qualitativa, ma topica, e al tempo stesso genetica, cosa che le conferisce particolare valore.
Nella nostra vita psichica, intesa come apparato composto da parecchie istanze, distretti e province, separiamo una regione che chiamiamo il vero e proprio Io, dall’altra che chiamiamo Es. L’Es è la più antica, da cui l’Io si è sviluppato come strato corticale per influsso del mondo esterno. All’Es toccano le nostre pulsioni originarie; nell’Es tutti i processi decorrono inconsci. Come abbiamo già menzionato, l’Io coincide con l’area del preconscio; contiene parti che normalmente restano inconsce. Per i processi psichici nell’Es valgono leggi di decorso e di reciproca interazione del tutto diverse da quelle dominanti nell’Io. Invero, proprio la scoperta di queste differenze ci ha permesso di giungere alla nostra nuova concezione, conferendole legittimità.
Il rimosso va attribuito all’Es e soggiace anche ai suoi meccanismi, distinguendosi solo per la genesi. La differenziazione si compie all’epoca della prima infanzia, quando l’Io si sviluppa dall’Es. Allora una parte del contenuto dell’Es è assunta dall’Io ed elevata allo stato preconscio, mentre un’altra parte non subisce questa trasposizione e resta indietro nell’Es come inconscio vero e proprio. Nel corso della successiva formazione dell’Io, certe impressioni e processi psichici nell’Io vengono tuttavia da esso esclusi a opera di un procedimento di difesa; il carattere preconscio è loro sottratto, in modo da essere riabbassati a costituenti dell’Es. Questo è il “rimosso” nell’Es. Per quanto riguarda la circolazione tra le due province psichiche, noi supponiamo da un lato che il processo inconscio nell’Es sia elevato al livello di preconscio e incorporato nell’Io, dall’altro che il preconscio nell’Io possa seguire il cammino inverso ed essere spostato di nuovo nell’Es. Per ora resta fuori dal nostro interesse il fatto che nell’Io si delimiti successivamente un distretto particolare, quello del “Super-Io”.
È possibile che tutto ciò appaia tutt’altro che semplice, ma, una volta acquisita una certa familiarità con la concezione spaziale dell’apparato psichico, a cui non siamo abituati, ciò può non offrire particolari difficoltà di rappresentazione. Aggiungo ancora l’osservazione che la topica psichica qui sviluppata non ha nulla a che fare con l’anatomia cerebrale o, se vogliamo, la sfiora solo in un punto. L’insoddisfacente in questa rappresentazione – io lo avverto chiaramente come chiunque altro – deriva dalla nostra totale ignoranza sulla natura dinamica dei processi psichici. Ci diciamo che ciò che distingue una rappresentazione conscia da una preconscia, e questa da un’inconscia, non può essere altro che una modificazione, forse anche una diversa distribuzione dell’energia psichica. Parliamo di occupazioni e sovra-occupazioni, ma oltre a questo manchiamo di ogni conoscenza e persino di ogni avvio a un’ipotesi di lavoro praticabile. Sul fenomeno della coscienza possiamo aggiungere che essa originariamente dipende dalla percezione. Tutte le sensazioni che nascono dalla percezione di stimolazioni dolorose, tattili, uditive o visive sono a tutta prima consce. I processi di pensiero e ciò che di analogo può esserci nell’Es sono in sé inconsci e si guadagnano l’accesso alla coscienza tramite il nesso con i residui mnestici di percezioni visive e uditive passando per la funzione linguistica. Nell’animale, cui manca la parola, questi rapporti devono essere più semplici.
Le impressioni dei traumi precoci, da cui siamo partiti, o non sono trasportate nel preconscio, o sono presto trasferite dalla rimozione nello stato di Es. I loro residui mnestici sono allora inconsci e operano dall’Es. Non è difficile, crediamo, seguirne le vicende finché si tratta di esperienze individuali. Sopraggiunge però una nuova complicazione se riflettiamo sull’attendibilità che nella vita psichica dell’individuo operino non solo esperienze personali, ma anche contenuti congeniti fin dalla nascita, elementi di provenienza filogenetica, un’eredità arcaica. Sorgono allora le domande: in cosa consiste, cosa contiene, quali ne sono le prove?
La prima risposta e la più sicura è che l’eredità arcaica consista in determinate predisposizioni, proprie di tutti gli esseri viventi. Vale a dire nella capacità e inclinazione a imboccare determinate direzioni di sviluppo e a reagire in modo particolare a certi eccitamenti, impressioni e stimoli. Poiché l’esperienza mostra che nei singoli esseri del genere umano ci sono a questo riguardo delle differenze, l’eredità arcaica le include: esse configurano, cioè, quello che noi riconosciamo come fattore costituzionale dell’individuo. Ora, poiché gli uomini, almeno nell’infanzia, sperimentano tutti pressappoco le stesse cose e vi reagiscono anche in modo simile, potrebbe sorgere il dubbio se non si debbano attribuire queste reazioni all’eredità arcaica insieme con le loro differenze individuali. Il dubbio va respinto; il dato di queste similarità non arricchisce la nostra conoscenza dell’eredità arcaica.
Nondimeno la ricerca analitica ha portato alcuni risultati che fanno pensare. C’è innanzitutto la generalità del simbolismo linguistico. La rappresentazione simbolica di un oggetto mediante un altro – lo stesso vale nelle esecuzioni – è comune ovviamente a tutti i nostri bambini. Non possiamo dimostrare come l’abbiano appresa, e in molti casi dobbiamo riconoscere che l’apprendimento è impossibile. Si tratta di un sapere originario, che l’adulto ha poi dimenticato. È vero che adopera gli stessi simboli nei sogni, ma non li capisce se non quando l’analista glieli interpreta, e anche allora presta fede malvolentieri alla traduzione. Se ha fatto uso di una delle così frequenti locuzioni in cui questo simbolismo si trova fissato, deve riconoscere che il loro senso proprio gli è interamente sfuggito. II simbolismo inoltre passa sopra le differenze tra lingue; le ricerche mostrerebbero verosimilmente che ha il dono dell’ubiquità ed è lo stesso in tutti i popoli. Sembra un caso assodato di eredità arcaica che data dall’epoca dello sviluppo linguistico, ma si potrebbe anche cercare un’altra spiegazione. Si potrebbe dire che si tratta di relazioni mentali tra rappresentazioni, instauratesi durante la storia dello sviluppo linguistico e che ora devono essere ripetute ogni volta che uno sviluppo linguistico è compiuto individualmente. Questo sarebbe dunque un caso di ereditarietà di una disposizione mentale, analogo a quella di una disposizione pulsionale, e, di nuovo, non darebbe alcun contributo al nostro problema.
II lavoro analitico, tuttavia, ha portato alla luce anche dell’altro, la cui portata supera quanto detto finora. Studiando le reazioni ai traumi precoci, abbastanza spesso ci sorprende trovare che non si attengono strettamente all’esperienza effettiva, ma se ne allontanano in un modo che s’adatta assai meglio al modello di un evento filogenetico e che, in modo del tutto generale, si riesce a spiegare solo con il suo influsso. II comportamento del bambino nevrotico verso i genitori nel complesso edipico e di castrazione abbonda di tali reazioni, che individualmente sembrano ingiustificabili e divengono comprensibili solo filogeneticamente, poste in relazione con le esperienze di generazioni precedenti. Varrebbe la pena presentare al pubblico nel suo complesso il materiale a cui posso qui far riferimento. La sua forza probante mi sembra sufficiente per rischiare ancora un passo avanti e proporre la tesi che l’eredità arcaica dell’uomo non comprende solo predisposizioni, ma anche contenuti, tracce mnestiche dell’esperienza delle generazioni precedenti. Con ciò sia l’estensione che l’importanza dell’eredità arcaica sarebbero significativamente accresciute.
Riflettendo più da vicino, dobbiamo confessare che da tempo ci siamo comportati come se fosse fuori discussione che l’ereditarietà delle tracce mnestiche delle esperienze dei progenitori non dipendesse dalla comunicazione diretta e dall’influsso che l’educazione esercita mediante l’esempio. Quando parlavo del persistere dell’antica tradizione in un popolo, del formarsi del carattere popolare, avevo in mente soprattutto una simile tradizione ereditata, non una tradizione propagata per comunicazione. O almeno non abbiamo fatto distinzione tra le due, non avendo chiaro quanto c’era di temerario in questa trascuratezza. Tuttavia la nostra situazione è aggravata dall’attuale impostazione della scienza biologica, che non vuol saperne di eredità nei discendenti di proprietà acquisite [dagli ascendenti]. Ma ciononostante in tutta modestia confessiamo di non poter fare a meno di questo fattore nello sviluppo biologico. Certo, nei due casi non si tratta della stessa cosa ma, nell’uno di proprietà acquisite difficili da cogliere, nell’altro di tracce mnestiche di impressioni esterne, per così dire concrete. Ma può darsi che fondamentalmente non possiamo rappresentarci un caso senza l’altro.
Ammettendo la permanenza di queste tracce mnestiche nell’eredità arcaica, gettiamo un ponte sull’abisso che separa la psicologia individuale dalla psicologia delle masse e possiamo trattare i popoli come i singoli nevrotici. Ammesso che per le tracce mnestiche nell'eredità arcaica non abbiamo per ora alcuna prova più valida di quei fenomeni residui del lavoro analitico che esigono di essere derivati dalla filogenesi, ciò non pertanto questa prova ci sembra abbastanza valida per postulare tale stato di cose. Se non è così, non procediamo d'un passo sulla via che abbiamo battuto, né nell’analisi né nella psicologia delle masse. È una temerarietà inevitabile.
Così facciamo anche qualcosa d’altro. Riduciamo la frattura che i vecchi tempi dell’umana arroganza hanno eccessivamente allargato tra uomo e animale. Se i cosiddetti istinti degli animali, che consentono loro di comportarsi fin dall’inizio in una nuova situazione vitale come se fosse antica e da tempo familiare, se mai questa vita istintiva degli animali ammette una spiegazione, non può essere altro che gli animali portino con sé nella loro nuova esistenza le esperienze della loro specie, ossia abbiano conservato in sé ricordi di ciò che avevano sperimentato i loro progenitori. Nell'animale umano le cose in fondo non sarebbero diverse. Agli istinti degli animali corrisponde l’eredità arcaica a loro propria, benché di altra estensione e contenuto.
Dopo queste discussioni non ho scrupoli a dichiarare che gli uomini hanno sempre saputo – in quel loro particolare modo – di aver una volta posseduto un padre primitivo e di averlo ucciso.
Due ulteriori domande aspettano risposta. La prima è a quali condizioni un simile ricordo penetri nell’eredità arcaica; la seconda, in quali circostanze possa divenire attivo, cioè spingersi dal suo stato inconscio nell’Es alla coscienza, seppure alterato e deformato. La risposta alla prima domanda è facile. Diremo: quando l’evento era abbastanza importante, o quando si ripeté abbastanza spesso, o le due cose insieme. Nel caso dell’uccisione del padre entrambe le condizioni sono soddisfatte. Alla seconda domanda va osservato che possono entrare in gioco una serie di influssi, non necessariamente tutti noti, ed è anche concepibile un decorso spontaneo che rassomiglia al processo di certe nevrosi. Di sicuro però ha importanza decisiva il risvegliarsi della traccia mnestica dimenticata a causa di una recente ripetizione reale dell'evento. Tale ripetizione fu l’uccisione di Mosè; più tardi, la presunta condanna di Cristo innocente, di modo che questi avvenimenti si imposero su ogni altra delle possibili cause. Si direbbe che la genesi del monoteismo non potesse farne a meno. Si ricorderà il detto del poeta:
Ciò che deve vivere immortale nel canto,
Deve perire neIla vita.89
Infine un’osservazione che apporta un argomento psicologico. Una tradizione fondata solo sulla comunicazione non potrebbe produrre il carattere coatto tipico dei fenomeni religiosi. Sarebbe ascoltata, criticata, forse anche respinta come ogni altra notizia proveniente dall’esterno, ma non otterrebbe mai il privilegio di sfuggire alla costrizione del pensiero logico. Essa deve aver sperimentato il destino della rimozione, la condizione d’indugio nell’inconscio, prima di poter sviluppare al suo ritorno effetti così potenti, prima di poter incantare le masse, come accade alla tradizione religiosa con nostro stupore e senza essere finora riusciti a spiegarcelo. Questa considerazione ha un gran peso nel farci credere che le cose si siano svolte effettivamente così come ci siamo sforzati di descriverle, o almeno in modo simile.
Terzo saggio
Mosè, il suo popolo e la religione monoteista
Seconda parte
Ricapitolazione e ripetizione
La seguente parte di questo studio non può essere pubblicata senza estesi chiarimenti e giustificazioni. Infatti, non è altro che la ripetizione fedele, spesso parola per parola, della prima parte, abbreviata in certe analisi critiche e accresciuta da aggiunte al problema di come il particolare carattere del popolo ebraico sia emerso. So che tal modo di presentare le cose è tanto poco appropriato quanto poco elegante. Lo disapprovo senza limiti anch’io.
Perché non l’ho evitato? Non mi è difficile trovare la risposta, ma non è facile confessarla. Non ero in grado di cancellare le tracce della storia davvero insolita dell’origine di questo lavoro.
In realtà, è stato scritto due volte. La prima alcuni anni fa a Vienna, dove non credevo di poterlo di pubblicare. Decisi di lasciarlo da parte, ma mi tormentava, come un fantasma non redento; trovai la via d’uscita nel farne due parti indipendenti, pubblicando sulla nostra rivista “Imago” l’esordio psicanalitico del tutto (Mosè egizio) e la costruzione storica fondata su di esso (Se Mosè era egizio…). Il resto, contenente cose veramente scandalose e pericolose, cioè l’applicazione alla genesi del monoteismo e la concezione generale della religione, decisi di tenerlo per me, così pensavo, per sempre. Poi, nel marzo 1938, giunse inaspettata l’invasione tedesca, che mi costrinse a lasciare la mia patria, ma mi liberò anche dalla preoccupazione di pubblicare il mio testo, evocando la proibizione della psicanalisi in un paese dov’era ancora tollerata.
Appena giunto in Inghilterra, ebbi l’irresistibile tentazione di rendere accessibile al mondo la mia sapienza repressa, e cominciai a rielaborare la terza parte del mio studio annesso alle due già apparse. A ciò era naturalmente collegato il parziale riordino del materiale. Ora, non riuscii a collocare l'intero materiale in questa seconda rielaborazione; d’altra parte non potei decidermi a rinunciare del tutto al testo precedente, e fu così che decisi di annettere immutato un intero brano della prima stesura alla seconda, con il connesso svantaggio di ripetermi abbondantemente.
Ora, potrei consolarmi considerando che le cose di cui tratto sono ad ogni modo talmente nuove e importanti, a prescindere dalla correttezza della mia presentazione, che non può essere una sciagura se il pubblico è obbligato a leggerle due volte. Ci sono cose che devono essere dette più d’una volta e che nessuno dirà mai abbastanza. Ma dev’essere il lettore a decidere liberamente se indugiare sull’argomento o ritornarvi. Non è lecito proporgli nello stesso libro, con un artificio, la stessa cosa due volte. Resta una goffaggine da biasimare l’autore. La cui capacità creativa non va sempre di pari passo con la sua volontà; il lavoro riesce come può, e spesso si pone dinanzi all’autore come cosa indipendente, persino estranea.
A. Il popolo d’Israele
È chiaro che procedere come noi, accettando ciò che ci sembra utilizzabile del materiale tramandato, rigettando ciò che non ci serve, e mettendo insieme i singoli pezzi secondo la verosimiglianza psicologica – è chiaro, dicevo, che simile tecnica non dà alcuna certezza di trovare la verità; allora è ragionevole chiedersi perché mai intraprendere un lavoro del genere. La risposta si appella al risultato. Mitigando molto il rigore richiesto all’indagine storico-psicologica, sarà forse possibile chiarire problemi che sono sempre apparsi degni di attenzione e che a causa di recenti avvenimenti s’impongono di nuovo all’osservatore. Si sa che di tutti i popoli che nell’antichità abitarono intorno al bacino mediterraneo, il popolo ebraico è quasi l’unico che ancora oggi esista di nome e di fatto. Ha affrontato sventure e maltrattamenti con una capacità di resistenza senza pari; ha sviluppato particolari lati del suo carattere, guadagnandosi inoltre la cordiale avversione di tutti gli altri popoli. Vorremmo capire di più da dove venga agli ebrei tanta vitalità e come il loro carattere si connetta al loro destino.
Si può partire da una caratteristica degli ebrei che domina il loro rapporto con gli altri. Non c’è dubbio che abbiano un’opinione di sé particolarmente elevata, e si considerino distinti, superiori, sovrastanti gli altri, da cui sono separati anche in molti dei loro costumi.90 Al tempo stesso, sono animati da una particolare fiducia nella vita, che deriva loro dal segreto possesso di un bene prezioso, una sorta di ottimismo: i devoti direbbero fiducia in Dio.
Conosciamo il fondamento di questo comportamento e sappiamo quale ne sia il tesoro segreto: si considerano davvero il popolo eletto da Dio; credono di essergli particolarmente vicini e ciò li rende fieri e sicuri. Secondo buone fonti, già ai tempi dell’ellenismo si comportavano come oggi; già allora l’ebreo era fatto e finito; i greci, in mezzo e accanto ai quali viveva, reagivano alla singolarità ebraica allo stesso modo dei popoli “ospiti” di oggi. Reagivano, si potrebbe pensare, come se anche loro credessero al privilegio che il popolo d’Israele pretendeva per sé. Quando si è beniamini dichiarati del padre temuto, non stupisce se i fratelli sono gelosi; dove tale gelosia possa condurre, lo mostra molto bene la leggenda di Giuseppe e i suoi fratelli. Poi Il corso della storia mondiale sembrò giustificare l’infondata pretesa ebraica, poiché, quando piacque a Dio mandare all’umanità un messia e un redentore, fu scelto di nuovo tra il popolo ebraico. Gli altri popoli avrebbero allora avuto motivo per dirsi: “Avevano realmente ragione; sono loro il popolo eletto da Dio”. Invece accadde il contrario: la redenzione per mezzo di Gesù Cristo rinforzò solo l’odio contro di loro, mentre gli ebrei non trassero alcun vantaggio dall’essere stati preferiti la seconda volta, non avendo riconosciuto il redentore.
In base alle nostre precedenti discussioni, ora possiamo affermare che fu l’uomo Mosè a imprimere nel popolo ebraico questo tratto importante per il futuro. Ne accrebbe il senso di sé, assicurandolo di essere il popolo eletto da Dio; lo consacrò e lo obbligò a distinguersi dagli altri. Non che agli altri popoli mancasse il senso di sé. Allora come oggi ogni nazione si considerava migliore di ogni altra. Ma con Mosè il senso di sé degli ebrei mise radici nella religione e divenne parte della loro fede religiosa. Grazie alla relazione particolarmente intima con il loro Dio, gli ebrei ottennero parte della sua grandiosità. Considerando che dietro il Dio che aveva prescelto gli ebrei e li aveva liberati dagli egizi c’era la persona di Mosè, il quale aveva fatto proprio questo nel suo presunto incarico, osiamo dire che l’uomo Mosè creò gli ebrei. A lui questo popolo deve la sua estrema tenacia ma anche molta dell’ostilità che ha incontrato e tuttora incontra.
B. Il grand’uomo
Come fa un uomo solo a sviluppare un’azione così straordinariamente efficace da formare un popolo da individui e famiglie qualsiasi, forgiandone il carattere definitivo e determinandone il destino per millenni? Supporlo non è forse ricadere in quel modo di pensare che ha fatto sorgere i miti del creatore e il culto degli eroi, ricadendo ai tempi in cui la storia scritta si riduceva a narrare le imprese e le vicende di singoli dominatori o conquistatori? La tendenza moderna è piuttosto di ricondurre gli avvenimenti della storia dell’umanità a fattori nascosti, generali e impersonali, all’influsso determinante dei rapporti economici, al cambiamento di regime alimentare, ai progressi nell’uso di materiali e strumenti, alle migrazioni dovute all’aumento della popolazione e ai mutamenti climatici. Il ruolo riservato agli individui è di esponenti o rappresentanti di tendenze collettive, che dovettero comunque trovare un’espressione e la trovarono in loro, per lo più per caso.
Sono punti di vista perfettamente legittimi; ci danno l’occasione per soffermarci sulla significativa discrepanza tra l’atteggiamento del nostro organo di pensiero e l’ordinamento del mondo, da cogliere grazie ad esso. Al nostro imperativo bisogno di causalità basta però che ogni evento abbia una causa dimostrabile. Ma non è così nella realtà fuori di noi; piuttosto ogni evento appare sovradeterminato, cioè effetto di più cause concomitanti. Spaventata dall’indomita complessità degli eventi, la nostra ricerca prende partito per un nesso piuttosto che per un altro, ed enuncia opposizioni inesistenti ma emergenti solo lacerando relazioni più comprensive.91 Così, se l’esame di un certo caso dimostra l’influsso prevalente di un’unica personalità, non occorre che la nostra coscienza ci rimproveri di aver osato sfidare con tale ipotesi la dottrina dell’importanza dei fattori generali e impersonali. Di fondo c’è posto per entrambe. Tuttavia, nella genesi del monoteismo, oltre alla già menzionata sua connessione con il prodursi di relazioni più intime tra nazioni differenti e il costruirsi di un grande impero, non possiamo rifarci ad altri fattori esterni.
Noi riserviamo dunque al “grand’uomo” il suo posto nella catena o meglio nel reticolo causale. Ma forse non sarà del tutto inutile chiedersi a quali condizioni gli conferiamo questo titolo onorifico. Ci sorprende che non sia affatto facile rispondere a questa domanda. Una prima formulazione: “Lo facciamo quando un uomo possiede in misura eccezionalmente elevata qualità che apprezziamo molto”, è chiaramente inadeguata in tutti i sensi. La bellezza, per esempio, e la forza fisica, per quanto invidiabili, non danno diritto alla “grandezza”. Devono dunque essere qualità spirituali, meriti psichici e intellettuali. A questo riguardo, viene spontanea la riflessione che un uomo straordinariamente esperto in un determinato campo, non può per questo essere senz’altro detto grand’uomo: certo, non un maestro di scacchi o un virtuoso di uno strumento musicale, ma forse neppure un eccellente artista o scienziato. In questi casi viene da dire che è un gran poeta, pittore, matematico o fisico, un precursore nel campo di questa o quell’attività, ma non diremmo grand’uomo. Quando, per esempio, dichiariamo senza esitare grandi uomini Goethe, Leonardo da Vinci e Beethoven, ci deve muovere altro che l’ammirazione per le loro grandi creazioni. Se non c’imbattessimo proprio in esempi del genere, finiremmo verosimilmente per pensare che il termine “grand’uomo” spetti di preferenza a uomini d’azione, a conquistatori, condottieri, dominatori, riconoscendo la grandezza delle loro imprese e la forza degli effetti da loro suscitati. Ma anche questo è insoddisfacente ed è del tutto contraddetto dalla nostra condanna di tanti personaggi indegni, cui non si può contestare di aver prodotto effetti su contemporanei e posteri. Nemmeno si può scegliere il successo come contrassegno della grandezza, se si pensa alla maggioranza di grandi uomini che, invece di avere successo, finirono in sventura.
Così, per ora siamo inclini a decidere che non val la pena cercare un contenuto univoco del concetto di “grand’uomo”. È solo un riconoscimento, usato in modo vago e attribuito in modo piuttosto arbitrario, dello sviluppo in grande di certe qualità umane in qualche modo prossime al significato originario della parola “grandezza”. Possiamo anche ricordare che non ci interessa tanto l’essenza del grand’uomo, quanto la questione del modo con cui produce effetti sul prossimo. Tuttavia, abbrevieremo il più possibile questo esame, che minaccia di condurci lontano dalla nostra meta.
Ammettiamo dunque come valido che il grand’uomo influenzi il prossimo per due vie: con la sua personalità o con l’idea per cui s’impegna, che può mettere in rilievo un’antica configurazione di desiderio delle masse o indicare loro una nuova meta di desiderio o ammaliarle in qualche altro modo. Talora – e questo è certo il caso originario – la personalità è efficace di per sé e l’idea ha un ruolo del tutto irrilevante. Perché in generale il grand’uomo debba arrivare a tanta importanza non ci risulta oscuro neppure per un istante. Sappiamo che nella massa degli uomini c’è gran bisogno di un’autorità da poter ammirare, cui inchinarsi, da cui essere dominati, eventualmente anche maltrattati. Dalla psicologia dell’individuo abbiamo appreso da dove provenga questo bisogno della massa. È la nostalgia infantile insita in ognuno di noi del padre, che l’eroe della leggenda si gloria d’aver vinto. E ora possiamo chiarirci le idee: tutte le qualità di cui dotiamo il grand’uomo sono caratteristiche paterne; in questa concordanza consiste l’essenza del grand’uomo invano da noi cercata. La fermezza dei pensieri, la forza di volontà, l’impeto dell’azione appartengono all’immagine paterna, ma più di tutto vi appartengono l’autonomia e l’indipendenza del grand’uomo, la sua divina noncuranza che può crescere fino a mancare di ogni riguardo. Si deve ammirarlo, è consentita la fiducia in lui, ma non si può fare a meno anche di temerlo. Avremmo dovuto lasciarci guidare letteralmente dal testo: chi altri nell’infanzia deve essere stato il “grand’uomo” se non il padre!
Senza dubbio fu un potente modello paterno, che nella persona di Mosè si chinò verso i poveri ebrei delle corvée, assicurandoli che erano suoi figli amati. E non meno travolgente dovette essere l’effetto esercitato sugli ebrei dalla rappresentazione di un Dio unico, eterno, onnipotente, che non disdegnava di contrarre con loro, umili com’erano, un patto, e che prometteva di aver cura di loro se restavano fedeli al suo culto. Verosimilmente non fu facile per loro scindere l’immagine dell’uomo Mosè da quella del suo Dio, e videro giusto, essendo possibile che Mosè abbia introdotto certi tratti della propria persona, come l’irascibilità e l’inesorabilità, nel carattere del suo Dio. E quando poi un giorno uccisero il loro grand’uomo, non fecero che ripetere un misfatto che nella preistoria si era regolarmente rivolto contro il re divino e che, come sappiamo, risaliva a un modello ancora più antico.92
Se da un Iato la figura del grand’uomo si è per noi accresciuta fino alla divina, dall’altro è ora di ricordare che una volta anche il padre era stato bambino. La grande idea religiosa sostenuta dall’uomo Mosè non gli apparteneva; l’aveva ripresa da Akehnaton, suo re. A sua volta questi, la cui grandezza di fondatore religioso è provata al di là d’ogni dubbio, aveva forse seguito stimoli giunti a lui mediati dalla madre o per altre vie, da regioni più o meno lontane dell’Asia.
Non possiamo seguire oltre la concatenazione, ma se questi primi tratti sono stati correttamente riconosciuti, l’idea monoteistica ritornò come un boomerang alla terra d’origine. Sembra quindi sterile pretendere di stabilire il merito di un singolo nel constatare una nuova idea. Chiaramente molti hanno cooperato al suo sviluppo e le hanno conferito qualcosa. D’altronde sarebbe chiaramente scorretto interrompere a Mosè la catena delle cause e trascurare ciò che fecero i suoi successori e prosecutori, i profeti ebrei. In Egitto il seme del monoteismo non aveva attecchito. Lo stesso sarebbe potuto accadere in Israele, quando il popolo si scrollò di dosso la gravosa ed esigente religione. Ma dal popolo ebraico si levarono sempre uomini che vivificarono la tradizione languente, che rinnovarono gli ammonimenti e le richieste di Mosè e non si arrestarono finché non si ristabilì quanto andò perduto. Secoli di sforzi e infine due grandi riforme, una prima e l’altra dopo l’esilio babilonese, compirono la trasformazione del dio popolare Yahweh nel dio che Mosè aveva imposto agli ebrei di adorare. La prova di una particolare attitudine psichica nella massa che divenne il popolo ebraico, è aver potuto suscitare tanti uomini pronti a prendere su di sé il carico della religione di Mosè, attratti dalla ricompensa di essere gli eletti e forse anche da altri premi di pari livello.
C. Il progresso nella spiritualità
Per ottenere effetti psichici duraturi in un popolo, chiaramente non basta assicurargli di essere stato eletto dalla divinità. Se deve crederci e trarre conseguenze dalla fede, bisogna anche provarglielo in un modo o nell’altro. Nella religione mosaica l’esodo dall’Egitto servì da prova; Dio, o Mosè in suo nome, non si stancò mai di richiamarsi a questa dimostrazione di benevolenza. La Pasqua [ebraica] fu introdotta per fissare il ricordo di questo evento, o meglio, in un’antica festa fu travasato il contenuto di tale ricordo. Ma era pur sempre solo un ricordo, e l’esodo apparteneva a un passato sfocato. Nel presente i segni del favore divino erano davvero scarsi; le sorti del popolo indicavano piuttosto il suo sfavore. I popoli primitivi usavano deporre i loro dei o persino castigarli, quando non facevano il loro dovere di garantire la vittoria, la felicità e gli agi. In ogni epoca i re furono trattati in modo non diverso dagli dei; si mostra qui un’antica identità, la provenienza da una radice comune. Anche i popoli moderni usano scacciare i loro re, quando lo splendore del loro regno è offuscato da sconfitte che provocano perdite in territorio e ricchezza. Perché invece il popolo d'Israele rimase attaccato al suo Dio, in modo tanto più sottomesso quanto più ne era maltrattato, è un problema che per ora va lasciato da parte.
Può però stimolarci a indagare se la religione mosaica non abbia portato al popolo qualcos’altro oltre all’aumento del senso di sé grazie alla coscienza dell’elezione. In realtà è facile trovare il fattore successivo. La religione portò agli ebrei anche una rappresentazione molto più grandiosa di Dio o, per dirla in modo più sobrio, la rappresentazione di un Dio più grandioso. Chi credeva in questo Dio era reso partecipe in certo qual modo della sua grandezza e poteva sentirsi innalzato. Per il non credente ciò può non essere del tutto ovvio, ma forse si capisce meglio pensando al senso di superiorità di un inglese che si trovi in un paese straniero diventato pericoloso per una sommossa, senso che sfugge del tutto al suddito di un qualsiasi piccolo stato continentale. L’inglese, cioè, conta sul fatto che, se solo gli si torce un capello, il suo Government manderà una nave da guerra, e i rivoltosi lo sanno benissimo, mentre il piccolo stato non possiede alcuna nave da guerra. L'orgoglio per la grandezza del British Empire ha quindi una radice anche nella coscienza della maggior sicurezza, della protezione di cui gode ogni inglese. C’è qui una certa somiglianza con la rappresentazione di un Dio grandioso; essendo difficile pretendere di assistere Dio nel governo del mondo, l’orgoglio per la grandezza di Dio si confonde con quello di essere stati eletti insieme.
Tra i precetti della religione mosaica se ne trova uno più importante di quanto a prima vista non si riconosca. È il divieto di farsi immagini di Dio, l’imposizione di adorare un Dio che nessuno può vedere. Congetturiamo che su questo punto Mosè fosse ancora più rigoroso della religione di Aton; forse voleva solo essere conseguente (il suo Dio non aveva né nome né volto) o forse era una nuova precauzione contro abusi magici. Ma, una volta accettato, il divieto dovette esercitare un effetto profondo. Infatti, significava posporre la percezione sensoriale alla cosiddetta rappresentazione astratta, un trionfo della spiritualità sulla sensualità, in senso stretto una rinuncia pulsionale con le necessarie conseguenze psicologiche.
Per trovare comprensibile ciò che a prima vista può sembrare poco plausibile, vanno ricordati altri processi di carattere simile nello sviluppo della civiltà umana. Di questi il più antico, forse il più importante, si perde nella notte dei tempi. I suoi effetti stupefacenti ci obbligano ad affermarlo. Nei nostri bambini, negli adulti nevrotici e nei popoli primitivi troviamo quel fenomeno psichico che possiamo designare come credere all’“onnipotenza dei pensieri”. A nostro giudizio consiste nel sopravvalutare l’influsso che i nostri atti psichici (in questo caso, intellettuali) possono avere nel modificare il mondo esterno. In fondo, ogni magia, precorritrice della nostra tecnica, poggia su questa premessa. Qui s’inseriscono anche tutti gli incantesimi verbali e la convinzione del potere connesso al conoscere e pronunciare un nome. Supponiamo che l’“onnipotenza dei pensieri” abbia espresso l’orgoglio dell’umanità per lo sviluppo del linguaggio, cui conseguì lo straordinario incremento dell’attività intellettuale. Si schiuse il nuovo regno della spiritualità, in cui rappresentazioni, ricordi e deduzioni divennero determinanti, in contrasto con l’attività psichica inferiore, che conteneva le percezioni immediate degli organi di senso. Fu certo una delle tappe più importanti sulla via dell’ominazione.
Un altro processo di epoca successiva ci appare assai più comprensibile. Per influsso di fattori esterni, che qui non abbiamo bisogno di seguire e che in parte non sono neppure conosciuti a sufficienza, accadde che all’ordinamento sociale del matriarcato subentrasse quello del patriarcato, naturalmente con il connesso sovvertimento dei precedenti rapporti giuridici. Si crede di avvertire l’eco di questa rivoluzione ancora nell’Orestiade di Eschilo. Ma questo volgersi dalla madre al padre segnò la vittoria della spiritualità sulla sensualità, cioè un progresso di civiltà, essendo la maternità provata dall’attestazione dei sensi, mentre la paternità è ipotetica, costruita su una deduzione e una premessa. Prendere partito per il processo di pensiero al di sopra della percezione sensoriale si dimostrò un passo gravido di conseguenze.
In un momento qualsiasi tra i due eventi menzionati se ne verificò un altro, che mostra la massima affinità con ciò che andiamo cercando nella storia delle religioni. L’uomo si trovò predisposto a riconoscere in generale potenze “spirituali”, tali cioè da non poter esser colte con i sensi, specialmente con la vista, ma che manifestano effetti indubbi, anzi fortissimi. Se potessimo affidarci alla testimonianza della lingua, fu l’aria in movimento a conferire il modello della spiritualità; infatti, lo spirito prende nome dal soffio di vento (animus, spiritus; in ebraico ruach, in tedesco Hauch, “soffio”, “spiro”). Così si scoprì l’anima come principio spirituale nel singolo uomo. L’osservazione ritrovò l’aria in movimento nel respiro dell’uomo, che cessa con la morte; ancor oggi il morente “esala l’anima”. Allora si dischiuse all’uomo il regno dello spirito; fu pronto a credere dotato dell’anima, che aveva scoperto in sé, ogni altro essere in natura. Il mondo intero divenne animato, e la scienza, venuta tanto più tardi, ebbe il suo da fare per rendere nuovamente inanimata una parte del mondo; a tutt’oggi non ha ancora concluso tale compito.
Grazie al divieto mosaico [di rappresentarlo in immagini], Dio fu elevato al grado più alto di spiritualità; si aprì la via per modificare ancor di più la rappresentazione di Dio, su cui c’è ancora altro da dire. Ma ci occuperemo anzitutto di un altro suo effetto. Tutti questi progressi spirituali aumentarono di conseguenza il senso di sé della persona, la resero orgogliosa, facendola sentire superiore a chi era rimasto in balia della sensualità. Sappiamo che Mosè trasmise agli ebrei l’esaltante sentimento di essere il popolo eletto; dematerializzando Dio, il segreto tesoro del popolo si arricchì di una nuova preziosa gemma. Gli ebrei mantennero la tendenza agli interessi spirituali, e dalle sventure politiche della loro nazione impararono ad apprezzare nel suo vero valore l’unica proprietà loro rimasta, la loro letteratura. Subito dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme sotto Tito, il rabbino Jochanan ben Zakkai chiese il permesso di aprire a Jabneh la prima scuola di Torah. Da allora in poi la Sacra Scrittura e l’impegno intellettuale dedicatole fu ciò che mantenne unito il popolo disperso.
Tutto ciò è in generale noto e accettato. Ho voluto solo aggiungere che lo sviluppo caratteristico dell’essenza ebraica fu avviato dal divieto mosaico di adorare Dio in forma visibile.
Il primato concesso per circa duemila anni di vita del popolo ebraico agli sforzi spirituali ha prodotto naturalmente il suo effetto; infatti, ha contribuito ad arginare la rozzezza e l’inclinazione alla violenza che di solito compaiono dove l’ideale popolare è lo sviluppo della forza muscolare. L’armonia nel coltivare l’attività dello spirito e quella del corpo, così come la realizzò il popolo greco, agli ebrei rimase inattingibile. Nella scissione decisero almeno per il valore più alto.
D. Rinuncia pulsionale
Non è né ovvio né senz’altro comprensibile perché il progresso spirituale e il regresso della sensualità debbano accrescere l’autocoscienza di una persona o di un popolo. Ciò sembra presupporre un certo metro di valutazione e un’altra persona o istanza che lo usi. Per spiegarlo ci riferiamo a un caso analogo della psicologia individuale, diventato per noi comprensibile.
Se in un essere umano l’Es solleva una pretesa pulsionale di natura erotica o aggressiva, la cosa più semplice e naturale è che l’Io, che dispone dell'apparato di pensiero e muscolare, la soddisfi agendo. La soddisfazione della pulsione è sentita dall’Io come piacere [Lust], mentre la non soddisfazione sarebbe indubbiamente diventata fonte di avversione [Unlust]. Ora può darsi il caso che l’Io tralasci di soddisfare la pulsione a fronte di ostacoli esterni, se s’accorge che l’azione corrispondente metterebbe in serio pericolo l’Io. Astenersi così dalla soddisfazione, la rinuncia pulsionale per impedimenti esterni – o, come noi diciamo, in obbedienza al principio di realtà – non è in nessun caso piacevole. Alla rinuncia pulsionale seguirebbe uno stato di tensione persistente e di malavoglia, a meno di non riuscire a ridurre la forza pulsionale stessa spostando l’energia [psichica].
Ma la rinuncia pulsionale può essere estorta anche su altre basi, che giustamente chiamiamo interne. Nel corso dello sviluppo individuale parte delle potenze inibenti del mondo esterno è interiorizzata, e si forma nell’Io un’istanza che si contrappone al resto osservando, criticando e vietando. Chiamiamo questa nuova istanza Super-Io. D’ora in poi l’Io, prima di attivare le soddisfazioni pulsionali richieste dall’Es, deve considerare non solo i pericoli del mondo esterno, ma anche le obiezioni del Super-Io, avendo così ragioni in più per tralasciare la soddisfazione pulsionale. Mentre però la rinuncia pulsionale per cause esterne è solo spiacevole, quella per cause interne, in obbedienza al Super-Io, ha un altro effetto economico. Oltre alle inevitabili conseguenze spiacevoli, arreca all’Io anche un guadagno di piacere, in un certo senso un soddisfacimento sostitutivo. L’Io si sente elevato, prova orgoglio per la rinuncia pulsionale come per una prestazione di valore. Crediamo di capire il meccanismo di questo guadagno di piacere. Il Super-Io è successore e rappresentante dei genitori (e degli educatori), che hanno sorvegliato l'attività dell’individuo nel primo periodo di vita; prosegue le loro funzioni quasi senza modificarle. Mantiene l’Io in stabile dipendenza, esercita su di lui una pressione costante. Proprio come nell’infanzia, l’Io si preoccupa di non mettere a repentaglio l’amore del suo sovrano; sente la sua approvazione come liberazione e soddisfazione e i suoi rimproveri come rimorsi. Quando l’Io offre al Super-Io il sacrificio di una rinuncia pulsionale, si aspetta di ricevere in compenso più amore. La coscienza di meritare l’amore è da lui sentita come orgoglio. All’epoca in cui l’autorità non era ancora interiorizzata come Super-Io, poteva esserci la stessa relazione tra la minacciata perdita d’amore e la pretesa pulsionale. Compiere una rinuncia pulsionale per amore dei genitori dava un sentimento di sicurezza e di soddisfazione. Ma tale sentimento buono poteva assumere il carattere propriamente narcisistico dell’orgoglio solo dopo che l’autorità stessa divenne parte integrante dell’Io.
A che ci serve spiegare la soddisfazione da rinuncia pulsionale, per comprendere i processi che pretendiamo studiare, ossia l’accresciuta autocoscienza per i progressi spirituali? Apparentemente a molto poco. Le circostanze sono del tutto diverse. Non si tratta di rinuncia pulsionale; non c’è seconda persona o istanza per amor della quale fare il sacrificio. Su questa seconda affermazione siamo subito in dubbio. Si può dire che il grand’uomo è giusto l’autorità per amore della quale si compie l’atto e, poiché il grand’uomo ha efficacia per la sua somiglianza con il padre, non c'è da stupirsi che nella psicologia delle masse gli spetti il ruolo di Super-Io. E questo varrebbe anche per l’uomo Mosè in rapporto al popolo ebraico. Per l’altro punto però è impossibile stabilire un’analogia corretta. Progredire spiritualmente vuol dire decidere contro la diretta percezione dei sensi a favore dei cosiddetti processi intellettuali superiori, ossia ricordi, riflessioni, processi deduttivi. Ad esempio, vuol dire stabilire che la paternità è più importante della maternità, sebbene non sia come lei dimostrabile con la testimonianza dei sensi; il bambino deve quindi portare il nome del padre ed esserne l’erede. Oppure, il nostro Dio è il più grande e il più potente, benché sia invisibile come il turbine di vento e l’anima. Il rifiuto di una pretesa pulsionale sessuale o aggressiva è apparentemente cosa del tutto diversa da questo. In certi progressi della spiritualità, poi, ad esempio nella vittoria del patriarcato, non è evidente quale autorità stabilisca il criterio per ciò che va stimato superiore. In questo caso non può essere il padre, essendo elevato ad autorità solo dal progresso stesso. Ci troviamo di fronte al fenomeno per cui nello sviluppo dell’umanità la sensibilità è gradualmente sopraffatta dalla spiritualità, e per ogni simile progresso gli uomini si sentono orgogliosi e innalzati. Ma non sappiamo dire perché debba essere così. Inoltre più tardi succede che la spiritualità sia a sua volta sopraffatta dal fenomeno emotivo assolutamente enigmatico della fede. Si tratta del famoso Credo quia absurdum; anche qui, chi ci riesce, la considera una prestazione elevata. Forse l’elemento comune a tutte queste situazioni psicologiche è qualcosa di diverso. Forse l’uomo ritiene più elevato semplicemente ciò che è più difficile; forse il suo orgoglio non è altro che il suo narcisismo reso più forte dalla consapevolezza d’aver superato una difficoltà.
Queste sono discussioni certo poco fruttuose; si potrebbe pensare che non abbiano molto a che fare con la nostra ricerca su ciò che abbia determinato il carattere del popolo ebraico. Ciò sarebbe per noi solo un vantaggio, ma un fatto, di cui ci occuperemo ancor di più in seguito, tradisce una certa pertinenza con il nostro problema. La religione, iniziata con il divieto di dare un’immagine di Dio, si sviluppò sempre più nel corso dei secoli in religione della rinuncia pulsionale. Non dico che esiga l’astinenza sessuale; si accontenta di una notevole restrizione della libertà sessuale. Però Dio è pienamente sottratto alla sessualità ed elevato a ideale di perfezione etica. Etica è perciò la restrizione pulsionale. I profeti non si stancano di ammonire che Dio non pretende dal suo popolo altro che una condotta di vita giusta e virtuosa, cioè l’astensione da tutti le soddisfazioni pulsionali giudicate viziose anche dalla nostra morale odierna. E persino l’esigenza di credere in lui pare retrocedere di fronte alla serietà di queste pretese etiche. In questo modo la rinuncia pulsionale sembra avere una parte preminente nella religione, pur non manifestandosi sin dall’inizio.
Qui però c’è spazio per un’obiezione che dovrebbe parare un malinteso. Per quanto possa sembrare che la rinuncia pulsionale e l’etica su di essa fondata non appartengano al contenuto essenziale della religione, tuttavia le sono collegate geneticamente nel modo più intimo. La prima forma di religione a noi nota, il totemismo, comprende un certo numero di precetti e divieti come elementi indispensabili del sistema, che naturalmente non significano altro che rinunce pulsionali. Sono la venerazione del totem, che implica la proibizione di offenderlo o ucciderlo; l’esogamia, la rinuncia cioè alle madri e alle sorelle dell’orda, pur appassionatamente desiderate; la concessione di pari diritti a tutti i membri dell’alleanza dei fratelli; la limitazione della tendenza alla rivalità violenta tra di loro. In queste norme dobbiamo ravvisare gli esordi di un ordinamento morale e sociale. Non ci sfugge che qui si fanno valere due motivazioni diverse. I primi due divieti si conformano alla linea segnata dal padre, di cui ci si è sbarazzati, ma di cui continuano in certo modo il volere. Il terzo imperativo, quello della parità di diritti tra fratelli alleati, prescinde dal volere del padre e si giustifica richiamandosi alla necessità di mantenere durevolmente il nuovo ordine sorto alla fine del padre, senza di che la ricaduta nello stato precedente sarebbe inevitabile. Qui gli imperativi sociali si separano dagli altri che, potremmo dire, derivano direttamente da relazioni religiose.
Nello sviluppo abbreviato del singolo essere umano si ripete la parte essenziale di tale andamento. Anche qui l’autorità dei genitori, in modo essenziale l’assoluta paterna, che minaccia con il suo potere di punizione, obbliga il bambino alle rinunce pulsionali, stabiliendo cosa gli è permesso e cosa vietato. Ciò che per il bambino è “buono” o “cattivo”, poi, quando la società e il Super-Io hanno preso il posto dei genitori, è definito “bene” o “male”, virtuoso o vizioso; ma si tratta sempre della stessa cosa, cioè della rinuncia pulsionale sotto pressione dell’autorità, che sostituisce e continua il padre.
L’esame del singolare concetto di “santità” porta ad approfondire oltre questi modi di vedere. Che cosa propriamente ci sembra sacro, da far risaltare su altro, da apprezzare e riconoscere importante e significativo? Da un lato non si può non riconoscere la connessione tra sacro e religioso, su cui s’insiste di continuo; tutto ciò che è religioso è sacro, anzi è il nucleo della santità. D’altra parte il nostro giudizio è disturbato dai numerosi tentativi di attribuire il carattere sacro a tante altre cose, persone, istituzioni, uffici, che hanno poco a che vedere con la religione. Questi sforzi servono evidenti tendenze. Prenderemo le mosse dal carattere di divieto decisamente attinente al sacro. Il sacro è chiaramente qualcosa che non è lecito toccare. Il divieto sacro ha una connotazione affettiva molto forte, ma è propriamente privo di fondamento razionale. Perché mai, ad esempio, dovrebbe essere un delitto così grave commettere incesto con la figlia o la sorella, tanto più grave di qualsiasi altro rapporto sessuale? Se domandiamo quale sia il fondamento, ci sentiamo certo dire che a ciò si ribellano tutti i nostri sentimenti. Vuol solo dire che si considera il divieto ovvio, ma non si sa giustificarlo.
È abbastanza facile dimostrare che simile spiegazione non spiega nulla. Ciò che si presume offendere i nostri più sacri sentimenti era costume generale, si potrebbe dire usanza sacra, nelle famiglie dominanti dell’antico Egitto e di altri popoli antichi. Sembrava ovvio che il faraone trovasse nella sorella la prima e principale moglie; i tardi successori dei faraoni, i Tolomei greci, non esitarono a imitarne l’esempio. Piuttosto ci avvediamo che l’incesto – in questo caso tra fratello e sorella – era un privilegio, sottratto ai comuni mortali, e riservato invece ai re, rappresentanti degli dei, così come lo era nel mondo della leggenda greca e germanica, per nulla scandalizzato da tali relazioni incestuose. Si potrebbe presumere che l’apprensiva tutela della parità nella nostra alta nobiltà sia ancora retaggio di tale antico privilegio, e si può constatare che, a causa del riprodursi tra consanguinei, perseguito per generazioni negli strati più elevati della nostra società, l’Europa sia oggi governata da membri di una o due famiglie.
L’allusione all’incesto tra dei, re ed eroi ci aiuta anche a far giustizia di un altro tentativo, che pretende spiegare biologicamente la fobia dell’incesto (Inzestscheu), ricondotta a un’oscura nozione di dannosità della riproduzione tra consanguinei. Non è però affatto sicuro che la riproduzione tra consanguinei rischi di essere dannosa, e meno ancora che i primitivi abbiano riconosciuto il fatto e vi abbiano reagito. Anche l’incertezza con cui si determina il grado consentito o proibito di parentela dimostra quanto sia debole la tesi del “sentimento naturale” come fondamento originario della fobia dell’incesto.
La nostra costruzione della preistoria ci impone un’altra spiegazione. L’obbligo dell’esogamia, la cui espressione negativa è la fobia dell’incesto, si fondava sulla volontà del padre, continuata dopo il parricidio. Da qui l’intensità del suo tono affettivo e l’impossibilità di fondazione razionale, cioè la sua sacralità. Confidiamo che l’esame di tutti gli altri casi di divieto sacro condurrebbe allo stesso risultato del caso di fobia dell’incesto, cioè che in origine il sacro non sia altro che il seguito della volontà del padre primitivo. Ciò farebbe anche luce sull’ambivalenza, incomprensibile finora, delle parole che esprimono il concetto di sacro. È la stessa ambivalenza che domina in genere il rapporto con il padre. “Sacer” significa non solo “sacro”, "consacrato", ma anche qualcosa che possiamo tradurre solo con “infame”, “esecrando” (auri sacra fames). Tuttavia, la volontà del padre non era solo qualcosa di intoccabile, qualcosa da tenere altamente in onore, ma di fronte a cui anche tremare, perché esigeva una dolorosa rinuncia pulsionale. Quando sentiamo dire che Mosè “consacrò” il suo popolo introducendo l’uso della circoncisione, comprendiamo ora il senso profondo di tale affermazione. La circoncisione è il sostituto simbolico della castrazione, che tempo fa il padre primitivo nella pienezza dei suoi pieni poteri inflisse ai figli; chi accettava questo simbolo mostrava di essere pronto a sottomettersi al volere del padre, anche se gli imponeva il sacrificio più doloroso.
Tornando all’etica, possiamo in conclusione dire che parte dei suoi precetti si giustificano razionalmente con la necessità di delimitare i diritti della comunità rispetto al singolo, del singolo rispetto alla società e degli individui tra loro. Ma ciò che nell’etica appare grandioso, misterioso, intuitivo alla maniera mistica, deve tali caratteri al nesso con la religione, con la sua origine dalla volontà paterna.
E. Il contenuto di verità della religione
Quanto a noi, uomini di poca fede, i ricercatori convinti che esista un Essere supremo ci sembrano invidiabili! Grazie al Grande Spirito, che ha creato tutte le sue istituzioni, il mondo non ha problemi. Quanto comprensive, esaurienti e definitive sono le dottrine del credente in confronto ai nostri faticosi, miseri e parziali tentativi di spiegazione – il massimo che riusciamo a fare! Lo Spirito divino, da ideale di perfezione etica, ha inculcato negli uomini la conoscenza di questo ideale e al tempo stesso l’impulso ad adeguare il proprio essere all’ideale. Immediatamente avvertono ciò che è superiore e nobile e ciò che è inferiore e comune. La loro vita sensibile si regola sulla loro attuale distanza dall’ideale, arrecando loro profonda soddisfazione quando al perielio, per così dire, si avvicinano all’ideale e punendoli con forte avversione quando, all’afelio, se ne sono allontanati. Tutto ciò è fissato in modo molto semplice e incrollabile. Possiamo solo deplorare che certe esperienze di vita e certe osservazioni del mondo ci rendano impossibile accettare la premessa di tutto ciò: l’esistenza di tale essere supremo. Come se il mondo non avesse già abbastanza enigmi, ci si pone il nuovo compito di capire come altri possa acquisire la fede in un essere divino e da dove tale fede tragga il suo mostruoso potere, che sopraffà “ragione e scienza”.
Ritorniamo al problema più modesto che ci ha occupato finora. Volevamo chiarire l’origine del peculiare carattere del popolo ebraico, che verosimilmente ha anche reso possibile che si mantenesse fino a oggi. Abbiamo trovato che l’uomo Mosè impresse questo carattere negli ebrei, dotandoli di una religione che accrebbe il loro senso di sé, al punto di credersi superiori a tutti gli altri popoli. Da allora gli ebrei si conservarono come popolo mantenendosi lontani dagli altri. Le mescolanze di sangue causarono poco turbamento, perché ciò che li teneva insieme era un fattore ideale, il possesso comune di determinati beni intellettuali ed emotivi. La religione mosaica ebbe questo effetto perché: 1) rese il popolo partecipe della grandiosità di una nuova rappresentazione di Dio; 2) affermava che questo popolo era stato eletto da questo grande Dio ed era destinato a dimostrare il suo particolare favore; 3) impose al popolo di progredire spiritualmente. Tale progresso, già solo di per sé abbastanza importante, aprì per di più la strada alla sopravvalutazione del lavoro intellettuale e a ulteriori rinunce pulsionali.
Questo è il nostro risultato e, pur non volendo ritrattarlo in nulla, non possiamo nasconderci che sia in qualche modo insoddisfacente. La causa non è, per così dire, congrua all’effetto; il dato di fatto che pretendiamo spiegare sembra di un altro ordine di grandezza rispetto a tutto ciò con cui lo spieghiamo. È possibile che tutte le nostre indagini non abbiano fin qui scoperto l’intera motivazione, ma solo uno strato in un certo senso superficiale, e che dietro ad esso un altro fattore assai più significativo attenda di essere svelato? Data la straordinaria complicazione di ogni causalità nella vita e nella storia, c’era da aspettarsi qualcosa del genere.
Da un certo punto delle precedenti discussioni si avrebbe accesso a questa più profonda motivazione. La religione di Mosè non esercitò i suoi effetti immediatamente, ma in modo stranamente indiretto. Non vuol dire che non agì subito, ma che ebbe bisogno di tempi lunghi, di secoli, per dispiegare a pieno il suo effetto; questo va da sé, trattandosi di forgiare il carattere di un popolo. La restrizione è piuttosto in rapporto con un dato di fatto, tratto dalla storia della religione ebraica o, se si vuole, che vi abbiamo introdotto. Abbiamo detto che dopo un certo tempo il popolo ebraico si sbarazzò ancora una volta della religione mosaica (impossibile indovinare se del tutto o se alcuni suoi precetti furono mantenuti). Quando supponiamo che nel lungo periodo dell’occupazione di Canaan e della lotta contro i popoli che vi abitavano la religione di Yahweh non si distinguesse essenzialmente dal culto degli altri Baalim, siamo sul terreno storico, nonostante tutti gli sforzi successivi volti a occultare l’imbarazzante stato di cose. Tuttavia la religione mosaica non era sparita senza lasciar tracce; se ne era conservato una sorta di ricordo, oscurato e deformato, sorretto forse da singoli membri della casta sacerdotale in antiche annotazioni. Fu questa tradizione di un grande passato che continuò ad agire come dietro le quinte, acquisì gradualmente un potere sempre più grande sulle menti e infine riuscì a trasformare il dio Yahweh nel dio di Mosè, risvegliando a nuova vita la religione di Mosè, introdotta molti secoli prima e poi abbandonata.
In una precedente sezione di questo saggio abbiamo discusso quale ipotesi ci sembri innegabile, dovendo comprendere simile effetto della tradizione.
F. Il ritorno del rimosso
Ora, tra i processi che la ricerca analitica sulla vita psichica ci ha insegnato a riconoscere, ne esistono di simili. Parte si dice patologica, parte rientra nella molteplicità del normale. Ma ciò non conta molto, perché i confini tra le due parti non sono netti; i meccanismi sono largamente gli stessi; è molto più importante sapere se le relative alterazioni si compiono nell’Io o se si contrappongono all’Io come estranee, chiamandosi allora sintomi. Di seguito, da tutto il materiale traggo alcuni casi riferiti allo sviluppo del carattere.
La giovane ragazza è giunta a contrapporsi nel modo più deciso alla madre; ha coltivato tutte le qualità che non ha trovato in lei, evitando tutto ciò che la ricorda. Aggiungiamo che nell’infanzia, come tutte le bambine, aveva cercato di identificarsi con la madre, ma ora si ribella a lei con energia. Però, quando la ragazza si sposa e a sua volta diventa moglie e madre, non dobbiamo stupirci di vederla diventare sempre più simile alla madre osteggiata, fino a riproporre, in conclusione, l’inconfondibile identificazione materna all’apparenza superata.
Lo stesso succede anche nei ragazzi; persino il grande Goethe, che al tempo del suo genio aveva certamente disprezzato il padre rigido e pedante, da vecchio sviluppò tratti appartenenti al quadro caratteriale paterno.
Il risultato può diventare tanto più appariscente quanto più netto è il contrasto tra le due persone. Un giovane al quale toccò in sorte di crescere accanto a un padre che non valeva nulla, divenne in un primo tempo, malgrado il padre, un uomo capace, meritevole di fiducia e rispetto. Nel pieno della vita il suo carattere cambiò radicalmente e da allora si comportò come se avesse preso a modello proprio il padre. Per non perdere il nesso con il nostro tema, teniamo presente che all’inizio di tali avvenimenti c’è sempre l’identificazione del bambino piccolo con il padre. Questa è poi ripudiata, persino sovracompensata, ma alla fine torna a imporsi.
Da tempo è diventata opinione comune che le esperienze dei primi cinque anni esercitino un influsso determinante sulla vita, cui più tardi nulla è in grado di opporsi. Ci sarebbero molte cose da dire, degne di essere rese note, su come queste prime impressioni sopravvivano a tutte le vicende dell’età più matura, ma ciò esula dal nostro argomento. Potrebbe però essere meno noto che l’influsso più intenso e coattivo proviene da impressioni che colpiscono il bambino in un’epoca in cui il suo apparato psichico non va considerato ancora interamente in grado di capire. Sul dato di fatto in sé non ci sono dubbi, ma è tanto sconcertante che per capirlo più agevolmente lo paragonerei a una lastra fotografica, che si può sviluppare e trasformare in immagine in qualsiasi momento. Accenno nondimeno volentieri al fatto che uno scrittore di fervida fantasia ha anticipato questa nostra scomoda scoperta con l’audacia consentita ai poeti. E.T.A. Hoffmann usava ricondurre la ricchezza delle forme, di cui poteva disporre per le sue composizioni, all’avvicendarsi delle immagini e delle impressioni sperimentate in un viaggio in vettura postale, durato alcune settimane e risalente a quando ancora poppante succhiava al seno materno. Ciò che i bambini di due anni hanno vissuto e non compreso, possono benissimo non ricordarlo più, se non in sogno. Può diventar loro noto solo con un trattamento psicanalitico in un momento successivo, o irromperà nella loro vita con impulsi coatti, dirigerà le loro azioni, determinando le loro simpatie e antipatie, cagionerà abbastanza spesso la loro scelta amorosa, cui molto spesso è impossibile dare un fondamento razionale. Non si deve misconoscere su quali punti questi dati di fatto tocchino il nostro problema.
In primo luogo c’è la lontananza nel tempo,93 qui individuata come fattore propriamente determinante; ad esempio, nel particolare stato del ricordo, che nel caso delle esperienze infantili classifichiamo come “inconscio”. Qui ci aspettiamo di trovare un’analogia con lo stato che vorremmo attribuire alla tradizione nella vita psichica del popolo. Non è stato però facile introdurre la rappresentazione dell’inconscio nella psicologia delle masse.
I meccanismi di formazione delle nevrosi contribuiscono regolarmente ai fenomeni da noi indagati. Anche qui gli eventi determinanti risalgono ai tempi dell’infanzia vera e propria, ma ora l’accento non cade sul tempo, ma sul processo che si oppone all’evento, sulla reazione ad esso. Schematizzando si può dire che per effetto dell’esperienza vissuta si levi una pretesa pulsionale che esige soddisfazione. L’Io la rifiuta, o perché paralizzato dall’entità della pretesa o perché vi riconosce un pericolo. La prima di queste ragioni è l’originaria, ed entrambe concorrono a evitare una situazione di pericolo. L’Io si difende dal pericolo con il processo di rimozione. Il moto pulsionale è in qualche modo inibito; si dimentica l’occasione con percezioni e rappresentazioni concomitanti. Con questo, però, il processo non è concluso; la pulsione o ha conservato la sua forza o la raccoglie di nuovo oppure è risvegliata da una nuova occasione. Allora rinnova la sua pretesa e, rimanendo sbarrata la strada al normale soddisfacimento da ciò che potremmo chiamare la cicatrice della rimozione, da qualche parte, in un punto debole, si apre un’altra strada verso il cosiddetto soddisfacimento sostitutivo, che ora viene alla luce come sintomo, senza il consenso ma anche senza la comprensione dell’Io. Tutti i fenomeni della formazione dei sintomi [nevrotici] sono a buon diritto descritti come “ritorno del rimosso”. Il loro carattere distintivo è però l’ampia deformazione rispetto all’originale, cui ciò che ritorna è andato incontro. Forse si penserà che con l’ultimo gruppo di fatti ci siamo troppo allontanati dalla somiglianza con la tradizione. Ma non dobbiamo pentircene, se così ci siamo accostati ai problemi della rinuncia pulsionale.
G. La verità storica
Abbiamo intrapreso tutte queste digressioni psicologiche per rendere più credibile l’ipotesi che la religione mosaica abbia avuto effetto sul popolo ebraico solo come tradizione. Forse non siamo riusciti a ottenere niente di più di una certa verosimiglianza. Ma, supponendo di essere riusciti a giungere alla dimostrazione piena, rimarrebbe sempre l’impressione d’aver semplicemente soddisfatto il fattore qualitativo della richiesta, non quello quantitativo. A tutto ciò che ha a che fare con l’origine della religione, certo anche dell’ebraica, aderisce qualcosa di grandioso che le nostre precedenti spiegazioni non hanno toccato. Dovrebbe concorrere anche un altro fattore, per cui c’è poco di analogo e nulla di simile, qualcosa di unico e dello stesso ordine di grandezza di ciò che ne è scaturito, come appunto la religione.
Tentiamo di avvicinarci all’oggetto dal Iato opposto. Comprendiamo che il primitivo abbia bisogno di un dio come creatore del mondo, capostipite, assistente personale. Questo dio trova posto dietro i padri defunti, di cui la tradizione sa ancora dire qualcosa. L’uomo di tempi più tardi, del nostro tempo, si comporta allo stesso modo. Anche lui resta infantile e bisognoso di protezione persino da adulto; pensa di non poter fare a meno del sostegno del suo dio. Tutto ciò è incontestabile, ma è meno facile capire perché debba esserci un dio unico, perché proprio il progresso dall’enoteismo94 e dal politeismo al monoteismo acquisti significato predominante. Certo, come abbiamo spiegato, il credente partecipa della grandezza del suo dio; quanto più grande è il dio tanto più sicura è la protezione che può offrire. Ma la potenza di un dio non presuppone necessariamente la sua unicità. Molti popoli vedevano pure una glorificazione del loro super-dio nel fatto di regnare sopra altre divinità sottomesse, e la sua grandezza non era diminuita se oltre a lui esistevano altre divinità. Significava anche un sacrificio d’intimità, se tale dio diveniva universale e si curava di tutti i paesi e di tutti i popoli. In un certo senso si condivideva il proprio dio con gli stranieri, risarcendosi con la riserva di esserne i preferiti. Si fa ancora valere l’argomento che l’idea del dio unico significhi per sé stessa un progresso nella spiritualità, ma al punto non si può dare tanta importanza.
Ora, i devoti credenti conoscono un modo adeguato per colmare la palese lacuna nella motivazione. Dicono che l’idea di un dio unico ha avuto un’efficacia così irresistibile sugli uomini perché faceva parte di quell’eterna verità che, a lungo celata, venne finalmente alla luce e doveva quindi trascinare tutti con sé. Dobbiamo finalmente ammettere che un fattore di questo tipo si adegua alla grandezza tanto dell’oggetto quanto dell’esito.
Anche noi vorremmo accettare questa soluzione. Ma ci imbattiamo in un dubbio. L’argomento devoto poggia su un presupposto ottimistico-idealistico. Finora nessuno è riuscito ad accertare che l’intelletto umano abbia un fiuto particolarmente fine per la verità e che la vita psichica umana mostri una particolare inclinazione a riconoscerla. Al contrario, abbiamo piuttosto appreso che il nostro intelletto si smarrisce molto facilmente, senza alcun preavviso e che nulla crediamo più facilmente, senza riguardo per la verità, di ciò che asseconda le nostre illusioni di desiderio. Pertanto dobbiamo limitare il nostro assenso. Crediamo anche che la soluzione dei devoti contenga la verità, non però la verità materiale, bensì quella storica. E ci sentiamo in diritto di correggere una certa deformazione che tale verità ha sperimentato nel suo ritorno. Vale a dire, oggi non crediamo che vi sia un unico grande dio, ma che nella preistoria vi fu un personaggio unico, che all’epoca dovette apparire gigantesco e poi ha fatto ritorno nel ricordo degli uomini elevato a divinità.
Avevamo supposto che la religione di Mosè fosse dapprima rigettata e semi-dimenticata e poi facesse breccia come tradizione. Adesso supponiamo che questo processo si sia verificato allora per la seconda volta. Quando Mosè portò al popolo l’idea del dio unico, non recava nulla di nuovo, ma richiamava in vita un’esperienza primordiale della famiglia umana, svanita da molto tempo dalla memoria cosciente degli uomini. Ma era stata così importante, aveva prodotto o avviato modificazioni così incisive nella vita umana, che non possiamo fare a meno di credere che avesse lasciato nell’anima degli uomini qualche traccia durevole, paragonabile a una tradizione.
Dalle psicanalisi delle singole persone, abbiamo appreso che le loro precoci impressioni, quando da bambini non sapevano quasi parlare, manifestano prima o poi effetti di carattere coatto, pur senza esser ricordate consciamente. Ci riteniamo quindi giustificati ad ammettere lo stesso per le precoci esperienze dell’intera umanità. Uno di questi effetti sarebbe il sorgere dell’idea di un grande dio unico, in cui andrebbe riconosciuto un ricordo deformato affatto giustificato. Un’idea simile ha carattere coatto: va assolutamente creduta. Fin dove giunge la sua deformazione, si può chiamarla delirio; poiché porta con sé il ritorno del passato, va chiamata verità. Anche il delirio psichiatrico contiene un pezzetto di verità; la convinzione del malato si estende da tale verità all’involucro delirante.
Ora quanto segue, fino alla fine del saggio, ripete poco modificate le argomentazioni della prima parte.
Nell’anno 1912 in Totem e tabù cercai di ricostruire l’antica situazione da cui derivarono tali effetti. A tal fine mi sono servito di certe idee teoriche di Charles Darwin, di Atkinson, ma soprattutto di William Robertson Smith, combinandole con scoperte e indicazioni psicanalitiche. Da Darwin presi a prestito l’ipotesi che in origine gli uomini vivessero in piccole orde, ciascuna sotto la tirannia di un anziano stallone, che si appropriava di tutte le giovani femmine e puniva o scacciava i giovani maschi, inclusi i propri figli. Da Atkinson, continuando tale descrizione, immaginai che quel sistema patriarcale finisse con la ribellione dei figli, che si unirono contro il padre, lo sopraffecero e lo divorarono in comune. Poi, in connessione alla teoria totemica di Robertson Smith, supposi che da allora l’orda paterna cedesse il posto al clan totemico dei fratelli. Per poter vivere in pace tra loro, i fratelli vittoriosi rinunciarono alle donne, a causa delle quali avevano ucciso il padre, e istituirono I’esogamia. Il potere paterno fu infranto e le famiglie si organizzarono secondo il matriarcato. L’atteggiamento emotivo ambivalente dei figli verso il padre restò in vigore per l’intero sviluppo successivo. Al posto del padre fu insediato un animale come totem; valendo come antenato e spirito protettore, il totem non poteva essere offeso o ucciso, ma una volta l’anno tutta la comunità dei maschi si ritrovava per un convito, nel quale il totem animale, altrimenti venerato, era fatto a pezzi e divorato in comune. Nessuno poteva esimersi dal partecipare a questo pasto: era la solenne ripetizione dell’uccisione del padre, con cui iniziarono ordine sociale, leggi morali e religione. Secondo Robertson Smith, la concordanza, del pasto totemico con l’ultima cena cristiana attirò l’attenzione di qualche autore prima di me.
Ancora oggi mi attengo a tale ricostruzione. Mi sono sentito più volte rivolgere violenti rimproveri per non avere modificato le mie opinioni nelle successive edizioni del libro, nonostante etnologi più recenti abbiano rifiutato, unanimi, le tesi di Robertson Smith, e avanzato in parte teorie che se ne scostano totalmente. Replico che questi pretesi progressi mi sono ben noti, ma non sono convinto né della giustezza di queste innovazioni né degli errori di Robertson Smith. Una contraddizione non è ancora una confutazione, un’innovazione non è necessariamente un progresso. Innanzitutto, però, io non sono etnologo ma psicanalista. Avevo il diritto di trarre dalla letteratura etnologica ciò che mi poteva servire per il lavoro analitico. I lavori del geniale Robertson Smith mi hanno offerto validi punti di contatto con il materiale psicologico dell’analisi, agganci per utilizzarlo. Non mi sono mai incrociato con i suoi avversari.
H. L’evoluzione storica
Qui non posso ripetere nei dettagli il contenuto di Totem e tabù, ma devo pensare a colmare il lungo tratto tra la supposta preistoria e la vittoria del monoteismo in tempi storici. Una volta istituiti il clan dei fratelli, il matriarcato, l’esogamia e il totemismo, iniziò un’evoluzione che è giusto descrivere come lento “ritorno del rimosso”. Qui usiamo il termine “rimosso” in senso improprio. Si tratta di qualcosa di passato, scomparso, superato nella vita dei popoli, che ci azzardiamo a confrontare con il rimosso nella vita psichica dell’individuo. In quale forma psicologica questo passato perdurasse nel periodo della sua eclissi, a tutta prima non so dire. Non è facile trasferire i concetti della psicologia del singolo alla psicologia delle masse, e non credo che otteniamo qualcosa introducendo il concetto di inconscio “collettivo”. Il contenuto dell’inconscio è già comunque collettivo, patrimonio universale degli uomini. Quindi ci aiutiamo provvisoriamente usando analogie. I processi che qui studiamo nella vita dei popoli sono molto simili a quelli a noi noti dalla psicopatologia [dei singoli], ma non sono proprio gli stessi. Infine, ci decidiamo a supporre che i sedimenti psichici di quella preistoria divennero patrimonio ereditario, che ogni nuova generazione aveva solo bisogno di ridestare, non di acquisire [ex novo] l’eredità. A questo riguardo, pensiamo all’esempio del simbolismo certamente “co-innato”, derivante dall’epoca in cui si sviluppò il linguaggio: è familiare a tutti i bambini senza che abbiano ancora ricevuto un’istruzione, e suona uguale in tutti i popoli a dispetto delle diversità di lingua. Otteniamo la sicurezza, che forse qui ancora ci manca, da altri risultati della ricerca psicanalitica. Veniamo a sapere che i nostri bambini in un certo numero di relazioni importanti non reagiscono in modo corrispondente alla loro esperienza, ma secondo l’istinto, in modo paragonabile agli animali, che si spiega solo con l’acquisizione filogenetica.
Il ritorno del rimosso si compie lentamente, certo non spontaneamente, ma sotto la spinta di tutte le mutevoli condizioni di vita che riempiono la storia della civiltà umana. Qui non posso dare né un sommario di queste interdipendenze né nulla più di una lacunosa enumerazione delle tappe di tale ritorno. Il padre diviene nuovamente il capo della famiglia, un capo ben lungi dall’essere così assoluto com’era stato il padre dell’orda primitiva. Il totem animale cede il posto al dio con passaggi ancora ben perspicui. Dapprima il dio di forma umana ha ancora la testa dell’animale, poi si trasforma di preferenza in quel certo animale, poi l’animale diviene sacro al dio e suo accompagnatore prediletto, oppure il dio uccide l’animale e ne assume il soprannome. Tra il totem animale e il dio sorge l’eroe, spesso come primo grado di deificazione. L’idea della divinità suprema compare preistoricamente, così sembra, dapprima solo simile a un’ombra, senza immischiarsi negli interessi quotidiani degli uomini. Confluendo tribù e popoli in unità più vaste, anche gli dei si organizzano in famiglie e gerarchie. Uno di loro è sovente elevato a signore supremo al di sopra di dei e uomini. Con titubanza avviene il passo successivo, consistente nel tributare onori a un solo dio, e infine segue la decisione di accordare tutto il potere a un dio unico e di non tollerare altro dio accanto a lui. Solo così la maestà del padre dell’orda primitiva fu ristabilita e le emozioni da lui suscitate poterono ripetersi.
Il primo effetto dell’incontro con l’agognato di cui per tanto tempo si era sentita la mancanza fu di sopraffazione; così lo descrive la tradizione della legislazione [data] sul monte Sinai. Ammirazione, timore reverenziale e gratitudine per la grazia trovata ai suoi occhi: verso Dio Padre la religione mosaica non conosce altri sentimenti che questi positivi. La convinzione che fosse irresistibile, la sottomissione al suo volere, non avrebbero potuto essere più incondizionate nel figlio indifeso e intimidito dal padre dell’orda; anzi, esse diventano comprensibili in pieno solo per trasposizione all’ambiente primitivo e infantile. I moti infantili del sentimento sono intensamente e inesauribilmente profondi, di tutt’altra misura rispetto a quelli degli adulti, e solo l’estasi religiosa può richiamarli. Così, l’immediata reazione al ritorno del grande padre fu l’ebbrezza di darsi a Dio.
Così la direzione di questa religione del padre si fissò nel tempo, senza che il suo sviluppo si concludesse. L’ambivalenza appartiene all’essenza del rapporto con il padre; con l’andar del tempo, non poteva non succedere che si ridestasse l’ostilità che una volta aveva spinto i figli a uccidere il padre ammirato e temuto. Nella cornice della religione mosaica non c’era spazio per l’espressione diretta dell’odio omicida contro il padre; poteva venire alla luce solo la potente reazione ad esso: il senso di colpa per l’ostilità, la cattiva coscienza di aver peccato contro Dio e di non cessare di peccare. Il senso di colpa, tenuto ininterrottamente desto dai profeti, che presto formò un contenuto integrante del sistema religioso, aveva in superficie anche un’altra motivazione, che mascherava abilmente la sua vera origine. Le cose andavano male per il popolo, le speranze riposte nel favore di Dio non volevano adempiersi e non era facile conservare l'illusione, cara più di ogni altra, di essere il popolo eletto di Dio. Non volendo nessuno rinunciare a questa fortuna, il senso di colpa per la propria peccaminosità offriva a Dio un’ottima giustificazione. Nessuno meritava di meglio che essere punito da Lui, perché nessuno rispettava i suoi comandamenti, e nel bisogno di soddisfare questo sentimento di colpa, che era insaziabile e proveniva da fonti ben più profonde, questi comandamenti dovevano essere resi sempre più severi, penosi nonché gretti. In una nuova sbornia di ascesi morale il popolo s’impose sempre nuove rinunce pulsionali, raggiungendo, almeno nella dottrina e nel precetto, vertici etici rimasti inaccessibili ad altri popoli antichi. Nell’alto sviluppo etico molti ebrei ravvisano il secondo carattere principale e la seconda grande realizzazione della loro religione. Dalle nostre osservazioni dovrebbe risultare come fosse connessa con la prima, cioè con l’idea del dio unico. Questa etica non riesce tuttavia a rinnegare la sua origine dal senso di colpa causato dall’ostilità repressa verso Dio. Ha lo stesso carattere inconcluso e inconcludente delle formazioni reattive; s’indovina anche che serva a intenzioni segrete di punizione.
L’evoluzione successiva va oltre l’ebraismo. Il resto, di ritorno dalla tragedia del padre primitivo, non era più in alcun modo unificabile alla religione di Mosè. Il senso di colpa di quell’epoca non si limitava ormai più al popolo ebraico ma, come cupo disagio, aveva afferrato tutti i popoli del Mediterraneo, quasi presagio di sventura, il cui fondamento nessuno sapeva indicare. La storiografia dei nostri giorni parla di invecchiamento della civiltà antica; presumo che abbia colto solo cause occasionali e collaterali di questa inquietudine dei popoli. L’ebraismo chiarì la situazione di abbattimento. Nonostante le approssimazioni e le anticipazioni circostanti, fu nello spirito di un ebreo, Saulo di Tarso, il quale come cittadino romano s’era dato il nome di Paolo, che per la prima volta si fece strada la nozione: “Siamo così infelici perché abbiamo ucciso Dio Padre”. Ed è oltremodo comprensibile che non abbia potuto cogliere questo frammento di verità altrimenti che nella forma delirante della buona novella: “Siamo redenti da ogni colpa perché uno di noi ha sacrificato la sua vita per purificarci dal peccato”. Naturalmente questa formulazione non citava l’uccisione di Dio, ma il crimine da espiare con il sacrificio di una vita poteva essere stato solo un assassinio. La mediazione tra delirio e verità storica era data dalla certezza che la vittima fosse il figlio di Dio. Con la forza che le affluiva dalla fonte della verità storica, la nuova fede abbatté ogni ostacolo; al posto della beatitudine di essere gli eletti subentrò ora la redenzione liberatrice. Ma, per tornare nel ricordo dell’umanità, il dato di fatto del parricidio doveva superare maggiori resistenze dell’altro fatto che aveva costituito il contenuto del monoteismo; doveva anche sopportare una deformazione più forte. La supposizione di un peccato originale veramente incerto sostituì l’innominabile delitto.
Peccato originale e redenzione ottenuta con il sacrificio della vita divennero i pilastri della nuova religione fondata da Paolo. Deve rimanere in sospeso se nella schiera dei fratelli, ribelli al padre primitivo, vi fosse in effetti un capo o istigatore all’omicidio, o se tale figura sia stata creata più tardi dalla fantasia del poeta per rendere eroico il proprio personaggio e introdotta poi nella tradizione. Dopo aver fatto saltare la cornice dell’ebraismo, la dottrina cristiana accolse elementi da diverse altre fonti; rinunciò a più di una caratteristica del monoteismo puro; si conformò in molti particolari ai riti di altri popoli mediterranei. Fu come se l’Egitto si vendicasse un’altra volta degli eredi di Akehnaton. Merita attenzione il modo in cui la nuova religione s’adattò all’antica ambivalenza nel rapporto con il padre. Il suo contenuto principale fu sì la riconciliazione con Dio Padre, l’espiazione del delitto commesso contro di lui, ma l’altro lato della relazione emotiva compariva nel fatto che il figlio, che aveva preso su di sé l'espiazione, divenne egli stesso Dio accanto al padre e propriamente al posto del padre. Scaturito da una religione del padre, il cristianesimo divenne religione del figlio. Non sfuggi alla fatalità di doversi sbarazzare del padre.
Solo parte del popolo ebraico accettò la nuova dottrina. Coloro che si rifiutarono si chiamano ancor oggi ebrei. Differenziandosi così si sono segregati dagli altri popoli in modo ancor più netto di prima. Dalla nuova comunità religiosa, che oltre a ebrei aveva accolto egiziani, greci, siriaci, romani e infine anche germani, toccò loro sentirsi rivolgere il rimprovero di aver ucciso Dio. Espresso per esteso questo rimprovero suonerebbe: “Non vogliono accettare di aver ucciso Dio, mentre noi lo ammettiamo e siamo purificati dalla colpa”. Si vede facilmente quanta verità si nasconda dietro tale rimprovero. Quanto al perché gli ebrei non riuscirono a prender parte al progresso implicito nella confessione del deicidio, per deformata che fosse, la sua spiegazione formerebbe l’oggetto di un’indagine ad hoc. In un certo senso, comportandosi così, gli ebrei si sono fatti carico di una tragica colpa, ma l’hanno pagata cara.
La nostra ricerca ha forse illuminato alcuni aspetti della questione riguardante il modo in cui il popolo ebraico acquisì le qualità che lo distinguono. Meno chiarezza ha ricevuto il problema dei modi in cui esso ha potuto mantenere fino al giorno d'oggi la sua individualità. Ma risposte esaurienti a tali enigmi, non si possono ragionevolmente né pretendere né attendere. Tutto ciò che posso offrire è un contributo da giudicare tenendo conto delle limitazioni menzionate all’inizio.
1 J. Lacan, Ecrits, Seuil, Paris 1966, p. 765.
2 Freud ebbe in biblioteca solo la Poetica di Aristotele, da cui trasse la nozione di catarsi.
3 S. Freud, L’Uomo Mosè e la religione monoteistica. Terzo saggio (1938) in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. XVI, p. 214.
4 “Non è facile trasferire i concetti della psicologia del singolo alla psicologia delle masse, e non credo che otteniamo qualcosa introducendo il concetto di inconscio collettivo”. L’Uomo Mosè e la religione monoteistica, cit., p. 241.
5 Basti questa citazione dal primo capitolo di Avvenire di un’illusione: “Ogni singolo è virtualmente un nemico della civiltà” (1927, Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. XIV, p. 326), tema ripreso e sviluppato nel Disagio nella civiltà (1930).
6 Non sviluppo l’argomento. Considerazioni di analogia forzano il discorso verso il piano ontologico, abbandonando quello propriamente epistemico, che è il piano dell’inconscio, e forzando la comprensione analogica dell’essere con l’essere, tramite le essenze.
7 L’Uomo Mosè e la religione monoteistica, cit., p. 235.
8 Ho sviluppato il tema in termini di logica intuizionista alla Brouwer in Il tempo di sapere. Saggio sull’inconscio freudiano, Mimesis, Milano-Udine 2013.
9 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 5.1361 (1922,). La superstizione si basa sul ragionamento per analogia, approfonditamente discusso da Freud nel terzo saggio dell’Uomo Mosè, che tratta l’analogia primitivo/bambino, considerando il bambino il primitivo del presente (L’Uomo Mosè e la religione monoteistica, cit., p. 187). A sua volta il ragionamento analogico è la base del modo di pensare ontologico.
10 L’Uomo Mosè e la religione monoteistica, cit., p. 236. La citazione continua così: “Dovrebbe concorrere anche un altro fattore, per cui c'è poco di analogo e nulla di simile, qualcosa di unico e dello stesso ordine di grandezza di ciò che ne è scaturito, come appunto la religione”. L’altro fattore è l’infinito.
11 Ivi, p. 238.
12 Ivi, p. 237.
13 L’unica opera di Darwin che Freud aveva in biblioteca.
14 L’Uomo Mosè e la religione monoteista, cit., p. 187.
15 Non è difficile trovare antecedenti nella biografia di Freud: suo padre ebbe tre mogli, a quattro anni dovette lasciare la città dove era nato, fu il preferito della madre… Se Freud dice che “nella sua costruzione non c’è nulla di liberamente inventato” (L’Uomo Mosè e la religione monoteista, cit., p. 190), dice il vero. La sua biografia lo forzò a inventare certi miti.
16 Nel primo seminario su Joyce del 18 novembre 1975 Lacan parla della teoria degli insiemi come teoria dell’insieme o del sacco, compreso il sacco vuoto.
17 N. Bourbaki, Éléments de Mathématique. Théorie des ensembles, Hermann, Paris 1970, p. II.3.
18 Da intero, un insieme può essere elemento di un altro insieme. Se una collezione di elementi non è un intero, è una classe propria secondo von Neumann. È una classe propria la classe di tutti gli insiemi in matematica o la classe del femminile in psicanalisi.
19 N. Bourbaki, cit., p. II.4.
20 Ivi, p. II, 30.
21 A rigore l’argomento di Anselmo dimostra che Dio, inteso come ciò di cui non si può pensare il più grande, non esiste, perché dato un insieme si può sempre pensare un insieme più grande.
22 Ivi, p. III, 45.
23 Con il teorema d’incompletezza dell’aritmetica Gödel stabilì che la logica non unifica la matematica. Ogni logica del primo ordine lascia fuori pezzi di matematica.
24 Freud fu un medico di scuola salernitana: prima ratio est observatio.
25 [Per la traslitterazione dei nomi ebraici, egizi ecc. si sono seguiti i criteri delle pubblicazioni dell'Istituto dell’Enciclopedia Italiana.]
26 Jüdisches Lexikon, fondato da G. Herlitz e B. Kirschner, vol. 4, Berlino 1930, p. 303.
27 J. M. Breasted, The Dawn of Conscience, Londra 1934, p. 350.
28 lvi, p. 334. Nondimeno, dall’antichità a oggi, il sospetto che Mosè fosse egizio fu avanzato più volte, pur senza riferimento al nome.
29 O. Rank, Der Mythus von der Geburt des Helden, nella collana Schriften zur angewandten Seelenkunde”, Franz Deuticke, Vienna 1909. Sono lontano dallo sminuire il valore degli originali contributi di Rank alla questione.
30 Menzionato nel racconto di Flavio Giuseppe [Antichità giudaiche, lb. 2, 205].
31 Ivi, osservazione, p. 80.
32 Così per esempio E. Meyer in Die Mosessagen und die Leviten, Sitzber. B. Akad. (Phil. – Hist. Kl.), vol. 31, 640 (1905): “Il nome Mosè è probabilmente egizio e il nome Pinchas della stirpe sacerdotale in Silo… è senza dubbio egizio. Ciò non dimostra naturalmente che queste stirpi fossero di origine egizia, ma che avevano certo relazioni con l’Egitto”. Possiamo allora chiederci: a che tipo di relazioni qui occorre pensare?
33 “Imago”, voI. 23, I, 1937.
34 Non abbiamo idea del numero dei partecipanti all’esodo.
35 J.H. Breasted lo chiama “il primo individuo della storia umana”. [A History of Egypt, London 1906 p. 116].
36 Quanto segue proviene principalmente dalle descrizioni di Breasted nella sua History of Egypt e in The Dawn ot Conscience, Londra 1934, e dalle pagine sullo stesso argomento nella Cambridge Ancient History, vol. 2 [Cambridge 1924; i capitoli di storia egizia sono di J.H. Breasted].
37 Forse anche la stessa Nefertiti, amata sposa di Amenofi.
38 Breasted, History of Egypt, cit., p. 360: “Ma, per quanto evidente possa essere la provenienza della nuova religione di Stato da Eliopoli, essa non era semplicemente adorazione del sole; la parola Aton era usata al posto dell’antica per ‘dio’ (nuter), e il dio è chiaramente distinto dal sole materiale”. “È evidente che il re stava deificando la forza che con il sole si faceva sentire sulla terra. Dawn of Conscience, cit., p. 279. Analogo il giudizio di A. Erman su una formula in onore del dio: “Sono parole il più possibile astratte che non rendono onore all’astro in sé, ma all’essenza che in esso si manifesta.” (La religione egizia, 1905).
39 Breasted, History of Egypt, cit., p. 374.
40 Il nuovo nome del re significa pressappoco la stessa cosa del precedente: “Il dio è contento”. Confronta i nomi germanici Gotthold [Dio propizio], Gottfried [Dio placato].
41 Là fu trovata nel 1887 la corrispondenza, così importante per la conoscenza storica, tra i re egizi e i loro amici e vassalli d’Asia.
42 V. History of Egypt, p. 363.
43 Secondo A. Weigall, The Life and Times of Akhnaton (Londra 1922, p. 120 sg.), Akhenaton non voleva sentir parlare dell’inferno, con i suoi terrori contro cui occorreva difendersi con innumerevoli formule magiche: “Akhenaton gettò nel fuoco tutte queste formule. Geni, spettri, spiriti, mostri, semidei, demoni e lo stesso Osiride con tutta la sua corte furono dati alle fiamme e ridotti in cenere”. [Freud cita in inglese].
44 “Akhenaton non permise di scolpire alcuna immagine di Aton. Il vero Dio, diceva il re, non aveva forma; e mantenne questa opinione per tutta la vita.” (ivi, p. 103).
45 “Non si fece più parola di Osiride e del suo regno”. (Erman, cit., p. 70). “Osiride è completamente ignorato. Non è mai menzionato in alcun documento di Akhenaton o nelle tombe di Amarna”. (Breasted, Down, cit., p. 291). [Freud cita in inglese].
46 Solo pochi passi in Weigall: “Il dio Atum, che designava Ra come sole al tramonto, aveva forse la stessa origine di Aton, generalmente adorato nella Siria settentrionale”; e “una regina straniera con il suo seguito poté pertanto sentirsi più attratta da Eliopoli che da Tebe” (cit., pp. 12 e 19).
47 Procedendo con la tradizione in modo così libero e arbitrario, utilizzandola per confermare, quando ci serve, e rigettandola senza esitazione, quando ci contraddice, sappiamo bene di esporci a severe critiche di metodo e d’indebolire la forza probante della nostra esposizione. Ma è l’unico modo di trattare un materiale la cui attendibilità – lo si sa con precisione – è stata gravemente compromessa da tendenze deformanti. Si spera di trovare qualche giustificazione più avanti, quando se ne rintracceranno i motivi segreti. In ogni caso non è possibile giungere alla certezza e del resto possiamo dire che tutti gli altri autori hanno proceduto allo stesso modo.
48 Se Mosè fu un alto ufficiale, è ancor più facile per noi capire il ruolo di condottiero che assunse per gli ebrei; se fu un sacerdote, era ovvio presentarsi come fondatore di religione. In entrambi i casi avrebbe continuato la professione precedente. Un principe di casa reale poteva essere facilmente sia governatore sia sacerdote. Nel racconto di Flavio Giuseppe (Antichità giudaiche [lb. 2, 238 sg.]), che accetta la leggenda dell’esposizione ma sembra conoscere altre tradizioni oltre la biblica, Mosè condusse, come comandante egizio, una vittoriosa campagna militare in Etiopia.
49 Ciò sarebbe avvenuto un secolo prima di quanto ammesso dalla maggior parte degli storici, che lo spostano nella diciannovesima dinastia sotto Meneptah o forse un po’ dopo, perché le cronache ufficiali sembrano includere l’interregno nel regno di Haremhab.
50 Erodoto, che visitò l’Egitto intorno al 450 a.C., nel racconto del suo viaggio attribuisce al popolo egizio una caratteristica che mostra sorprendente somiglianza con aspetti ben noti del tardo giudaismo: “Sono in ogni rispetto più religiosi di tutti gli altri uomini, da cui si distinguono anche per parecchie costumanze. Così per la circoncisione, che furono i primi a introdurre per ragioni di pulizia; inoltre per il loro onore per i maiali, che certo è connesso con il fatto che Seth, sotto forma di nero verro, ferì Oro; e infine e soprattutto per il rispetto per le vacche, che essi mai mangerebbero o sacrificherebbero, perché ciò offenderebbe Iside dalle corna di vacca. Per questo nessun egizio e nessuna egizia bacerebbe un Greco o userebbe il suo coltello, il suo spiedo o il suo paiolo o mangerebbe carne di bue, per sé puro, che fosse stata tagliata con un coltello greco… guardano dall’alto in basso con ristretta arroganza gli altri popoli, che non sono puliti e non sono come loro vicini agli dei” (da Erman, cit., p. 181).
Non vanno naturalmente dimenticati i paralleli che si riscontrano nella vita del popolo indiano. Infine, che cosa ha suggerito al poeta ebreo Heine, nel diciannovesimo secolo, di lamentarsi della propria religione come della “piaga che ci siamo trascinata dietro dalla valle del Nilo, l’insana credenza vetero-egizia”?
51 In Giuseppe Flavio lo stesso aneddoto in forma leggermente diversa.
52 Ed. Meyer, “Die Israeliten und ihre Nachbarstämme” (Gli Israeliti e i loro discendenti), 1906, pp. 60 sg.
53 In alcuni passi del testo biblico si parla ancora di Yahweh disceso dal Sinai a Meribah-Qadesh.
54 Ivi, pp. 38, 58
55 Ivi, p. 49.
56 Ivi, p. 449.
57 Ivi, p. 451.
58 Ivi, p. 49.
59 Ivi, p. 72.
60 Ivi, p. 47.
61 E. Sellin, “Mose und seine Bedeutung für die israelitisch-jüdische
Religionsgeschichte” (Mosè e la sua importanza per la religione giudeo-israelitica), Lipsia 1922.
62 Questa supposizione ben s’accorda con quanto dice Yahuda a proposito delI’influsso egizio sulla letteratura ebraica primitiva. Vedi A.S. Yahuda, “Die Sprache des Pentateuch in ihren Beziehungen zum Ägyptischen” (Il linguaggio del Pentateuco in riferimento all’egizio), Berlino 1929.
63 Gressmann, cit., p. 54.
64 Encyclopaedia Britannica, 11 ed. (1910) vol. 3, voce: “Bible”.
65 Yahwista e Elohista furono per la prima volta distinti nel 1753 da Astruc.
66 È storicamente sicuro che la fissazione definitiva del tipo ebraico fu il risultato della riforma di Esdra e Nehemia nel V secolo prima della nascita di Cristo, quindi dopo l’esilio sotto il dominio persiano tanto ben disposto verso gli ebrei. Secondo i nostri calcoli erano trascorsi circa 900 anni dalla comparsa di Mosè. In questa riforma furono presi seri provvedimenti per assicurare la santità del popolo intero; la separazione dai popoli vicini fu resa effettiva vietando i matrimoni misti; il Pentateuco, il vero libro della legge, fu portato in forma definitiva e fu compiuto il rimaneggiamento noto come “Codice sacerdotale”. Pare sicuro tuttavia che la riforma non introdusse nuove finalità, ma accolse e consolidò sollecitazioni preesistenti.
67 Cfr. Yahuda, cit..
68 Sottoposti al divieto delle immagini, avevano un motivo in più per abbandonare la scrittura ideografica dei geroglifici, adattando la scrittura dei suoi segni a esprimere una nuova lingua.
69 Le restrizioni nell’uso di questo nome non diventano così più comprensibili ma ben più sospette.
70 Yahweh fu indubbiamente un dio vulcanico. Per gli abitanti dell’Egitto non c’era motivo di adorarlo. Non sono certo il primo a essere colpito dalla consonanza del nome Yahweh con la radice dell’altro nome divino lu-piter (lo-vis). Il nome Iehohanan, all’incirca [come il tedesco] Gotthold e Annibale, l’equivalente punico, composto usando l’abbreviazione di Yahweh ebraico, è divenuto, nelle forme Johann, John, Jean, Juan, il nome preferito della cristianità europea. Gli Italiani, che lo rendono con “Giovanni” e chiamano “giovedì” un giorno della settimana, riportano alla luce una somiglianza che eventualmente non significa nulla o forse moltissimo. Si aprono qui ampie prospettive, anche molto incerte. Sembra che, in quei secoli oscuri e difficilmente accessibili alla ricerca storica, i paesi del bacino orientale del Mediterraneo siano stati teatro di frequenti e violente eruzioni vulcaniche, che dovettero suscitare una fortissima impressione sugli abitanti. Evans suppone che anche la distruzione definitiva del palazzo di Minosse a Cnosso conseguì a un terremoto. A Creta, come verosimilmente in tutto il mondo dell’Egeo, si venerava allora la grande divinità materna. Accorgersi che non era in grado di proteggere la propria casa dagli attacchi di una potenza più forte fu forse una delle cause per cui dovette cedere il posto a una divinità maschile, e in tal caso il dio vulcanico aveva il primo titolo per sostituirla. Zeus è in fondo da sempre lo “scuotitore della terra”. È meno dubbio che in quei tempi oscuri le divinità materne fossero sostituite da dei maschili (forse originariamente figli?). Particolarmente impressionante fu la sorte di Pallade Atena, che certamente era la forma locale di divinità materna, ridotta a figlia dal rivolgimento religioso, privata della propria madre ed esclusa per sempre dalla maternità, perché costretta a rimanere vergine.
71 A quei tempi un altro modo d’influire era quasi impossibile.
72 È davvero notevole quanto poco si senta parlare, nel corso della plurimillenaria storia egizia, di cacciate violente o uccisioni di faraoni. Il confronto con la storia assira, per esempio, non fa che accrescere la meraviglia. Naturalmente ciò può dipendere dal fatto che la storia scritta dagli egizi serviva esclusivamente a intenti ufficiali.
73 E. Meyer, Die Israeliten, cit., pp. 222 sg.
74 I suoi inni mettono l’accento non solo sull’universalità e unicità di Dio, ma anche sulla sua amorevole sollecitudine per tutte le creature; essi invitano a gioire della natura e a goderne la bellezza. Vedi Breasted, Dawn of Conscience, cit., pp. 281-302.
75 Sellin, cit., p. 52.
76 Paul Volz, “Mose: ein Beitrag zur Untersuchung über die Ursprünge der Israelitischen Religion” (Mosè: un contributo alla ricerca sulle origini della religione israelitica), Tübingen 1907, p. 64.
77 Vol. XXIII, 1 e 3.
78 Non condivido l’opinione del mio coetaneo Bernard Shaw, che gli uomini farebbero qualcosa di buono soltanto potendo vivere trecento anni. Prolungando la durata della vita non si otterrebbe nulla; si dovrebbero cambiare dalle fondamenta molte altre cose nelle condizioni della vita umana.
79 Inizio riassumendo i risultati del mio secondo saggio, puramente storico, su Mosè, che non saranno qui sottoposti a nessuna nuova critica, perché formano la premessa delle discussioni psicologiche che ne derivano e continuano a farvi ritorno.
80 Si chiamava così, per esempio, anche lo scultore il cui laboratorio fu trovato a Tell-el-Amarna.
81 Ciò corrisponderebbe alla quarantennale peregrinazione nel deserto secondo il testo biblico [Numeri, 14, 8].
82 E. Auerbach, “Wüste und Gelobtes Land” (Deserto e terra amata), Berlino, 2 vol., 1932 e 1936.
83 La stessa considerazione vale per il caso ben strano di William Shakespeare da Stratford.
84 Questa è la situazione drammatica da cui parte Macaulay nei suoi “Lays of Ancient Rome” [Canti di Roma antica, 1842]. Assume le vesti di un cantore che, afflitto per le torbide lotte intestine tra partiti nel suo tempo, rinfaccia ai suoi ascoltatori lo spirito di sacrificio, l’unità e il patriottismo dei loro antenati.
85 Quindi è assurdo affermare che si esercita la psicanalisi, escludendo dalla propria indagine e considerazione proprio queste epoche remote, come capita da certe parti.
86 Ernst Jones fa notare in proposito che il dio Mitra che uccide il toro potrebbe raffigurare questo capo che si vanta della sua impresa. È noto che il culto di Mitra contese a lungo la vittoria finale al giovane cristianesimo.
87 Goethe, lsrael in der Wiiste [Israele nel deserto], edizione di Weimar, vol. 7, p. 170.
88 Si vedano in proposito le note pagine di Frazer nel Ramo d'oro, parte terza.
89 Schiller, Die Götter Griechenlands [Gli dei della Grecia].
90 L’insulto così frequente nell’antichità: gli Ebrei sono “lebbrosi” (v. Manetone), ha senza dubbio il senso di una proiezione: “Si tengono lontani da noi come se fossimo lebbrosi”.
91 Protesto contro il fraintendimento, come se dicessi che il mondo è tanto complesso che qualsiasi asserzione si faccia deve cogliere in qualche punto un pezzo di verità. No, il nostro pensiero si è riservato la libertà di rintracciare dipendenze e connessioni non corrispondenti alla realtà effettuale, dote chiaramente apprezzata al massimo e usata in modo così copioso dentro e fuori la scienza.
92 V. Frazer, cit.
93 Anche qui la parola tocca a un poeta. Per spiegare il suo legame, inventa: “In tempi lontani fosti già mia sorella o mia sposa” (Goethe, edizione di Weimar, vol. 4, p. 97)
94 [Forma religiosa in cui il fedele si rivolge a una sola e suprema divinità, senza tuttavia avere il concetto di un unico dio. Ndt]
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