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È VERO TRANSFERT? Transfert e realtà in Nunberg

2 Mag 21

Di SUSANNA-PREMATE

Cosa ci porta a frequentare, per un tempo più o meno lungo, uno psicoanalista? Cosa ci fa bussare alla sua porta almeno un paio di volte a settimana a distanza di anni? Cosa non ci permette di deviare strada e andare a divertirci o di restare a casa a dormire?

La risposta a tutte queste domande é riassumibile in una sola parola: transfert.

O meglio, lo era finché non mi sono imbattuta nella lettura dello psicoanalista Nunberg, che complica le cose. Come se già parlare di transfert e pensarlo in tutte le sue molteplici sfaccettature fosse una cosa semplice! Anche se ultimamente non é più di moda, complicare, complessificare, articolare ed approfondire un fenomeno é l'unico modo per cercare di attraversarlo realmente. Quindi, forse, dovrei dire: "Grazie anche a Nunberg!". Questo psicoanalista propone una distinzione tra propensione, disposizione o facilità al transfert (readiness) ed il transfert vero e proprio. La readiness consiste nella spinta iniziale che può portare qualunque persona a chiedere aiuto ad uno psicoanalista. In questo caso, il paziente può reagire molto negativamente alla maggior parte dei contenuti e dei modi dell'analista. Può volerlo correggere e far sentire sbagliato. In altre parole, con questi tentativi correttivi cerca di riattualizzare una propria figura genitoriale nell'analista. Al contrario, nel transfert vero e proprio, la figura genitoriale accade, si manifesta in maniera automatica all'interno dello psicoanalista.

Ok, non si é capito niente, ma per fortuna Nunberg ha deciso di farci degli esempi! Una paziente che corregge continuamente il suo psicoanalista per quello che dice e cosa dice può essere annoverata sotto il fenomeno di readiness. Al contrario, una paziente che chiude gli occhi per sentire la voce dello psicoanalista, che gli ricorda il padre, é transfert vero e proprio. É ciò che cerca. É proiezione e spostamento. Numberg ci tiene a sottolineare il fatto che, a differenza di altri analisti, considera il transfert non solo come uno spostamento di contenuti emotivi, ma anche come proiezione perché é in gioco la figura dello psicoanalista, sulla quale il paziente proietta le proprie figure prime.

Così, sembrerebbe tutto più chiaro. Eppure, qualcosa non mi torna e fin dalle prime righe la mia mente si é affollata di domande.

Cosa differenzia la readiness dal transfert vero e proprio ma negativo? Ammesso che esistesse questa readiness, é un fenomeno immodificabile oppure può evolvere in transfert vero e proprio? E se sì, come? In caso contrario, perché un paziente dovrebbe essere attratto dalla readiness e non dal transfert vero e proprio? Forse per masochismo? Si verrebbe, quindi, a creare una situazione paradossale, secondo la quale per curarmi dal masochismo devo già essere al di fuori di esso! Inoltre, il far sentire inadeguato lo psicoanalista quando é readiness e quando é semplicemente una proiezione del proprio vissuto? Quando é invidia del fallo? Quando é mancata accettazione dei ruoli? E ancora, cosa ne é in tutto questo del 'non sapere' Lacaniano? Perché uno psicoanalista dovrebbe essere sicuro che quello che dice e come lo dice sia utile al proprio paziente? Personalmente, sono spesso invasa dal timore che le mie affermazioni (o domande) possano suscitare nel paziente reazioni negative e a volte mi sorprendo io stessa quando mi dicono: "Sí, é proprio quello il termine esatto!". Infine, mi ha interrogata anche la distinzione sulla ricerca di una propria figura genitoriale nello psicoanalista, ricerca che può essere intenzionale (readiness) o accadere e manifestarsi spontaneamente (come l'amore). Infatti, nell'amore, non ho bisogno di architettare come far dire qualcosa a qualcuno o come fargliela dire in un modo che mi piace (e magari riattualizza mio padre!), ma semplicemente succede. Per contrastare la readiness, dunque può servire anche sviluppare sensibilità per capire inconsciamente quale posto tenere nel transfert? Un analista, dopo quanti interventi uguali a se stessi, può capire che non c'entrano niente con le figure prime del paziente? Eppure, é strano perché in psicoanalisi Lacaniana l'analista dovrebbe assumere il posto dell'oggetto e travestirsi di volta in volta con abiti diversi per ascoltare sempre più e sempre meglio il discorso del paziente. Altrimenti, considerazione che mi viene da fare, saranno i pazienti a prendere il posto di oggetti tutti uguali tra loro se l'analista rimane per tutti identico e fisso nel suo proprio discorso, sebbene prevalentemente non fatto di parole. Non basta stare in silenzio per fare gli oggetti, ma bisogna vivere quel silenzio con quel soggetto. Insomma, il mio discorso mi sta portando verso una non accettazione dell'esistenza della readiness. Non accetto che non ci sia nemmeno un buco o una fessura tra due soggetti che non permetta un cambio di posizione ed un allineamento al transfert vero e proprio. Forse con il tempo cambieró idea, ma al momento non accetto che non si riesca ad entrare realmente nel discorso di un soggetto. Sono idealista? E, anche quando i pazienti non ci piacciono o portano questioni che non ci interessano, siamo chiamati a trovarne la via, anziché liquidare la faccenda dicendo: "Mi sa che hai sbagliato analista! La nostra era solo readiness e non transfert vero e proprio!". Possiamo sempre entrare in un discorso che sembra non appartenerci, scorrendo o immaginando ciò che di noi potrebbe esserci in esso. Forse, il vero problema é quando il discorso del paziente sembra essere così diverso dal nostro e non appartenerci, ma in realtà la questione portante é la nostra stessa radice vivente. Quante readiness si sono sprecate per non curanza o disattenzione?

Readiness? No grazie, io preferisco parlare d'incompetenza!

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