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La “ripresa” estatica di Elvio Fachinelli

29 Set 21

Di Sergio-Benvenuto

Quale cosa tra le cose, ogni cosa è ugualmente insignificante; quale mondo, ognuna è ugualmente significante. Se ho contemplato la stufa e mi si viene a dire: ma adesso non conosci che la stufa, certo il mio risultato sembra esiguo. Così infatti la si mette come avessi studiato la stufa tra le molte, molte cose del mondo. Ma se ho contemplato la stufa, essa era il mio mondo, e di contro tutto il resto scoloriva.”

                                                         L. Wittgenstein[1]

 

Ogni cosa è in se stessa, isolata, staccata da tutto il resto. In una sfera. Il mio sguardo è questa sfera.”

                                                         E. Fachinelli[2]

 

1.

          Molti interventi, in questo convegno, si riferiscono all’ultima parte del pensiero di Elvio Fachinelli, in particolare a La mente estatica. Segno dei tempi. Sfortunatamente una nube giornalistica, e in parte storiografica, circonda Fachinelli e lo caricatura: quella dello “psicoanalista del 68 e dintorni”.

          Certo l’impegno politico-culturale di Fachinelli, soprattutto negli anni ‘60 e ‘70, fu vistoso, denso, attraente, ma andrebbe riletto come ripresa di alcuni grandi movimenti di pensiero mitteleuropei della prima metà del secolo[3]. Cercava di trovare, in italiano, una scrittura di cui i Minima Moralia di Adorno, la Parigi capitale del XIX° secolo di Benjamin, certe opere di Bataille – e più di recente di Baudrillard – gli offrivano il modello. Anche se ovviamente “la legna da ardere non spiega di per sé il divampare del fuoco”[4]. I suoi interventi giornalistici, in apparenza reazioni adesive all’attualità, riprendevano la riflessione critica sulla contemporaneità di Walter Benjamin. Ovvero, voleva guardare il mondo che si trasforma sotto i nostri occhi non con le lagnose lenti fumées della spocchiosa denuncia dell’oggi, ma con una distanza che svelasse, del proprio tempo, la gioia e l’orrore. Gioia e orrore: proprio i termini che illustrano l’esperienza estatica.

Ha egli cercato di guardare estaticamente la contemporaneità? In ogni caso, la sua si voleva una riflessione sul presente. nei cui confronti si intrecciavano ironicamente simpatia e diffidenza. I suoi interventi preannunciavano l’effervescenza, nei campus anglo-americani, dei Cultural Studies – che però, ne sono sicuro, avrebbe canzonato per il loro schematismo.

          Non amava quella Arcadia nazional-popolare che negli anni ‘70 dominò il gusto delle masse di sinistra: passione erudita per le canzoni popolari, per vecchie feste contadine, per il folklore delle ‘culture subalterne’. Fachinelli non si crogiolava nel rimpianto agro-pastorale, insomma, non “pasoliniano”. Una volta andò a seguire una serie di performance organizzate da Eugenio Barba – all’epoca uno dei maestri indiscussi del “teatro povero” – in una zona rurale del bergamasco. Ne tornò molto deluso. Mi disse più o meno: “Barba ci ripropone le balere e le mazurche, e non si rende conto che questo mondo bucolico ormai esiste solo nelle menti degli intellettuali delle metropoli. Gli ex-contadini sono acculturati dalla televisione, la cultura popolare oggi è Mike Bongiorno non le danze in costume. Vidi nella folla F.[5] e mi avvicinai per manifestargli le mie perplessità: ma vi rinunciai ben presto, lo vidi così estasiato per lo spettacolo…” Indubbiamente Fachinelli non era un conservatore di sinistra.

La prima volta che mi parlò di sua figlia Giuditta, che aveva allora pochi mesi, trovò importante dirmi questo: che la bimba, maneggiando lo zapping della TV, aveva capito la relazione tra pulsante e cambiamento di programma. Non riportò questa competenza della bimba al suo rapporto col seno materno, all’oggetto transizionale, ecc.: evidentemente era la precoce iniziazione della bambina alla tecnologia che lo affascinava. E aggiunse: “Una bambina che già fa così, da grande la penserà diversamente da noi.” Ora Giuditta è grande, la conosco bene, e pensa davvero così diversamente da suo padre e me? Probabilmente sì (anche se forse non lo ammetterebbe).

Fachinelli non pensava alla tecnologia come al Bau Bau, all’orrore che ci devasta, ma come al brodo dolce-amaro nel quale dobbiamo vivere. Credo che suo modello fosse L’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Benjamin[6], un inno alle nuove tecnologie di riproduzione (foto, cinema, ecc.) allora nuove: forse pensava che sua figlia fosse nell’Epoca dello Spettacolo come Variabilità Tecnica. Oggi la riproducibilità dell’opera non ci fa né caldo né freddo: sappiamo che tutto è riproducibile – persino la vita biologica. Quello che invece ci assilla e ci turba è la fulminea obsolescenza, la caducità, di ogni prodotto. Viviamo nell’epoca dell’opera – anche letteraria e scientifica – usa-e-getta. Nulla resta, panta rei. Il futuro continuamente divora non solo il passato, ma anche il presente, che perde la sua estatica stasi.

Non a caso Fachinelli, così già sensibilizzato alla volatilità tecnologica – alla società liquida, come si usa straripetere oggi – conclude la sua opera parlando di estasi. Rivendica cioè una passività fondamentale come controcanto a un mondo tecnologico sfrenatamente attivistico. Da una parte il remote control della bimba che cambia le immagini a suo piacimento, dall’altra invece un no control passivo, anti-pragmatista, con la natura che ci attraversa.

 

2.

Negli anni ‘70 alcuni – anche di sinistra – mi rimproveravano “ma come fai a collaborare con quell’estremista di Fachinelli?” In effetti, avevo da tempo abbandonato gli astratti furori del radicalismo marxista, e propendevo verso progetti politici più moderati, meno sublimi. Eppure il radicalismo libertario di Fachinelli non mi irritava perché non aveva nulla del dogmatismo presuntuoso di tanti allora, non era certezza spocchiosa e ingenua nelle ‘corrette’ interpretazioni: vi vedevo piuttosto un bisogno dionisiaco, quasi infantile, di giocare. Il formicolio dei movimenti di allora, il loro variopinto bailamme, lo divertiva. Sentivo che la sua sensibilità quasi estetica allo Zeitgeist era sempre più forte delle sue convinzioni, dalle quali potevo dissentire senza che per questo mi tenesse il muso. Ad esempio, gli dissi di non condividere affatto la sua simpatia per i comunisti portoghesi nel loro attacco al socialista Soares, dopo la Rivoluzione dei Garofani[7], verso il 1976. Il suo sinistrismo – fin quando è durato – non è mai stato torvo, escludente. Di fatto bersaglio preferito della sua ironia era invece un certo auto-compiacimento predicatorio degli “extra-parlamentari”. Elvio era satirico, anche in fondo di se stesso.

Negli anni ‘70 parlammo di Dario Fo, all’epoca all’apice della militanza e della popolarità. Mi confidò che si annoiava ai suoi recital: “Fo è bravo ma esige la complicità politica del pubblico – disse più o meno – per cui si deve ridere come atto militante. Se non ridi, sei quasi un nemico di classe.” Non lo incantavano i giullari virtuosi e costruttivi.

Elvio non voleva essere affatto un predicatore nel deserto, la mondanità gli piaceva, non mancava di una certa vanità: amava scrivere sui grandi media come “L’Espresso”, parlare a folle – certo selezionate, ma sempre folle. Voleva convincere tante persone intelligenti, non la cerchia dei pochi e cari allievi che ascoltano con la bocca aperta il Maestro che pontifica dalla sedia a dondolo. Dopo aver trascritto la nostra conversazione sulla SPI[8], Elvio pensò subito di farla pubblicare su un periodico diffuso. Io proposi il prestigioso trimestrale Psicoterapia e Scienze Umane, al che Elvio replicò “Così sarebbe seppellirla”. Fu contento invece quando uscì, anche se in forma ridotta, su “L’Espresso”. Ma credo che anche se la avessi proposta all’International Journal of Psychoanalysis – la rivista dove qualunque psicoanalista SPI sogna di pubblicare – avrebbe preferito “L’Espresso”. Perché il suo pubblico di riferimento non era solo quello di psicologi e psicoanalisti. Come tutti gli intellettuali veramente ambiziosi, non voleva rinchiudersi nel ghetto confortevole ma angusto dei professionals.

E si divertì quando gli feci sapere che – dopo la pubblicazione della conversazione su “L’Espresso” – Francesco Corrao, uno dei massimi leader della SPI, ne era infuriato, dato che Elvio vi aveva criticato a fondo il sistema di training della sezione italiana dell’IPA. Si capiva che mandare in bestia i majores della sua stessa società era uno dei suoi più deliziosi – e affatto segreti – piaceri. Elvio pensava insomma che i grandi media fossero il veicolo indispensabile di un mutamento culturale. Temeva ma non disprezzava l’inconscio collettivo, un vero analista non disprezza mai l’inconscio.

Un matrimonio difficile ma indissolubile quello di Fachinelli con la SPI. Pensò anche di proporre un modello di formazione degli analisti alternativo a quello SPI, di cui mi parlò a lungo: la sua idea era che una scuola di psicoanalisi non dovesse essere monologica, imperniata su una sola teoria e su un solo tipo di pratica, ma dovesse iniziare a una moltitudine di prospettive. All’epoca tanti analisti SPI erano terrorizzati dalla fortuna della psicoterapia sistemico-relazionale, applicata soprattutto alle famiglie: Fachinelli invece diceva “ma come si può essere psicoanalisti oggi senza conoscere Gregory Bateson?” Probabilmente quella sua magnifica apertura era utopista: i giovani hanno bisogno di una scuola, di entrare in un sistema di Pensiero Unico – si può solo sperare che poi, invecchiando, si pluralizzino. Lui voleva anticipare drasticamente l’apertura che una certa maturazione (ahimè, non tutti maturano) produce.

Alla metà degli anni ‘70, quando Marco Pannella lanciò le sue campagne politiche a forza di digiuni, Fachinelli ne colse l’importanza. Mi lasciai sfuggire con lui un commento ingenuamente banale: “Pannella è il nuovo Danilo Dolci”. Elvio si mise a ridere: “Ma no! Dolci era un santo laico che si faceva utilizzare, non capiva la politica che si tesseva alle sue spalle. Pannella invece non è un ingenuo, sa usare i media, capisce la società dello spettacolo.” La sua simpatia andava più all’abile agitatore che sa comunicare con le masse inventando tattiche inedite, che non alla mera testimonianza solitaria dell’anima bella. Il concetto così cristiano di “testimonianza” – di martirio – non gli piaceva proprio. Scommetto che, se avesse conosciuto Berlusconi, ne avrebbe odiato la retorica e l’arroganza da Uomo del Destino, ma ne avrebbe ammirato il talento nell’usare i media per raggiungere i suoi scopi. Parlando di Mussolini, mi disse che la sinistra italiana all’epoca e anche oggi non aveva capito nulla del suo fascino, innanzi tutto erotico. Secondo lui, un libro come Eros e Priapo di Gadda, in apparenza un’invettiva anti-mussoliniana, era invece documento del suo difficile distacco dalla seduzione omosessuale che il Duce aveva esercitato su di lui. Fachinelli non disprezzava gli avversari che capivano bene l’inconscio delle masse.

Sono addirittura convinto che la sua vena caustica e satirica oggi avrebbe preso di mira – alla Nanni Moretti – soprattutto i politici di sinistra, così separati dall’”inconscio collettivo”, patetici boy scout in cerca della buona azione quotidiana, lontani dall’immaginario così scorretto e “freudiano” che agita la gente, ignari degli effetti prodotti dal dominio dei media e dell’entertainment. Avrebbe detto che la sinistra italiana appartiene a una vecchia epoca, nella quale il contenuto delle idee – che la massa della gente non capisce, anche perché non sa pensare – appariva più importante dello spettacolo mediatico, di cui invece Berlusconi è maestro.

Negli anni 80 si staccò nettamente dal mondo radical. In una telefonata nel 1981 (molto prima quindi del 1989) mi sorprese dicendomi: “Gli intellettuali non si sono ancora accorti della catastrofe del secolo: la fine del comunismo!” Aveva capito che il secolo sarebbe stato breve. Mi rallegrai del suo cambiamento, ora eravamo sulla stessa lunghezza d’onda politica. Per un breve periodo si avvicinò persino – horribile dictu! – al partito socialista. Andò anche a un congresso nazionale socialista, credo verso il 1985, ma ne tornò disgustato: il culto della personalità di Craxi gli parve una riedizione dello stalinismo del PCI di un tempo.

Non è un caso che per volontà testamentaria eleggesse come curatore postumo delle sue opere Roberto Calasso, un intellettuale mai stato di sinistra, che certo non ama la psicoanalisi, affascinato piuttosto dalle origini ancestrali delle grandi civilizzazioni dell’Oriente e dell’Occidente. La sua stima per Calasso – e per Bobi Bazlen, mi disse che voleva riprendere la sua concisione di scrittura in una nuova rivista, Il Voglio (che mai uscì) – era certo segno della sua conversione a una dimensione meno attualista, più lungimirante, della vita e della storia.

Storicista appassionato, viveva intensamente il presente, ma capiva anche che il presente fugge sempre via, altrove.

 

3.

Ogni tanto, qualcuno mi dice “Ma tu hai una ambivalenza nei confronti della psicoanalisi! Come fai ad esercitare come analista?” È vero. E mi rendo conto che questa ambivalenza mi viene proprio da Fachinelli. Lui credeva molto nell’esperienza psicoanalitica, molto meno nella Psicoanalisi – e ancor meno nelle istituzioni psicoanalitiche, di qualsiasi indirizzo. Perciò, quando Lacan gli propose di divenire il leader della nuova società lacaniana in Italia, Fachinelli respinse il lusinghiero invito: “A che pro fondare un’istituzione? A che pro ripetere l’errore di Freud?”, mi disse.

Una volta fu intervistato per televisione in un programma di Nelo Risi dedicato alle psicoterapie. Qui citò Karl Kraus, uno dei più brillanti sbeffeggiatori della giovanissima psicoanalisi: “Hanno la stampa, hanno la Borsa, ora hanno anche l’inconscio!”[9] Uno psicoanalista che parla della psicoanalisi in questi termini! Tuttavia citando quell’aforisma non mimava certi “psichiatri democratici” allora in auge, che denunciavano la psicoanalisi come una tecnica borghese subdolamente al servizio del Capitale. Piuttosto egli intendeva denunciare un polo della pratica psicoanalitica, che forse vedeva profilarsi persino nella propria pratica, quella che porta a integrare la soggettività anomala, debordante, nei comodi binari di una normalità – non certo apollinea, ma grigia. Integrazione nel doppio senso: che (1) integra in un Sé coeso (come si dice oggi sulla scia di Kohut) le parti scisse e bislacche del Sé, e che (2) così integra l’individuo nella funzionante coesione collettiva. Ma sapeva che questa ricaduta integrativa dell’analisi era, in qualche modo, inevitabile. La doppia faccia della psicoanalisi consiste nel fatto che da una parte essa rafforza certe difese e quindi di fatto integra il paziente in uno scambio sociale accettabile (lo emancipa autonomizzandolo) e dall’altra lo aiuta a cedere le difese e a regredire nel transfert, ad abbandonarsi perdutamente all’Altro perdendo in parte – almeno per un tempo – la sua autonomia. La psicoanalisi ha avuto sempre una doppia faccia: trasgressiva e integrativa, dionisiaca e apollinea. È un errore credere che sia solo una cosa, o l’altra.

Così, il suo ultimo libro, La mente estatica, si conclude con una doppia critica ai suoi due principali maestri in psicoanalisi: Sigmund Freud e Jacques Lacan. Una presa di distanza dalla psicoanalisi che preferiva? Un tentativo di superare – da allievo ambizioso – i padri-maestri proponendo qualcosa di “suo” che andasse oltre? Tendo piuttosto a pensare che egli volesse mettere a nudo quell’ambiguità costitutiva della psicoanalisi, anche di quella migliore, anche della propria. In termini molto crudi: la psicoanalisi inevitabilmente ci difende da una pericolosa “gioia eccessiva”, certo per evitarci guai. Ma così facendo ci fa mancare qualcosa di vitale. L’analisi protegge troppo dall’hybris che essa stessa scatena.

Potremmo mostrare che questa ambiguità – una sorta di auto-ambivalenza – scandisce lo sviluppo storico della psicoanalisi. Basti pensare alle vicissitudini di concetti cruciali come transfert prima e contro-transfert poi. Freud scopre il transfert come una nevrosi iatrogena, come un increscioso eccesso che si frappone alla serena illuminazione analitica: ma poi egli stesso deve convenire che questo ostacolo alla cura è una condizione fondamentale della cura stessa. Evoluzione simile con il contro-transfert: all’inizio esso è il cadere dell’analista nella trappola transferale, il suo non riuscire a mantenere la posizione distaccata e apatica che gli si addice. Poi, grazie alla ripresa kleiniana, diventa uno strumento di insight, un “errore” per il quale è essenziale che l’analista passi, perché senza questa caduta egli non potrebbe cogliere fino in fondo ciò che il transfert, come ripetizione, attualizza e rivela.

          Fachinelli stesso rivivrà questa doppia faccia – negativa e positiva – del processo psicoanalitico attraverso il concetto da lui stesso proposto: la claustrofilia. Da una parte – all’inizio – egli denuncia la claustrofilia (il rapporto esclusivo analista-analizzante) come fuga dal tempo storico per rifugiarsi nello spazio chiuso e regressivo del duo analitico. D’altra parte – in una ripresa dialettica successiva – questa regressione all’atemporalità diventa l’apex del processo analitico, che così quasi si interrompe per diventare compartecipazione estatica a un’esperienza di Gelassenheit, come in Meister Eckart, di abbandono all’altro.

          Fachinelli aveva visto questa doppiezza della psicoanalisi nel concetto stesso di ripetizione, nell’articolo "Il paradosso della ripetizione"[10]. Il soggetto ripete in modo "buono" rimemorando, vive il transfert reinserendo il suo passato in uno sviluppo storico. Ma ripete anche in modo "cattivo", nell'acting out, nella coazione a ripetere, nella pulsione di morte come tendenza a tornare allo stato inorganico. Fachinelli tentava allora di discriminare i due orientamenti – progressivo e regressivo – della ripetizione: distingueva la semplice replica (mero riprodurre senza originalità) dalla riduzione ("una ripetizione più schematica e povera dell'originale… e anche, …, come quando si parla di riduzione all'obbedienza")[11], e infine dalla ripresa, che riprendeva dal Gjentagelsen di Kierkegaard. La ripresa è un rilancio del passato nel futuro che si espone alla conferma e alla modificazione. Il nevrotico invece ripete sempre gli stessi errori – in lui la forza vitale si riduce a replica. Ma c'è anche una ripetizione propulsiva, che ri-presentando il passato mette in atto la vita. Non basta rammemorarsi, occorre rendere il passato di nuovo presente perché ci sia ripresa.

Vi troviamo qui qualcosa di molto vicino a quel che Lacan, sulla scia della Nachträglichkeit di Freud, aveva chiamato après-coup.

          In una prima fase, quindi, Fachinelli si pone come paladino della temporalità come valore; si fa promotore dell’Eros come tensione al futuro – come “progetto” avrebbe detto Heidegger -, come uscita dalla ripetizione-replica e apertura al nuovo e all’impensato, insomma alla storicità. Legge la psicoanalisi come strenuo progressismo. La figura di questa emancipazione è la fallica freccia – appuntita, penetrante, proiettante e progettante, insomma trasgressiva. Eppure, in una seconda fase – già presente però nella prima come sua piega – all’ideale della Freccia progressista subentra invece l’immagine muliebre, matriciale, del Claustrum. Questo slittamento – che coincide con l’abbandono del sinistrismo radicale – è anche stilistico. Nei suoi due ultimi libri – Claustrofilia e La mente estatica – assistiamo piuttosto a una sorta di fuga sia dei concetti che della scrittura: prevale un passare per contiguità da un tema all’altro, come nell’associazione libera, in un procedere dove la meta di volta in volta sembra profilarsi per poi perdersi. Non è più chiaro dove Fachinelli voglia arrivare… A differenza della freccia, che punta in una direzione precisa, la sua scrittura ora procede per onde, come il mare, ci si sente in una barca che si lasci andare a una corrente senza senso univoco.

          Di questa seconda fase – di deriva estatica più che di progressione futuristica – lo scritto più commovente è "Sulla spiaggia”[12]. Mentre lui se ne sta accanto al mare, in uno stato di dolce passività, un'illuminazione, a un tempo fisica e intellettuale, irrompe dal mare come Ulisse emerse dalle onde incontro a Nausicaa: "un'accettazione di qualcosa che veniva, in certo senso, dall'esterno, dopo un estenuante brancolare… Non meditazione né raccoglimento. Accoglimento."[13] In un darsi squisitamente femminile, Fachinelli, come Nausicaa, accoglie. Egli finalmente accetta la modalità femminile di essere-nel-mondo, da qui "gioia con senso di gratitudine"[14].

Dalla sua accusa agli analisti di de-temporalizzare l'analisi, sottraendo nella ripetitività della routine analitica il soggetto alla spinta vitale della storia, Fachinelli slitta verso l'idea che piuttosto l'analista debba lasciarsi svegliare da un richiamo atemporale, folgorante, pre-natale. Anche se dono e accettazione sono qualità femminili che la nostra società – compresa certe società psicoanalitiche – ha scotomizzato, puntando tutte le carte sulle funzioni maschili della difesa, del controllo, dell'attacco-fuga.

Elvio proclama questa femminilizzazione citando S. Giovanni della Croce nel suo incontro quasi carnale con Dio: “Lì mi dette il suo petto – lì una scienza mi infuse saporosa – e io a lui mi detti, senza tralasciar cosa – e gli promisi allor d’esser sua sposa”.

Questa conversione trans dell’analista non era un’abile manovra per cavalcare la tigre del movimento femminista, anticipando i Queer Studies. Credo piuttosto che la molla di quella “femminilità estatica” fosse proprio la sua attrazione per le donne concrete, la sua inclinazione a sedurre donne, talvolta fragili e un po’ tristi – all’ombra di una fedeltà indistruttibile, astorica, alla moglie Herma Trettl. In effetti, molti uomini esprimono nell’inclinazione a conquistare più donne una sorta di attrazione ontologica – tinta anche di invidia – per la mulier, un loro struggente desiderio di essere essi stessi, almeno di tanto in tanto, femmine. Come se la conquista sessuale ripetuta, di loro maschi pieveloci, fosse il rincorrere asintotico un essere la donna-tartaruga, la quale, comunque sempre all’identificazione dell’uomo con essa, si sottrae.

 

4.

          Il passaggio dalla Freccia fallica all’Accoglimento matriciale, femmineo, è anche un passaggio di focalizzazione da un primato del tempo a un primato della spazialità. Il Fachinelli de La freccia ferma reinterpretava una serie di forme di vita – nevrosi ossessiva, fascismo, certi riti primitivi – come strategie per fermare il tempo, per negare il divenire in nome di una reversibilità astratta che nega il mutamento e la storia. Un’analisi che sarebbe piaciuta a Ilya Prigogine e Isabelle Stengers, i quali avevano denunciato la stessa negazione tra i fisici teorici. Più tardi, invece, Elvio mette tutto l’accento sull’area claustrofilica: non su una fase o stadio appunto. È uno spazio atemporale unheimlich (non familiare, inquietante) che viene a costituirsi tra analista e analizzante. Pensa la claustrofilia non tanto come un passaggio temporale, quanto piuttosto come uno spazio, un’area, nel quale il tempo è sospeso.

          Ma questo passaggio dalla sfrecciante temporalità all’estatica spazialità non è un rovesciamento semplice, lineare di una posizione nell’altra. Esso non rinnega certo l’apertura lacerante alla storia, al futuro. La ricerca etico-teorica di Fachinelli, presa complessivamente, ci dice in fondo che non c'è progressione, e progresso, senza regressione mistica. Che la “ripresa” del passato come rilancio nel futuro implica un’interruzione estatica, ripetibile, in uno spazio di compenetrazione tra corpi e menti. L'accettazione del tempo storico apparirà allora – in modo ambiguo (come sempre in psicoanalisi) – il prodotto di una recettività a qualcosa di atemporale e pre-storico.

          In questo modo egli restava comunque fedele a quel che me lo rese così caro: la sua vocazione dionisiaca a rompere gli equilibri conclusi, il chiudersi in Sé. In un primo tempo questa vocazione era trasgressione dell’arroccamento individualista attraverso una partecipazione “tarantolata”[15] ai movimenti sociali; in un secondo tempo fu sbriciolamento delle difese dell’Io verso un accoglimento inerme della nuda vita.

 

5.

          Questo nuovo primato della spazialità claustrofilica – minaccia micidiale alla psicoanalisi, e allo stesso tempo esperienza che la psicoanalisi inevitabilmente deve riprendere – sfocia in una ripresa rapsodica e conclusiva delle esperienze estatiche.

Un filosofo certo molto lontano dalla dieta culturale di Fachinelli era Moritz Schlick, membro eminente del Wienerkreis. Amico di Wittgenstein, filosofo in odore di misticismo, scrisse qualcosa sulla mistica[16]. Disse che la conoscenza è sempre esprimibile. Le proposizioni cognitive ci dicono che qualcosa è come un’altra: è mettere in relazione cose dall’esterno. Ma la nostra mente opera anche in modo non conoscitivo: anziché confrontare una cosa con l’altra, punta a identificarsi a una certa cosa. Anziché dire cognitivamente che un oggetto è blu, possiamo voler identificarci al blu, siamo il blu. Qui non si tratta più di conoscenza ma di intuizione – come è la percezione. Questa identificazione intuitiva appartiene non al piano del pensiero ma del godimento: “L’intuizione è godimento, il godimento è vita, non conoscenza” scriveva Schlick.

Fachinelli non parlava esplicitamente di identificazione alla cosa, ma negli stati estatici vedeva in gioco proprio un rapporto diverso, non appuntito ma poroso, alle cose. Ekstasis significa essere fuori di sé: non pura contemplazione delle cose, ma uscire dall’Io per inabissarsi nelle cose stesse, godendone. Per entrare in una sorta di comunione con le cose e con l’altro, il soggetto deve abbandonare le difese che ne proteggono l’integrità (e l’integrazione), non deve più resistere a un gioioso orrore connesso a un piacere dis-individualizzante, eccessivo.

Ma questa deriva estatica non segna un’involuzione – un “riflusso”, come si diceva allora – del pensiero di Fachinelli? Non passa egli da una lucida “critica della cultura” di stampo francofortese a un nebbioso richiamo a vissuti ineffabili? Ormai rapito dalle Sirene, non indulge a ipotesi irrazionaliste come la lettura telepatica del pensiero tra analista e analizzante? In La mente estatica si rifà addirittura a Nostradamus per spiegare alcune anticipazioni del futuro che si producono nel corso di un’analisi.  Non era egli avviato sulla china della paccottiglia New Age e della facile scorciatoia del paranormale? Anch’io avvertivo questo pericolo.

Ma credo che i fenomeni sorprendenti e visionari che accadono nell’”area claustrofilica” lo interessassero non come prove di percezione extra-sensoriale, piuttosto come il ritorno nella vita adulta heimisch, familiare, di brandelli di un funzionamento psichico in cui non si è affermata ancora la distinzione netta, categorica, irriducibile, tra sé e l’altro. Al di là dell’”Ego autonomo” così caro alla filosofia dell’individualismo liberale (e a certa psicoanalisi a essa convertita), Fachinelli intravvedeva qualcosa che la psicoanalisi non avrebbe dovuto più temere: raggiungere uno stato mentale trans-individuale, che possiamo supporre perinatale, in cui avvengono processi di pensiero senza proprietà privata.

Certo già molta psicoanalisi aveva cercato di ricostruire i supposti stati mentali precocissimi, in una supposta unità simbiotica originaria tra madre e bambino. Solo che di solito queste ricostruzioni, seguendo una logica di psicologia evolutiva, aderiscono a un progetto etico per cui lo shrink dovrebbe promuovere i processi di differenziazione, separazione, individuazione, insomma di emancipazione da uno stato simbiotico primitivo. Ma in Fachinelli la direzione dell’evoluzione sembra eticamente invertirsi: lo stadio originario della simbiosi con l’altro non è qualcosa da cui dobbiamo uscire definitivamente, ma qualcosa a cui sarebbe meglio, almeno di tanto in tanto, tornare. Gli stati estatici gli appaiono non come regressioni pericolose a una confusione mortifera, ma come accettazione di una dimensione di gioia eccessiva, matrice creativa, dimensione da cui siamo portati a difenderci. Già Winnicott situava la capacità creativa – il gioco, la psicoanalisi, le arti, la religione, la scienza originale – in uno spazio di transizione, di ambigua oscillazione tra Sé e non-Sé. Fachinelli situa questa capacità creativa in un’abissale rinuncia all’Io, in un lasciarsi occupare dalla natura.

 

6.

          Fachinelli cita un brano di Herzog di Saul Bellow[17]. Qui Herzog, accompagnandosi alla seconda moglie Madeleine, si ferma come folgorato di fronte a un negozio di pesce.

Il pesce era ammassato, i dorsi si arcuavano come se nuotassero in quel ghiaccio tritato, fumante, bronzo sanguinolento, verde-nero melmoso, oro-grigio – le aragoste erano tutte pressate contro il vetro, le antenne piegate”.

Alle rimostranze di Madeleine spazientita dal contrattempo, Herzog replica dicendo che a sua madre – morta vent’anni prima – il pesce piaceva moltissimo. A una madre “morta e stramorta”.

          Commenta Fachinelli: “Evidentemente, è la madre viva nel protagonista del romanzo, Moses Herzog, che si ferma sulla soglia del montacarichi ed è colpita dal negozio del pesce – insieme al bambino Herzog.” Interpretazione acuta, ma non obbligatoria. Potremmo in effetti far appello proprio alla dis-individualità dello stato estatico, e dire che Herzog si identifica da una parte alla madre come soggetto guardante, ma anche (nel senso di Schlick) alla cosa guardata. Quei pesci morti hanno una cromatura ripugnante, viscida, sono immersi in un ghiaccio estraneo al loro habitat fluido da vivi, anche se “sembrava che i pesci, nel ghiaccio bianco, macinato, spumoso, si fossero fermati all’improvviso, nell’atteggiamento di quando erano vivi”. Herzog, che si arresta in uno stato di attonito dormiveglia, vede questo arresto improvviso negli stessi pesci che lui guarda: come se il suo sguardo li restituisse a una vita repentina ed effimera. Lui è il pesce morto. Ma non sono essi stramorti eppur vivi, proprio come la madre di Herzog? Quella sostanza vivente gelatinosa non è oggetto di quell’orrida gioia in cui consiste il climax estatico? Si accenna qui a un assorbimento in una carnalità materna, da cui siamo a un tempo attratti e che attraiamo a noi.

          Non a caso Fachinelli è sedotto da una folgorazione connessa a pesci – ancora il tema marino. Nei suoi ultimi scritti abbondano figure acquatiche. Da qui l’importanza che dà al “sentimento oceanico” di cui parlava Romain Rolland a Freud. Elvio, nato tra le montagne, era affascinato dal mare. Esprimeva allora egli, attraverso quelle metafore talattiche, un ritrovamento di un rapporto originario con sua madre? Chi può dirlo! Certamente viveva una riscoperta della natura, di cui mi parlava spesso in quegli anni. È come se, dalla sua passione metropolitana sulla scia di Benjamin, col tempo slittasse verso un atteggiamento di naturalismo estatico. Come se ciò che occorre accogliere non fosse tanto l’altro umano, ma qualcosa più simile alla massa gelatinosa di quei pesci ammassati nella bara di ghiaccio. È come se, sapendosi all’epoca malato, tenesse a risalire a un evento quanto mai naturale, alla “nuda vita” – per usare i termini di Giorgio Agamben – della nascita e del rapporto bagnato, vischioso con la nutrice.

 

7.

          Negli ultimi anni si stava dando da fare per trovare una vecchia cascina, in Lombardia o altrove. Per ristrutturarla e impiegarla come luogo dove accogliere giovani con qualsiasi problema, dalla psicosi alla tossicodipendenza. Un’operazione che non riuscì a portare in porto. Aveva già fatto un esperimento di questo tipo, per poco tempo, con alcuni giovani in una fattoria toscana, e mi disse che “il luogo stesso, splendido, si rivelò terapeutico”. Affermazione in apparenza banale – all’epoca si diceva che le cliniche psichiatriche svizzere, molto apprezzate, curavano proprio grazie al maestoso paesaggio alpino che offrivano ai pazienti. D’altro canto, non mi pare che egli volesse semplicemente riapplicare la formula della comunità terapeutica, resa famosa da Maxwell Jones e Basaglia. Mi pareva che il suo progetto fosse piuttosto di riportare dei giovani, smantellati dalla vita urbana, a un contatto nuovo, indifeso, con la natura. Stava progettando l’estasi naturalistica come una nuova prospettiva di cura? E non a caso scriveva

Come nella vita di certe antiche dame di corte giapponesi, attente più alla brina della notte che alla vita stessa… Ma quell’attenzione alla brina è vita, vita di intensità prodigiosa”[18].

La frase forse più famosa di Fachinelli è “non analisi come risposta, ma analisi come domanda.” Sembra niente, eppure quanti analisti l’hanno recepita? Ben pochi. Tempo fa Woody Allen, intervistato su Freud – su un autore ormai del tutto squalificato nella cultura americana – disse qualcosa di simile: “Forse le sue risposte non sono soddisfacenti, ma le sue domande erano acute.” L’analista per Fachinelli funziona nella misura in cui contagia l’analizzante con le sue domande. Il vero analista non dice mai “è così”, dice “ti sei chiesto se quello di cui parli non potrebbe essere detto altrimenti?” Non sopportava analisi troppo lunghe, forse perché non gli piacevano rapporti troppo densi, troppo coniugal-familiari, che durano una vita o quasi. Non gli piacevano rapporti molto lunghi nemmeno con le sue donne.

Eppure è come se, col tempo, l’inquietudine interrogativa in lui si fosse placata: le domande sono pur sempre solo linguaggio. Paradossalmente, il primo analista SPI (e poi ce ne saranno ben pochi) che abbia davvero preso sul serio Lacan, sfocia in una visione niente affatto “linguistica”. È come se al posto del domandare emergesse qualcosa che lui stesso, rifacendosi alla Bibbia, chiamerà – a conclusione del suo ultimo libro – “il roveto ardente”. Alla fine, sembra aver preso alla lettera la formula che gli era tanto cara: l’erba voglio.

 

 

 

[1] Wittgenstein L., 1961, Notebooks 1914-1916, Oxford: Basil Blackwell [trad.it. Quaderni 1914-1916, Torino: Einaudi, 1964], 8-X-1916.

 

[2] E. Fachinelli, 1989, La mente estatica, Milano: Adelphi, p. 75.

 

[3] Come io stesso ho cercato di fare: S. Benvenuto, 1998, “La ‘gioia eccessiva’ di Elvio Fachinelli”, «Psicoterapia e Scienze Umane», XXXII, 3, pp. 53-73.

https://www.journal-psychoanalysis.eu/la-gioia-eccessiva-di-elvio-fachinelli/

 

[4] E. Fachinelli, “Sulla spiaggia”, in La mente estatica, cit., p. 24.

 

[5] Celebre critico teatrale d’avanguardia.

 

[6] W. Benjamin, 1936, L’opera d’arte all’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino: Einaudi, 1966.

 

[7] Di cui parla in E. Fachinelli, 1976, Uma tentativa de amor, Roma: Cooperativa Scrittori.

 

[8] Pubblicata poi in S. Benvenuto e O. Nicolaus, a cura, 1990, La bottega dell’anima, Roma: Franco Angeli. http://www.psychomedia.it/jep/jep-on-line/benvenuto-facchinelli.htm

[9] K. Kraus, 1972, Detti e contraddetti, Milano: Adelphi.

 

    [10]In E. Fachinelli, 1974, Il bambino dalle uova d'oro, Milano: Feltrinelli, pp. 212-247.

 

    [11]Ivi, p. 236.

 

[12] Inserito in La mente estatica, cit., pp. 15-25.

 

 [13]Ivi., p. 17 e 19.

 

 [14]Ivi, p. 18.

 

[15]Alludo qui al suo articolo "Il magistrato e la tarantola" in Fachinelli, Il bambino dalle uova d'oro, cit., pp. 76-80.

 

[16] M. Schlick, 1979, “Form and Content”, in Schlick, Philosophical Papers, H.L. Mulder & B.F.B. van de Velde-Schlick eds., Dordrecht: Reidel, pp. 285-369; [trad. it. Forma e Contenuto, Torino: Bollati Boringhieri, 1987].

 

[17] La mente estatica, cit., pp. 70-2. È un caso che Herzog sia un intellettuale deluso da tutti i pensatori che ha letto, e in particolare da Freud?

 

[18] La mente estatica, cit., p. 22.

 

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