Abstract.The author presents the concept of pseudo-cultural pseudodelusion in reference to conspiracy theories that have spread during Sars-CoV2 pandemic with the aim of showing their relation with the classical definition of delusion and with the scientific theories they subvert. It is underlined that the main function of pseudodelusion is to strengthen identity, through the foundation of a new culture able to establish a new order of reality. This could be possibile starting from a dialogue around the body, like the one that allows to launch the symbolization process in the asymmetrical relation between the adult and the infans. [Keywords: Pseudodelusion, foreclosure, generalized seduction, body, pandemic]
Costruisco le presenti considerazioni in riferimento alla proliferazione delle derive complottiste nel contesto della pandemia da Sars-CoV2, per quanto il complottismo fosse un fenomeno già ben rappresentato in passato. Ciò che mi ha condotto a riflettere intorno a tali peculiari formazioni è da un lato lo stretto rapporto che contraggono con il discorso scientifico, dall’altro le caratteristiche ben evidenti che le apparentano alle formazioni deliranti. Non pochi aspetti restano tuttavia problematici e tenterò perciò di provare a rilanciare alcuni punti che ritengo nodali nel tentativo di formulare una lettura metapsicologica che consenta di formalizzarli. In questa direzione presenterò il concetto di pseudodelirio pseudoculturale provando a far lavorare insieme concetti assunti dalle teorie psicoanalitiche di Lacan e Laplanche, due psicoanalisti francesi del campo freudiano.
Per introdurre
Dagli esordi della pandemia da Sars CoV-2, in linea con una tendenza generale che da qualche decennio si va rafforzando, il ricorso al sapere medico-scientifico di stampo biologista e garantista ha rappresentato un tratto caratteristico e trasversale, imponendosi come fulcro dell’assistenza sanitaria, dell’intrattenimento mediatico, dell’informazione, della ricerca e perfino delle conversazioni di piacere. L’evidente polarizzazione è stata accompagnata, poi, dalla proliferazione di disparate costruzioni più o meno fantasiose, che si presentano come variazioni su tema, rispetto agli argomenti più discussi. In ordine, abbiamo assistito alla diffusione di notizie false e talvolta sconcertanti o finanche bizzarre se non assurde e ridicole rispetto alla genesi del virus, poi a proposito della sperimentazione del vaccino, del suo contenuto, del timing delle inoculazioni. Mi pare interessante provare a riflettere rispetto alle caratteristiche del fenomeno di fronte al quale ci troviamo. Potremmo liquidare la questione inneggiando all’ignoranza di tali interlocutori. Potremmo, esausti o confusi, stigmatizzare il problema pensando al delirio. Sicuramente finiremmo in entrambi i casi per non muovere neanche un passo in avanti rispetto alla sua comprensione. Questo per varie ragioni, prima fra tutte l’assenza di una definizione univoca del delirio stesso. Gli psicopatologi si sono infatti affannati nel tentativo di circoscrivere una condivisa modalità di intenderlo, ad esempio considerandolo una convinzione errata, non derivabile da altre esperienze e mantenuta a dispetto dell’evidenza contraria, dunque incorreggibile (Huber & Gross, 2010). L’improbabilità non è un criterio che tuttavia esclude il delirio (ibid.). Anzi, il delirio del paranoico – per quanto la paranoia sia stata formalmente rimossa dagli attuali sistemi classificativi sostituita dal Disturbo delirante cronico (APA, 2013) – è un esempio di delirio plausibile e come tale suscettibile di essere veicolato all’altro, come nei noti casi di folie à deux o di folie à famille (Ey, 1960).
Nello scritto dedicato al delirio di interpretazione, Sérieux e Capgras (1909) sottolineavano la necessità di trattare il delirio non dal lato del suo contenuto quanto più da quello della sua sistematizzazione. Inoltre, distinguendo tra deliri acuti e cronici, riferivano a questi ultimi quelli interpretativi, precisando per essi l’assenza di correlati allucinatori. Dunque deliri cronici, sistematizzati e non accompagnati da fenomeni dispercettivi: le cosiddette follie lucide. La trattazione introduttiva dello scritto poneva poi una precisazione rispetto alla differenza tra idea delirante e interpretazione delirante, sorgendo la prima ex abrupto, la seconda da un fatto noto osservato. Potremmo, a mio avviso, avvicinare i complottismi di cui si è detto sopra a questa seconda circostanza, per il fatto che la pandemia, il distanziamento sociale e la campagna vaccinale sono fenomeni realmente percepiti. Due elementi, tuttavia, creano un inciampo importante che necessita di ulteriore approfondimento. Mi riferisco al fatto che risulta erroneo se non addirittura poco etico, per non dire ingiurioso, scarsamente acuto da un punto di vista clinico e non di meno improbabile pensare che una grossa fetta della popolazione stia semplicemente delirando. L’elemento di realtà rintracciabile, quindi, può a mio avviso riferirsi ad un altro contesto che secondo me ha a che fare con il paterno e rispetto al quale mi esprimerò più avanti nel testo. Oltretutto, anche se fossero interpretazioni deliranti, mancherebbe in tal senso il processo di sistematizzazione come è classicamente inteso. Anzi, più che sistematizzazione, io penso che si ponga il caso della culturalizzazione del delirio, come avrò modo di chiarire. Sicuramente non mancheranno in un contesto globale dei deliranti propriamente detti, ma evidentemente è necessario riconsiderare il fenomeno da un’ottica differente. In prima istanza colpiscono la dimensione di massa che sostiene la diffusione delle notizie errate e la modalità di trasmissione delle stesse, che intercetta in particolar modo gli utenti della rete. Le piattaforme digitali, senza controllori, fluide, per certi versi estremamente libere, si presentano come sistemi in cui far sorgere nuove comunità. Riflettendo intorno alla spropositata diffusione del fenomeno, mi sono chiesto quanto possa invero costituire un aspetto strutturale nel processo di definizione della soggettività del singolo. Ho provato quindi a circoscrivere la questione all’apparato psichico individuale nel suo rapporto con il mondo culturale, in definitiva con l’Altro, a relativizzare alla questione soggettiva e singolare una tendenza generale, imponendosi su vasta scala la portata di ciò che osserviamo. Volendo ricorrere alla metafora dello spill-over, del salto di specie orientato all’esterno, ho provato ad invertirne la rotta con uno spill-in, con un salto all’interno, come è proprio della parola dello psicoanalista che recupera con l’interpretazione l’inconscio del paziente (Zontini, 2020). A tal proposito ho preso in considerazione le teorie di due autori che a partire dai concetti freudiani hanno introdotto nell’alveo psicoanalitico dei fenomeni generalizzati, per così dire strutturali, poi molto lavorati nelle rispettive comunità di riferimento. Lacan si è occupato della clinica delle psicosi a partire dalla sua tesi di dottorato e poi dal Seminario III (Lacan, 1955-1956), introducendo e ampliando la definizione del concetto di forclusione o preclusione del Nome-del-Padre, a proposito del meccanismo difensivo proprio dello psicotico e della caratteristica strutturale della psicosi, il cui ampliamento generalizzato risulta in realtà operato da Miller (1987). Laplanche, invece, occupandosi della traduzione in francese delle opere di Freud ha mostrato nel procedere del suo pensiero dei movimenti che ha interpretato come in relazione al destino del suo stesso oggetto, l’inconscio. Ciò gli ha permesso di recuperare la teoria della seduzione, abbandonata dallo stesso Freud e rimasta incistata nel corpo della sua opera, per generalizzarla alla relazione adulto-infans e farne una condizione antropologica fondamentale. Di seguito proverò a far lavorare queste due teorie insieme, per costruire una lettura metapsicologica che formalizzi meglio quanto sopra evidenziato come problematico.
La psicosi delirante secondo la psicoanalisi classica: rimozione della realtà e forclusione
Posta la molteplicità di interventi e teorizzazioni rispetto al tema della psicosi nel mondo psicoanalitico, limito il riferimento presente alle concezioni freudiana e lacaniana. Freud ha considerato le nevrosi e le psicosi come entrambe soggette ad una rimozione (Freud, 1924): dell’Es nella prima, della realtà nella seconda. Il tempo successivo alla rimozione, invece, sarebbe stato caratterizzato da una riparazione. Pertanto il delirio, per Freud, opererebbe come un tentativo di guarigione, di riappropriazione della vita per mezzo di una nuova realtà. Nella disamina del caso Schreber, il “malato di nervi”, Freud (1911) ha ipotizzato inoltre che il delirio del paranoico potesse rappresentare una modalità difensiva dalla libido omosessuale, attraverso una proiezione all’esterno di una tendenza interna. Una volta spostata all’esterno la fantasia interna e dunque convertita la sua direzione, la realtà stata sarebbe di nuovo a disposizione, sebbene stravolta per sempre. Dunque l’elaborazione delirante consisterebbe, insieme, in una comunicazione di una parte della storia del soggetto e in una ricostruzione e riorganizzazione della realtà, dotandosi dunque di un potere comunicativo e ricostruttivo (De Masi, 2018).
Lacan (1958) riparte da Schreber e mette a punto il concetto di forclusione, intendendo con ciò il difetto strutturale che differenzia la psicosi dalla nevrosi. Nel Seminario III (Lacan, 1955-1956) la discussione verte principalmente intorno ai fenomeni allucinatori. In particolare, la forclusione viene posta in relazione alla denegazione. Così leggiamo dal Dizionario di Psicoanalisi (Chemama & Vandermersch, 1998, p. 128):
«Lacan si è servito del testo di Freud sulla denegazione per isolare il processo della forclusione in una delle due fasi della dialettica propria della denegazione: la prima, di simbolizzazione o Bejahung – ammissione che consiste in una “introduzione nel soggetto” – non ha avuto luogo. La seconda, “di espulsione al di fuori del soggetto”, costituisce il reale in quanto sussistente al di fuori della simbolizzazione.»
La definizione allude ad una frontiera al di qua della quale si fonda il registro del simbolico per un’ammissione introduttiva nel soggetto di un significante, vale a dire del padre nella sua funzione simbolica di castrazione, ossia nella funzione di distinzione dei sessi e delle generazioni, posto che il simbolico possa considerarsi come il campo del passaggio dalla Cosa (il perceptum) alla parola. La conversione del perceptum in un significante dà accesso al registro del simbolico: la distanza dall’oggetto, che impone che esso sia perduto e rappresentato, è quindi l’effetto della funzione castratoria. Il Nome-del-Padre è dunque il rappresentante di questa funzione che, installato come metafora nel funzionamento psichico consente l’accesso al registro del simbolico, la sua organizzazione e la sua tenuta, sbarrando l’accesso pieno alla Cosa. La forclusione, pertanto, è il fenomeno che si oppone a tale inaugurazione con l’effetto conseguente dell’espulsione. Lo psicotico, del resto, si confonde – in differenti modi e gravità – tra percezione e parola, tra esterno e interno, tra sé e l’altro: il pensiero concreto, l’allucinazione, il delirio, il neologismo, l’insalata di parole, le stereotipie, i fenomeni elementari sono scenari caratteristici di tale difetto strutturale. Il delirio, tornando a Freud con Lacan, sarebbe pertanto una metafora delirante, che garantisce la tenuta dell’apparato attraverso un Nome-del-Padre posticcio, una metafora assunta attraverso l’elaborazione delirante.
Lo pseudodelirio pseudoculturale
Il fil-rouge che indicizza le disparate concezioni complottiste sorte negli ultimi due anni è quello di sostenere una nuova cultura nata in antitesi rispetto alla cultura dominante. La creazione del virus in laboratorio e la sua diffusione spontanea e criminale costituirebbero il prequel inaugurale della dittatura sanitaria in cui la malattia fungerebbe da strumento di comando, in grado di piegare la libertà individuale e garantire insieme l’arricchimento di pochi potenti. Per altri ancora, il virus non esisterebbe o comunque non darebbe luogo ad una malattia letale o ad una malattia stricto sensu. Circolerebbero quindi, per i primi, cure adeguate occultate e non offerte alla massa, mentre per i secondi non servirebbe in definitiva alcun rimedio per guarire dal malanno inesistente. I vaccini, poi, fungerebbero da modalità di controllo del corpo sotto e dentro la sua pelle, dannosi per alcuni, se non addirittura sprovvisti di effetto per certi altri. Ritengo che queste formulazioni possano essere definite sotto il nome di pseudodelirio pseudoculturale. Pseudodelirio, innanzitutto, per il fatto di presentarsi come il delirio sia rispetto al contenuto, sia rispetto ad alcuni caratteri funzionali. Si tratta infatti di formulazioni incorreggibili, errate e non rispondenti a quanto si presenta nella realtà. Basti pensare alle situazioni drammatiche in cui pazienti affetti dalla Covid-19 rifiutano le cure, presentandosi ostili e incapaci di percepire la gravità della situazione anche quando ricoverati in terapia intensiva. In secondo luogo, tali formulazioni organizzano, a mio avviso, il funzionamento mentale alla stregua del Nome-del-Padre che manca, indicizzando l’ordine simbolico, caricandolo di senso, alla stessa maniera della nuova realtà che per lo psicotico florido ripara il vuoto di senso dello scatenamento, della Wahanstimmung. Tuttavia credo sia da precisare che queste stesse formazioni generano per mezzo della loro diffusione e condivisione, delle vere neocomunità e, pertanto, delle pseudoculture se non delle autentiche neoculture, che rifiutano i codici della cultura dominante, capovolgendoli e controvertendoli, non quindi alla stregua delle sottoculture. Queste ultime infatti sono spesso reintegrate nella cultura dominante attraverso l’azione di pubblicizzazione mediatica, divenendo vendibili e familiari, ridotte ad una moda, come nel caso della pratica dei tatuaggi propria dei mod o dei punk (Zontini, 2011). Come accennato sopra, se da un lato viene invece tracciato un confine perentorio tra “noi” e “loro” e viene preclusa ogni possibilità di comunicazione dialettica e contestuale, dall’altro assistiamo ad una sovversione dell’ordine del mondo con la nascita di una cultura che si propone come sostitutiva. In merito a questo punto penso che ci si trovi di fronte alla culturalizzazione del Nome-del-Padre, incarnato dalla nuova cultura, dunque non da una formazione delirante ma dall’adesione ad un gruppo. La fase ricostruttiva, cioè, per un verso non si avvarrebbe dell’operazione del singolo come per l’operazione psicotica, quanto più dell’adesione ad un nuovo gruppo, in grado di fungere da ordinatore di senso dell’ordine simbolico, o meglio da perno di supplenza del simbolico stesso, e contemporaneamente da sostegno immaginario. Per l’altro verso si costituirebbe di una fase prima alternativa (il tuo parere e il mio hanno lo stesso valore) e infine sostitutiva, dal momento che la nuova cultura del gruppo si propone come l’unica possibile e valida.
Questa mia lettura tiene conto dell’evoluzione del pensiero di Lacan negli anni settanta. Col Seminario XXII (Lacan, 1969-1979) dedicato a Joyce, infatti, Lacan depotenzia il ruolo assegnato in precedenza al Simbolico, finendo per considerarlo strutturalmente bucato, quindi deficitario non soltanto nel caso della forclusione del Nome-del-Padre. Tale falla costituzionale sarebbe dovuta invece al fatto che il significante non può abbracciare il Reale a tutto tondo: non tutto ha senso, non tutto si può dire, a cominciare dai pensieri che pensiamo. Dunque il simbolico è di per sé in perdita e il rammendo non è appannaggio esclusivo della clinica della psicosi nella sua fase di compenso quanto piuttosto necessariamente comune a nevrosi e psicosi. La differenza tra le due strutture, pertanto, starebbe nella differente modalità attraverso cui si manifesta la capacità del simbolico di supplire alla sua stessa mancanza di fondo. Il Nome-del-Padre, pertanto, sarebbe la maniera nevrotica attraverso cui poter sopperire alla insufficienza simbolica. L’altra via, quella alternativa al Nome-del- Padre, viene tracciata dal sinthomo, che Lacan pone in antitesi al sintomo. Se il sintomo freudiano, infatti, esprime un compromesso tra istanza interdittoria e moto pulsioniale, tra Super-Io e Es, tra conscio e inconscio, tra Legge e Desiderio, presentandosi come egodistonico, angosciante, fuorviante, divisivo per chi lo patisce, il sinthomo rafforza al contrario la consistenza dell’Ego, stabilizzandone l’identità (Recalcati, 2016). In questo senso il sintomo attesta della presenza dell’Edipo, del paterno, ovvero del terzo che divide la consistenza della coppia narcisistica madre-bambino. Il sinthomo, invece, attesterebbe del suo mancato apporto. La differenza tra sintomo e sinthomo pone perciò anche la questione della filiazione e del rapporto con i padri reali. Il padre di Joyce è infatti ‘dimissionario’, ben diverso dall’autorevole e dispotico padre di Schreber (ibidem). Penso sia importante riferire questo dettaglio, come anticipato sopra, alla clinica attuale e notare come pure il padre dell’epoca presente, a dispetto della formale autorevolezza, sia del resto dimissionario. Il dato di realtà, percepito e osservato, non alluderebbe quindi solo al fenomeno della pandemia, che giustamente esiste e che più sopra mi lasciava avvicinare il complottismo pseudodelirante all’interpretazione delirante di Sérieux e Capgras. Anche i padri reali, come è reale e dimissionario quello di Joyce, meriterebbero invece di essere inclusi nella questione, di essere equiparati al dato percepito. Mi riferisco letteralmente ai governi che si susseguono alla ricerca di consensi, nei continui ripescaggi delle urne e dell’audience televisivo, ma anche e soprattutto alla incapacità reale di gestire il controllo delle norme applicate. È una riflessione banale che però secondo me ha la sua validità contestuale, nella misura in cui tale scenario consente l’inversione del senso della norma, autorizzando i figli a dettare legge e a straripare oltre il buonsenso. Penso allo strenuo contrasto messo in atto rispetto alle disposizioni governative e sanitarie, dal rifiuto di indossare i dispositivi di protezione individuale all’inosservanza del distanziamento sociale, fino alla contraffazione criminale del Green Pass, con la diffusione di guide ai locali ‘aderenti’ all’iniziativa, da frequentare per bypassare i controlli. Preciso che il mio non è un tentativo di ricamare una psicologizzazione totalizzante ma penso che tuttavia possa sussistere una relazione tra queste neocomunità e la debolezza del padre della comunità dominante così come un’incapacità dell’apparato psichico di compiere il passaggio dalla Cosa al significante, dall’oggetto alla rappresentazione, e di essere a vari livelli molto ancorato all’altro concreto, reale, il partner, l’altra persona.
La teoria della seduzione generalizzata e i codici traduttivi culturali
Questo legame solido con l’altro in carne ed ossa consente un’ulteriore riflessione, che rinvia alla questione del riferimento al corpo che tali pseudodeliri mettono in campo, a maggior ragione se si considera che la mira del sinthomo è quella di fornire una consistenza narcisistica, come accennato prima. Da Freud (1922) sappiamo infatti che la proiezione della superficie corporea è situata nell’Io. Mi sembra interessante chiedersi, passando per la teoria della seduzione generalizzata di Laplanche, se la profonda imposizione del discorso medico intorno al corpo e intorno alla garanzia del suo benessere e delle sue cure, la diffusione di linee guida e di saperi superspecialistici non possano aver contribuito agli esiti indagati in questo scritto. D’altronde il corpo è il raccordo tra natura e cultura a più livelli e in più sensi (Zontini, 2011). In che modo gli schemi culturali dominanti possono incidere sull’idea del corpo? E come il corpo può diventare il perno del discorso? Il discorso intorno al corpo biologico può essere lo stallo di un discorso che mira al corpo del desiderio? Gli pseudodeliri pseudoculturali possono rappresentare una tappa intermedia, stagnante, del tentativo, fallito e fallimentare, di costituire un discorso soggettivo intorno al proprio corpo, ricorrendo a nuovi schemi sostenuti dal gruppo, in presenza di un difetto della soggettivazione e del passaggio dall’oggetto alla rappresentazione?
Procediamo per gradi. Freud aveva inizialmente ipotizzato che la seduzione potesse rappresentare il fattore eziologico dell’isteria (1896), finendo poi per abbandonare questa idea con la lettera a Fliess del 21 settembre 1897 (Freud, 1887-1904). La seduzione freudiana era ristretta, limitata cioè ad eventi reali, occorsi in una relazione patologica, con un imprinting deterministico del padre seduttore e perverso nei confronti della figlia nevrotica a causa degli effetti della seduzione paterna. Laplanche ha invece recuperato la seduzione ponendola nei termini della dissimetria adulto-infans – il primo dotato di un inconscio sessuale e rimosso di cui mancherebbe il secondo – per qualificarla come situazione di seduzione generalizzata e poi come situazione antropologica fondamentale (Laplanche, 2002). La seduzione, per Laplanche, diventa una condizione generale, tipica, strutturale dell’umano, un po’ come generalizzabile è in definitiva la forclusione lacaniana, in quanto il simbolico si pone come strutturalmente mancante, in anticipo sulla generalizzazione di Miller. Diventa, perciò, il prototipo della maniera attraverso cui il piccolo uomo – sprovvisto di schemi innati – risponde alla difficoltà di interpretare i messaggi enigmatici provenienti dall’adulto – perché infiltrati dall’inconscio sessuale che al bambino manca – ricorrendo ad un sapere non sessuale, ossia alle produzioni culturali. Già Freud aveva proposto le teorie sessuali infantili come lo strumento utile al maneggiamento dell’incandescenza dell’erotismo che si organizza intorno alle zone erogene, l’antidoto che potesse permettere una sua preliminare organizzazione ed elaborazione (Laplanche, 2004). Le teorie dei bambini e sulla loro scia le costruzioni culturali degli adulti – da cui le stesse teorie infantili attingono – si porrebbero quindi dal lato dell’aiuto alla traduzione. Ciò che viene tradotto produce a sua volta l’inconscio rimosso del bambino, caratterizzato dalle rappresentazioni di cosa. Quello che invece resiste alla traduzione stanzia nell’inconscio amenziale o intercluso, costituito da un crogiolo di resti non tradotti e separato dal limite della scissione, che attraversa verticalmente l’apparato psichico. Secondo la teorizzazione di Laplanche i codici traduttivi provenienti dall’universo culturale, dunque contingenti, costituiscono il cosiddetto mito-simbolico. Pertanto l’attivazione di questo processo e il suo buon funzionamento permettono di strutturare l’apparato psichico e di costituire l’inconscio rimosso, che funziona da motore per la metafora, per il pensiero simbolico. Nella psicosi e nei disturbi borderline questo meccanismo fa necessariamente difetto, essendo ingolfato l’inconscio intercluso e poco ricco quello rimosso. La questione della dissimetria adulto-infans e il ricorso agli schemi culturali, il cosiddetto mito- simbolico, sembrano essere riattualizzati dal rapporto della comunità scientifica con l’utenza, a vari livelli, e dunque anche dalla nascita della neocultura, che sorge appunto in dissimetria e sovversione rispetto alla cultura dominante, prelevando da quella le coordinate e i riferimenti pseudoteorici da controvertire, finendo soprattutto per parlare del corpo. I riferimenti pseudoscientifici infatti vengono prelevati dal discorso medico per essere rimaneggiati ed elaborati negli pseudodeliri. Dejours (2002) specifica che la trasformazione del corpo biologico per il tramite della pulsione, ossia la nascita di un corpo che si situi al di là del corpo biologico, la nascita di un corpo quindi desiderante, non saturabile attraverso l’oggetto reale, come mette bene in evidenza il corpo dell’anoressia che rifiuta il cibo, si avvia a partire da un dialogo intorno al corpo e alle sue funzioni, che si situa nella relazione di cura tra l’adulto e il bambino. Il parlare odierno del corpo, tra scientismo, biopotere e complottismo, sembra dal mio punto di vista riattualizzare tale situazione vestita dell’originario, seppur per riproporla in una forma patologica, forse sempre al fine di rinforzare l’Io. Lo schema dell’apparato dell’anima di Laplanche pone all’esterno l’altro in quanto reale, il partner per l’appunto, quello che Lacan scriverebbe in antitesi all’Altro, che invece sarebbe aggredibile per via di rappresentazione, supposizione, non riducibile e che testimonierebbe del tramonto del complesso Edipico, dell’elaborazione del rapporto con il terzo che rompe la diade speculare madre-bambino, scollando la dimensione psichica del desiderio da quella del bisogno, separando internamente al soggetto la realtà interna da quella esterna.
Conclusioni
La clinica contemporanea è assai differente da quella di Freud e dei primi psicoanalisti sia per quel che concerne l’isteria che è tipicamente correlata alla cultura delle diverse epoche ma anche e sempre di più per quel che riguarda la psicosi, al punto che Green ne ha presentato la forma bianca, Miller (2009) quella ordinaria. Evidentemente il rinforzo narcisistico, come appena ipotizzato, procede attraverso due vie che si intrecciano vicendevolmente. La prima è quella dell’adesione al gruppo con la culturalizzazione del Nome-del-Padre attraverso la fondazione di pseudoculture che parlano la stessa lingua e difendono la stessa realtà. La seconda, invece, è quella del riferimento al corpo, radicato nella dissimmetria originaria adulto-infans, che la condizione pandemica presente riattualizza in una forma culturale, sociale, politica e sanitaria. Esiste una relazione tra queste due vie nella misura in cui il Nome-del-Padre rappresenta il «contributo di sicurezza e senso della vita» (Castellanos, pag. 67, 2018), la cui forclusione introduce «fenomeni psicotici che toccano il corpo», dal momento che questo «non è un dono della natura» (ibid., pag. 68), ma un prodotto trasformato dal discorso.
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