Hai paura di sbagliare. L’errore non è contemplato e lo temi e fai bene perché l’errore non sempre è creativo. L’errore è creativo quando ci si abbandona, e non quando ci si cade per averlo preventivamente con cura evitato. Ci si abbandona all’errore come alla strada che stiamo per percorrere in direzione di. Nemmeno, però, ci si deve abbandonare all’evento-errore preventivamente, sarebbe malafede. È un errore creativo l’accoglienza della propria mancanza come del proprio eccesso. Mancanza di vuoto o eccesso di vuoto. Non è nel come riempirlo, il vuoto, ma come curarne il pieno intorno in modo che non sia mancante e nemmeno eccessivo, la giusta misura come il sale nell’acqua per la pasta.
L’errore che si evita di fare finisce sempre per non evitarci lui. Tanto lo evitiamo che alla fine lo evochiamo. E noi ci cadiamo, ci cediamo male, è questione di come si cade in errore. Se ci si abbandona all’imprevisto o se lo si costruisce per evitarlo. Per esempio lo spazio tra le parole è inevitabile ma lo posso modificare, dilatandolo, a esempio.
Oppure costruendo
Una forma di spaziatura
Che riesca
A mostrarci l’idea di
Una scrittura diversa dal solito.
L’errore ci si para dinnanzi come un buco nel reale, come appare una nuvola o un gatto all’improvviso, così l’evento dell’errore si orchestra contro la nostra direzione. L’errore improvviso può generare il riso o lo spavento. La meraviglia o l’orrore.
Preventivare l’errore, interpolare i sensi, guastare il dialogo. Come e cosa avrebbero pensato nel 1600 se a teatro un attore si fosse volto con le spalle al pubblico? O l’attore fosse sceso in platea a discorrere con lo spettatore o se un pittore avesse squarciato la tela o se una scrittrice avesse scritto un flusso di coscienza onirico e incomprensibile? Avrebbero pensato a un errore. L’errore, come il comico e il tragico, è intreccio di epoca e stile, di meccanismo interiore e ascolto. L’errore non è tale in sé. Cosa è Joyce? E cosa è Fontana? Cosa e dov’è l’arte contemporanea?
Ma allora, dire che l’errore può essere costruens del discorso qualsiasi esso sia e imparare a comprendere che l’errore evitato con cura e ossessione si risolva nell’involontaria pars distruens, dire questo è un errore o un dato di fatto veritiero? Dire questo è, né più né meno, parlare una prassi, discorrere intorno al vuoto che impegna il salto del fosso. Lo spazio.
In questa seconda passeggiata ho incontrato un libro di Federico Ferrari, filosofo, critico d’arte e docente, che si intitola “Il silenzio dell’arte” (se volte saperne qualcosa, ne parlo qui). Lo spazio, in questo caso espositivo e museale, è problematizzato. Messo in scena e studiato. Lo spazio sente il corpo, «pensa lo sguardo».
Esercizio: immaginate di essere al parco, non da soli, magari insieme a me e comunque dovremmo o dovreste essere un gruppo di almeno una diecina. Quindi, sediamoci qui, bella questa panchina di legno! Che legno sarà? Lo sapete? C’è qualcuno di voi che lo sa? Saperlo cambia il modo di stare seduti? Il nome del legno utilizzato per questo tavolo da picnic influenza in qualche modo il nostro stare al mondo? Immagino che mi stiate osservando senza capire dove voglia andare a parare. Nemmeno io lo so dove andare a parare, e perché ho intrapreso questa diramazione. Ma mi sembrava ovvio, in un parco, pieno di alberi, seduti su una panchina di legno, affrontare la diramazione del discorso. Torniamo al no, a noi, alle nostra esistenze che spesso sono il no della diramazione. E pensiamo a 5 parole.
(Lasciamo un po’ di spazio per dare l’idea del tempo che trascorriamo in silenzio dedicandoci a fissare mentalmente queste cinque parole.)
Adesso siete liberi per, diciamo, 15 minuti, di andarvene da soli o in compagnia a fare un giro nel parco. C’è lo stagno, le altalene, il castello, la sabbia, e i bambini hanno conquistato il loro spazio. Non c’è lo spazio gioco per gli adulti.
(Ancora un altro spazio per segnalare il passaggio del tempo. Che poi nella gabbia tipografica il tempo non passa affatto ma viene fissato dal vuoto delle parole che non ci sono. Qui lo spazio è tempo.)
Eccoci di nuovo al tavolo da picnic. Avete in mente le cinque parole di prima? mi chiedete cosa farne e vi rispondo: “niente, per ora.” Provate a scrivere quello che sta succedendo intorno a voi, non dentro voi. Lo spazio intorno, non lo spazio dentro, lo spazio dentro è una forma dilatata di tempo. Adesso vi consegno dei foglietti gialli dove scrivere le vostre cinque parole a stampatello e in forma anonima. Ripiegate i vostri foglietti gialli e consegnatemeli.
(Spazio ancora, per segnalare il tempo che impiegate per scrivere.)
Adesso ci spostiamo, ma non perché qui ci sia il sole. Andiamo sotto gli alberi a scegliere il nostro albero. Abbracciamolo e presentiamoci: mica ci conosce, forse non ci ha mai visto prima.
Adesso leggete quel che avete scritto, ma fatelo come foste in un teatro.
Ora scegliere un foglietto giallo, mi raccomando che non sia quello scritto da voi stessi. Prendete queste cinque parole, che non sono vostre, e usatele come mattoncini per costruire una casa di frasi, ci dovrete mettere le vostre congiunzioni, i vostri collanti, il cemento dei vostri desideri e il colore delle vostre impressioni.
A volte però lo scoramento mi coglie e l’errore mi blocca perché temevo che sarebbe successo qualcosa di brutto, l’errore mi blocca per questo motivo. Non è l’errore in sé, ma la percezione che io ho del fallimento. Sbagliando non si impara, si sbaglia perché è necessario coltivare l’errore. La sospensione che precede l’entusiasmo dell’improvviso. Padroneggiare l’errore.
Ho incontrato un altro libro: “Settologia, l’altro nome” di Jon Fosse, un drammaturgo e scrittore norvegese. Il protagonista è un pittore anziano convinto che per liberarsi delle immagini che l’ossessionano, deve dipingerle, e guarda caso, in questa scena, è in macchina a osservare una coppia seduta su una panchina in un parco: «[…] ho pensato che è per questo che sono diventato pittore, perché ho tutte queste immagini dentro di me, sì, così tante da diventare un supplizio, sì, mi tormentano con il loro continuo riemergere, sì, quasi alla stregua di visioni e in ogni genere di contesto, e io non posso farci niente, l’unica cosa che posso fare è dipingere, sì, cercare di dipingere le immagini che ho dentro per farle sparire, nient’altro, […]» succede lo stesso con… le parole? ripetendo e riscrivendo parole o intere scene che ci visitano ossessivamente e di cui non sappiamo come sbarazzarci? Nel romanzo, poi, il protagonista ha a che fare con il suo doppio, con i pensieri e le azioni del suo doppio, che non è un sosia, ma proprio lui stesso, in un altro paese non molto lontano da casa sua. Avete mai giocato a parlare di voi da una certa distanza? Provate!
In queste passeggiate siamo passo e passaggio, paese e paesaggio. Nella nostra singolarità desiderante ambiamo all’altro, diventiamo due con l’altro. Siamo o dobbiamo essere entrambi. Il passo è questo tuo cammino irripetibile ma il passaggio lo condividi con l’altro con cui ti incontri. O passate insieme su corsie autostradali divise dal guardiano che stabilisce direzione e marcia, o aspettate fermi, dal rosso affinché il verde altrui lasci scorrere, il vostro turno, il ritorno. Oppure, passo e passaggio si scontrano come in una calca festosa. Come particole di acqua di mare, d’amare. Paese e paesaggio. Nome e nomi. Il nome è il paese in cui siete nati, ma che forma ha il nostro nome sul corpo degli altri? Come calza, come viene indossato. E allora ci sono i paesi e poi il paesaggio che li ospita. (indossatto come atto che indotto, e l’atto, non l’agire, è del soggetto irripetibile e ancora, indosso. Indosso il nome indotto.)
Non stiamo parlando di spazi ma di sprazi. Non c’è nel passeggiare desiderante un continuum direzionale ma cesure, strati e stratti, strappi. Inghippi. E se qualcuno di voi sa spiegarmi quel che intendo taccia per sempre, soprattutto sulla propria interpretazione. Meglio l’inter-prestarsi e ancora di più meglio l’iter-prestarsi. Il prestarsi le mancanze nell’iter frammentato della passeggiata. Fatta di sguardi. Facciamoci di sguardi. È questa la faccia.
Che desiderio hanno gli uomini primitivi? È forse il segno scritto nelle caverne, scrive Federico Ferrari : «Nella caverna nasce l’arte: l’arte come esposizione, come gesto ostensivo che pone fuori di sé il senso dell’esistenza. La caverna è il luogo in cui l’arte per la prima volta si espone e si mostra come l’esperienza di un’esposizione.»
Ma aspettate, dobbiamo fare una distinzione tra il linguaggio e la parola. Nel Seminario V, Lacan presenta l’inconscio strutturato come un Linguaggio. Un linguaggio che si fa presente attraverso la parola. Che differenza c’è tra linguaggio e parola? Secondo Lacan il linguaggio esiste dapprima che io nasca e continuerà a esistere anche dopo la mia morte; la parola, invece, è questa mia articolazione fonetica, o scritta, in questo caso, che traduce il messaggio inconscio. Quando parliamo, siamo parlati dal linguaggio. Un po’ come una stazione radiofonica che modula le frequenze. Noi umani siamo uno zufolo in bocca al Linguaggio che ci fa emettere suoni, parole, come fossimo dei burattini… più o meno, con la differenza che siamo anche esseri parlanti e desideranti, forse anche pensanti. Se l’essere umano non parlasse in qualche modo, ecco, forse non esisterebbe differenza tra me e voi, tra mente e corpo, tra mondo e sogno. Sarebbe un errore non creativo! Gli animali, anche se fra loro comunicano, non sanno parlare. A parlare ci si stanca, a passeggiare ci vengono parole diverse da quelle che pensiamo di scrivere da seduti. Provate a rifare l’esercizio di prima, però da soli, in casa.
Il laboratorio di scrittura desiderante è un viaggio, una transizione, come lo è stato il pensiero di Lacan nel suo sviluppo teorico e pratico, una transizione contornante il vuoto, la mancanza a essere. Quel vuoto del non-detto che spesso si trasmuta in sintomo, o in disagio o in errore: la scrittura è proprio la cornice intorno al nostro vuoto, le pinze con le quali possiamo tirare fuori l’incandescente Cosa del godimento mortifero. Lacan stesso, da un Seminario all’altro, percorreva una linea progressiva per cui l’anno successivo, oltrepassava e contraddiceva, quasi, le tesi sostenute l’anno precedente, per esempio dal Seminario V, in cui con l’inconscio strutturato come un linguaggio il pensiero lacaniano si agita nell’abito di un discorso Simbolico, al Seminario VII, in cui l’attenzione è completamente rivolta al Reale di Das Ding, e all’arte come contorno di questo Reale.
Ma dove sta questo linguaggio che non vediamo? è come l’aria che respiriamo. La vedete l’aria? Con gli occhi, dico. Siamo come quel pesciolino rosso nell’acquario che chiese al nonno: cosa è l’acqua? e il nonno rispose: è questa l’acqua (ricordo che lessi questo frammento in un romanzo di D.F.Wallace.)
Il linguaggio si palesa nel vocabolario che mi è proprio, nel mio stile e nel mio carattere, nelle tradizioni, nelle leggende, negli antichi eroi. Ma anche nei sintomi, nei motti di spirito, nei sogni, nei gesti mancati, il linguaggio affiora trainato dalla nostra personale parola.
Il linguaggio si presenta, imprevisto e colmo di significato, anche nell’errore.
Come rispondo all’errore: ci cado o mi ci abbandono?
Si procede, usando le parole di Emily Dickinson «nell’atto di apprendere – ciò che ci sfuggiva – senza dizionario!»
Questo accade nell’esperienza del laboratorio desiderante, se non sbaglio…
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