Ritornando a riflettere sulla psicoanalisi degli stati psicotici
“Il modello di Bion non sorge da alcuna situazione d’osservazione, ma piuttosto dalle deduzioni nate dalla sua esperienza all’interno del quadro analitico con pazienti psicotici”
(Green, 2005,89, trad. mia).
I
Ho scritto sull’incontro dell’analista con chi è portatore di quella sofferenza psichica che si avvicina all’intollerabile e che procede, governata dall’assenza o frantumazione dei significati, nella direzione del contrastato tentativo di (ri)trovare contatto con l’oggetto (Conforto, 2014).
In un lavoro successivo(Conforto, 2020) facevo mia un’espressione di Hans Gadamer:
“Cos’è, ad esempio, l’urlo del neonato? Una manifestazione del suo dolore? Sappiamo qualcosa al riguardo? Riusciremo mai a saperne qualcosa al riguardo?”.
Parlo, parliamo di schizofrenia, quando, psicoanalisti, ci incontriamo con pazienti che ci disorientano per la fragilità del contatto e della comunicazione, per la violenza dell’esperienza emotiva, per l’irruzione nel campo analitico di fantasmi e fantasie allarmate e allarmanti, per il confuso e confus0ivo smantellamento o mancata costruzione del senso. Percorso allora dettato dalla inquieta curiosità, dalla curiosità Sfinge1, come allude Bion.
In questa dimensione si colloca il mio contributo, rinnovato tentativo di dare significato a interazioni psicoanalitiche con queste patologie, stati primitivi della mente. In questo scritto, promosso da un lungo après-coup, riprendo a raccontare il mio percorso.
Ho riletto Kurt Schneider:
“…le diagnosi di schizofrenia e ciclotimia vengono poste, ancor oggi, esclusivamente su basi psicopatologiche; si tratta cioè di condizioni e quindi fondamentalmente non di diagnosi in senso medico” (1965,115).
Aggiunge:
“Non rimane altro che porsi di fronte a questi stati come di fronte a un mistero antropologico […]accanto al somatogeno e allo psicogeno, la terza possibilità che resta, quella del metageno, cioè un alterarsi della psiche senza causa somatica o psicologica, deve qui, e forse altrove, per lo meno restare aperta”(32-33).
Mi è parso di cogliere nella “terza possibilità”2un potenziale invito
a considerare ciò che dello psichico è alterazione occultata in qualche tipo di inconoscibile che: “come l’ombelico del sogno, affonda nell’ignoto “ (Freud, 1899,480).
Trovo (paradossalmente, forse) nelle riflessioni di Levine la prosecuzione dello straordinario pensare di Schneider e insieme avverto il necessario ritorno a Freud:
“Vanno distinte due specie di pulsioni, una delle quali, quella costituita dalle pulsioni sessuali o Eros è di gran lunga la più appariscente e più facile da individuare[…] abbiamo formulato l’ipotesi di una pulsione di morte, a cui compete il compito di ricondurre il vivente organico nello stato privo di vita […]. E’ ancora molto difficile rappresentare il modo in cui le pulsioni delle due specie si associano, si impastano, si legano, ma che ciò avvenga[…] è un postulato irrinunciabile della nostra concezione”(1922,502).
Levine, proseguendo il percorso della psicoanalisi nella direzione della ‘donazione’ di significato alla patologia psicotica, suggerisce che le sensazioni brute, non ancora emozioni, affetti, che in grossa parte li caratterizzano:
“…possono essere visti come il prodotto di ‘qualcosa’ di grezzo e indifferenziato[…] invece di definirli come un’emozione specifica che maggiormente può consentirne la trasformazione simbolica, la rappresentazione simbolica “ (2021). Il modello di Levine(2019) è collocato nell’effetto di stati traumatici, emotivi, somatici, che hanno investito l’infante nel periodo preverbale, quando ciò che avviene, lo raggiunge, ancora non ha un’iscrizione psichica definita, danneggiando il percorso rappresentativo, producendo vuoti psichici, strutture mentali fragili, inoperanti, che l’autore avvicina agli elementi beta (Bion,1962b) e con cui potrà incontrarsi un giorno lo psicoanalista.
Il fallimento del tentativo rappresentativo lo ritrovo in un antico episodio clinico.
Quella paziente, quella donna nel secondo letto della corsia, rivolta al giovane specializzando: <<Buongiorno dottore, questa notte la testa(con la mano l’accarezza, la sbatte) si è nuovamente rotta in due (non mi guarda, il tono è monotono)…ha iniziato a riaggiustarsi quando ho sentito che arrivava. Ecco, ora va bene>>. Una smorfia, si gira, mi allontano.
Qualche mattina dopo la saluto:<<Buongiorno signora F.>>. Urla:<<Che dottore è? Non si ricorda che sono signorina?>>.Continua a urlare, mi scuso, le altre pazienti mi osservano, disagio.
Nascosto nel delirio, nelle allucinazioni, nella violenza che esplode nell’urlo, intuisco la presenza dei significanti ‘grezzi’ proposti da Levine, colgo il fallito tentativo della signorina F. di dare spazio, capacità, alla possibilità di riconoscere come sua la gratitudine, la rabbia e il dolore dell’abbandono, l’abortito bisogno di legami.
II
Il paziente psicotico, scrive De Masi:
“…distrugge gli strumenti che permetterebbero all’inconscio di comprendere le esperienze psichiche[…]Il danno della malattia psicotica origina dalle funzioni basilari della mente[…]che non appartengono all’inconscio rimosso” e che “prendono corpo nel rapporto originario tra madre e bambino” (2016, 63,68).
Tesi che riprendo affidandomi a modelli che attribuiscono fondamentale significato:
-all’ipotesi “che il bambino possegga un presupposto innato ( pre-conception)dell’esistenza di un seno capace di soddisfare la sua natura incompleta” (Bion, 1962a,126)
-all’insufficiente relazione madre-bambino, contenitore-contenuto, quando è devastata dall’incapacità materna di:
“permettersi la rêverie o se può permettersela senza però associarla all’amore per il bambino o per suo padre “(Bion, 1962a,73).
–all’idea che “ la figura materna non sia in grado di accogliere la soggettività del neonato nel processo di accudimento, ma anzi proietti e invada l’esperienza del bambino” (Van Buren e Alhnati, 2010, 12).
Proponevo, nel 2020, aspetti dell’incontro con pazienti schizofrenici in cui mi soffermavo a cogliere-intuire “il non scomparso bisogno di riconoscersi e d’essere riconosciuto” (12). Bisogno interrotto, inconcluso, impedito, non costruito, nel primo essere nel mondo, dalla frattura dei legami, dall’impossibilità di trasformazioni in immagini, in desideri non collocati nei sogni, il precipitare allora in quella che definivo “malattia del vuoto”(18).
Vuoto, connesso al “tro’mos-terrore”3, in quanto assenza o inversione traumatica di ciò che la pre-concezione ha invitato ad attendere o pretendere.
Dolore, impotenza che l’anziana psicotica avverte e lamenta, << Non mi lasciano sognare…Voglio sognare anch’io, che sono Piera..>>. Chiede, lamenta: << Nel territorio curativo, io che ero malata non capivo niente..>> (Conforto, 2010, 16).
Si tratta di quella condizione che Grotstein attribuisce, con severa tonalità, al “disastrato bambino reietto”, vittima dell’ingiustizia genitoriale, e di cui, forse, è possibile intendere:
”l’eco della vocina tormentosa[…] che grida con l’antica angoscia affinchè Sophrosyne e la Memoria della Giustizia siano ristabilite(per un breve momento) (2010,37).
III
Ancora in Levine ho trovato un convincente approfondimento delle modalità d’intervento offerte all’analista che si confronta con i pazienti, di cui oggi propongo le mie esperienze:
“possiamo anche trovarci di fronte alla sfida di aiutare i pazienti a creare l’inconscio dinamico[…]attraverso il rafforzamento e l’integrazione di elementi psichici debolmente iscritti o attraverso
il dar forma a qualcosa che era precedentemente non rappresentato” (2015,59).
-Capita che una domenica pomeriggio (molti anni fa), in Clinica Psichiatra, servizio di guardia, vengo avvisato dai genitori che il figlio, un adolescente schizofrenico da poco dimesso e da me seguito in ambulatorio, è fuggito di casa nella notte. Dove è? Non hanno notizie e sento che non sono troppo in ansia, sono fatti vostri. Non è lo stesso per me, preoccupazione, tensione.
Un paio d’ore dopo Davide si affaccia alla vetrata dell’ingresso, ci guardiamo, resta immobile, senza espressione. Due parole con l’infermiera, mi dice: <<Vengo con lei>>. Portiamo un letto nell’ingresso, ci poniamo, come se non potesse essere che così, uno alla testa, l’altra ai piedi, senza parlare. Senza parlargli.
Davide ci osserva, poi con cautela si avvicina, butta via le scarpe, si sdraia. Sorride a me, a lei, una sorta di smorfia, si addormenta.
La ricerca di significato all’accaduto in Davide, in noi, mi avvicina oggi alle formulazioni di Chuster che parlano della possibilità di: “cogliere gli stati mentali più primitivi, l’inconscio non freudiano” attraverso: “trasformazioni psicoanalitiche: l’esperienza emotiva che può portare ad un’interpretazione capace di promuovere una trasformazione in O o il processo di diventare ciò che si è “(2010, 147).
Tema ripreso da Cassorla nella ricerca delle vicende relazionali promosse dalla funzione alfa che:
“danno raffigurabilità all’esperienza emotiva” (2013,188).
Paziente e terapeuta avviano rappresentazioni inconsce intersoggettive in cui la funzione alfa dell’analista consente “il sogno dell’analista” che attinge al grezzo del paziente, trasformando l’incontro tra frammenti di immagini nel “sogno per due” (idem, 190).
Nel caso di Davide l’intuizione onirica ha permesso, credo, l’incontro con la memoria proto-mentale di Davide, l’aspettativa di un seno, di un buon contenitore, la cui rappresentazione abbiamo affidato non al simbolico della parola bensì alla messa in scena, come è accaduto. Una sorta di rappresentazione dell’oggetto contenitore nella realtà esterna.
IV
Il “far accadere”, “mettere in scena” (nel linguaggio di Levine,2015,5), quello che è accaduto con Davide, mi spinge alla ricerca del tragitto comunicativo, il linguaggio che ha consentito la realizzazione della nostra esperienza.
Bion parla di poeti e artisti e di stimoli che vengono dall’ignoto, così potenti che:
“Abbiamo bisogno di inventare una qualche forma di discorso articolato che possa avvicinarsi alla descrizione di queste realtà, di questi fenomeni che io non riesco affatto a descrivere” (1992,365).
Ancora:
“E’ possibile che Milton parlasse più di un linguaggio: il linguaggio articolato o persino il linguaggio poetico, di tipo razionale e superficiale, in contrapposizione ad un altro tipo di linguaggio, che si potrebbe dire molto più primitivo e molto più simile a quello degli oggetti parziali: oppure degli oggetti che non sono pensati affatto, in altri termini il linguaggio dell’azione prima che ci sia qualsiasi scoperta di un atteggiamento che può essere preso o di una tecnica che può essere impiegata, tra la consapevolezza di un impulso e la sua traduzione verbale” (1992, 366).
Bion sta definendo in questo modo il Linguaggio dell’Effettività, che:
“ include un linguaggio che è sia preludio all’azione sia esso stesso una sorta di azione” (1970,169).
Manica osserva :”forse il linguaggio dell’Effettività è il linguaggio di O; e come accade che O non si possa esperire, ma lo si possa solo essere o diventare, cosi il linguaggio dell’Effettività non può essere detto o descritto, ma può soltanto essere usato o vissuto” (2020, 47).
Credo sia quello che ha permesso la comunicazione tra Davide e noi.
Ritrovo contiguità con quanto scrivono Ambrosiano e Gaburri:
“..potemmo dire che questo speciale incontro, in un setting speciale che mira alla cura del dolore psichico, attivi un campo di idee e di significati non ancora nati nella mente di qualcuno” (2011,116).
V
Incontrando il “negativo” (Green,1993).
Ho trovato dolorosamente suggestiva la descrizione che
Blankenburg fa della sua paziente Anna Rau:
“l’assenza di famigliarità con gli usi del suo mondo ambiente”(1971, 7), “A. aveva smarrito l’evidenza” (idem, 49).
Condizione che ritrovo nel commento del fenomenologo Tatossian:
” Prova una grande difficoltà a vivere e le manca qualcosa di minimo ma anche di decisivo e fondativo, che gli Altri possiedono senza sforzo”(1997, 53), rinnovando, con l’uso d’altro linguaggio, il modello proposto da Bion, la fallita capacità nutritiva somato-psichica della funzione materna(seno-revêrie).
Il tema è presentato (nei suoi modi) da Winnicott, là dove affronta la risposta all’assenza (fisica, psichica) della madre nel piccolo, vettore, se eccessiva, della scomparsa dell’immagine interna :
“Man mano che questo ha luogo, i fenomeni transizionali diventano gradualmente privi di significato e il bambino non è in grado di viverli ” (1971,44).
Ovvero l’oggetto non-io, che il bambino inizia ad avvertire come oggetto soddisfacente, perde le sue connotazioni positive, viene disinvestito e sostituito dalla possibile assenza di rappresentazione. E’ Green a riprendere il tema dell’abbandono affettivo, del lutto che iscrive nell’immagine della “madre morta” (1980), condizione intesa, prosecuzione del pensiero di Winnicott, come fallimento del primitivo, ineludibile, investimento libidico da parte della madre depressa, emotivamente distante, nei confronti del piccolo. Scomparsa allora dell’imago vitalizzante e la conseguente perdita di vitalità del bambino, il vuoto, il “negativo”, che Green ci invita a cogliere nel paziente non nevrotico “in corso di relazione terapeutica” (2002, 173).4
Mi è accaduto con una giovane paziente, relazione psicoanalitica che ho vissuto come modello di situazione “limite” e di cui scrissi anni fa (1997).
Giovanna è una ragazza di vent’anni che seguo, per una grave sofferenza che esprime attraverso isolamento, comportamenti bizzarri, angoscia devastante.
Alla conclusione del quarto anno di analisi (tre sedute settimanali) una parte sul lettino, una parte nascosta dietro una poltrona, mi comunica singhiozzando che tra poche settimane dovrà lasciare la città e me, per via del trasferimento della famiglia in altra sede. La seduta successiva si siede per terra, non mi guarda, sta in silenzio. Alla fine della seduta raccoglie dalla borsa un foglio, lo accartoccia, lo getta a terra. Le chiedo se posso tenerlo, lo raccolgo. Annuisce ed esce. Leggo: “Sono terrorizzata, dovrei urlare, andare a pezzi, perdermi, impazzire, il bambino puzzolente che nessuno vuole tenere in braccio”.
Ritengo che l’aver raccolto il pensiero stropicciato di Giovanna, ripensandolo poi con lei, l’abbia aiutata a conservare la presenza di un buon oggetto, esperienza che le ha consentito di ritrovarlo rinnovato nella nuova sede e di proseguire con lui(analista)il percorso analitico.
Tragicamente diversa la risposta di un grave psicotico.
Seguo il ventenne Antonio da circa due anni, tre sedute alla settimana, fantasie deliranti, fuga dalla vita, ritiro. Mi chiede, sento, nelle ultime sedute, d’essere aiutato a vivere in quanto presenza nella mia mente.
Insieme teme l’espulsione, il mio scomparire, il lutto come condizione emotiva non tollerabile. Nella seduta precedente ho comunicato ad Antonio l’avvicinarsi delle vacanze estive.
Entra, è risuonata dentro di lui la parola suicidio: << Ho diviso la parola SUICIDIO e sa cosa ho capito? SUI vuol dire SONO ICI, vuol anche dire QUI DIO.
DIO è la voce che mi suggerisce di essere una divinità ma anche di sperimentare la morte>>.
Antonio risponde disperatamente alla non tollerabilità della mia scomparsa, spingendo dentro di me la tragedia del lutto, evocata dal potere onnipotente attribuito al suicidio. Sento in Antonio il tentativo di strappar via l’intravista possibilità di riconoscere in me la rappresentazione del buon oggetto5, del legame con esso che sta condannandolo all’insostenibile assenza. E’ lui ora a rispondere all’intollerabilità della mia scomparsa divinizzando il trionfo del suo non esserci. Morte allora come conclusione del fallimento libidico, disperato trionfo scrive Reed, riproponendo e rinnovando il pensiero di Green:
“Pulsione di morte che si manifesta nella funzione disoggettualizzante, ritira l’investimento, dissolve le connessioni, disconnette il significato dalla ricerca di soddisfazione”(Reed, 2013,36).
-Alice, paziente anoressica: << La paura che la gente normale ha di morire, io
l’ho di vivere>>.
Ambrosiano e Gaburri: “L’istinto di vita è più misterioso della pulsione di morte” e aggiungono:
”Come accade che l’individuo accetti il rischio di vivere pur dinanzi a dimensioni oscure che lo travalicano indifferenti”(2013, 17).
Bion: “ Somite ventiquattro: Tu hai dei pregiudizi. Se avessi saputo che mi sarebbe cresciuta un’anima sarei rimasto un feto” (1979,32).
VI
Altri percorsi.
Incontro in Ambulatorio il diciassettenne Pietro. Il padre chiede di parlarmi perché il figlio non ha intenzione di farlo.
Lo saluto senza risposta, pallido, sciatto, mi guarda appena, fermo sulla soglia, sulla soglia di cosa?
Poco dopo, iniziato il colloquio con il padre (giorni chiuso nella stanza, terrore, fantastica sull’immortalità), esplode in una risata disperata, una sorta di urlo che ripete più volte, anche quando gli dico del mio progetto psicoterapico, al quale, poi, aderirà.
In Fairbain ho trovato una prima chiave di lettura, di conferma; il mondo dentro il quale sono immerse, bloccate, certe strutture psicotiche è avvertito come resa all’oggetto cattivo, come paradossale difesa dall’aggressione demoniaca :
“ In un mondo governato dal diavolo l’individuo può sfuggire alla malvagità d’essere un peccatore, ma egli è cattivo perché il mondo che lo circonda è cattivo” (1952, 93).
Dopo qualche mese di lavoro Pietro urla:<<Vogliono che diventi un martire della rivoluzione!>>.
La dipendenza che avverte è associata alla presenza di pericoli mortali, a richieste che chiedono obbedienza e, ora, la sua distruzione sacrificale.
Stiamo un poco in silenzio, è torvo, poi mi guarda e dice piangendo: << Ho paura che lei possa lasciarmi se non le porto le cose che la interessano>>.
Riprendo con Grotstein questa condizione:
“ Il patto fatale per la salvezza” di chi, offeso all’assenza di nutrizione emotiva, si affida “ cercando disperatamente sollievo e protezione, in realtà vendendo l’anima al diavolo”( 2010,26).
Il passaggio fondamentale, l’investimento sull’oggetto cattivo, il persecutore, significa concedersi all’oggetto invasivo (in un percorso che permette l’affiorare disperato di proto-esperienze inconsce):
“ in un’angoscia di implosione[…]conseguenza insopportabile dell’invasione oggettuale” (Green, 2002,176).
Alice sogna:<< Mi dovevano fare un’anestesia peridurale ma non era fatta in basso, nel collo invece. Ero molto spaventata, usciva sangue molto scuro che sembrava non fermarsi.
Io: <<Chi doveva, deve aiutarla ha cercato di svuotarla, di rubarle il sangue, la vita>>.
Alice singhiozzando: <<No, lei no, lei no>>.
Io: << Penso che questa terribile sensazione continui a dominarla. Presenze
che tentano di spegnere la sua spinta a vivere, a cui risponde fuggendo da ogni legame, la scelta anoressica>>.
Alice, senza guardarmi: <<Forse>>.
Alice ha tragicamente illuminato quello che Bollas ha proposto come “ introiezione estrattiva”, furto e distruzione di parti fondamentali del Se, collocate nel “conosciuto non pensato” (1989, 141).
VII
Accade di dare spazio a momenti trasformativi nella relazione terapeutica, quando lo stare insieme con il paziente, il nostro comunicare, consente maggiore comprensibilità, una trasformazione del rapporto in un avvertito, consentito, scambio creativo tra contenitore e contenuto.
Antonio, al quarto anno di terapia. Da diverse sedute si sono ridotte le fantasie di violenza, ha ripreso a pensare al percorso universitario. Mi guarda e dice che incomincia a capire che io tengo a lui. Sta in silenzio qualche minuto, mi guarda nuovamente, è allarmato, dice che da qualche giorno teme che io sia gravemente ammalato, altro silenzio, piange, dice: << Non so cosa devo fare>>.
Avverto in me un insolito sentimento di tenerezza, penso alla madre, un alternarsi di ricoveri per gravi momenti melanconici.
Dico che il suo sentire in maniera intensa la presenza di un legame tra noi lo ha emozionato e spaventato, teme che accada nuovamente d’essere lasciato, abbandonato.
Mi guarda in silenzio, qualche minuto. Dice: << Non credo che lei stia male, sto male io>>.
Tenta un sorriso, finisce la seduta, si alza lentamente, esce.
Resto seduto, ripenso all’accaduto, ho la convinzione che Antonio sia stato, questa volta, più di altre volte, in grado di utilizzare le interpretazioni.
Mi accorgo che sto dimenticando la mia inconsueta facilità, oggi, di dare significato alle comunicazioni di Antonio e, insieme, di restituirle maggiormente utilizzabili.
Rifletto sulle avvenute capacità nei pazienti non nevrotici di acconsentire a che l’insostenibile nuvola emotiva in cui sono confusi oggetti buoni e cattivi si diradi e permetta di riconoscere, scoprire, creare, il legame con l’oggetto pensante, con cui pensare.
Quello che è necessario accada è stato pensato da Winnicott:
“ Questo interpretare da parte dell’analista, se deve avere effetto, deve essere messo in relazione con la capacità del paziente di collocare l’analista fuori dall’area dei fenomeni soggettivi” (1971, 152).
Antonio non confonde, non sono l’ombra di una madre che non riesce-non vuole essere quello che il figlio chiede.
Cito ancora Winnicott: “di fatto, un riconoscimento di esso (di me analista , aggiungo) come un’entità per se stessa” (idem, 157).
Io sono ora un “oggetto” non malato, non fuggente, non troppo confusivo ( quell’oggetto è stato “distrutto” da Antonio). Riconsegnata la mia autonomia, può “usarmi” (Idem, 164).
VIII
Inquieto percorso, il mio, e inquiete affermazioni hanno caratterizzato il tentativo di dare espressione simbolica agli avvenimenti incontrati, le esperienze con pazienti devastati da catastrofi psichiche.
Il muovermi nel procelloso percorso che ho incontrato nelle esperienze analitiche, nello scrivere di esse, mi ha avvicinato alle considerazioni di Conrad sul navigare, sull’incerto oscillare della vita del marinaio, avvicinata alla nostra, psicoanalisti naviganti inquieti nel mare delle emozioni Ps<–>D.
Scrive Conrad sul far partenza e cercare approdi e sulla necessità di possedere emblemi di speranza.
“Dall’inizio alla fine i pensieri di un marinaio si volgono preoccupati alle sue ancore[..]L’inizio e la fine di ogni traversata sono indicati distintamente da manovre alle ancore della nave” (Conrad, 1905, 23-24).
Ritengo che la mia ancora, emblema di speranza, sia presente nella forma dell’atto di fede (Bion,1970) che tra il far partenza e approdi analitici, mi ha permesso di dare credito alle esperienze, alle intuizioni, agli elementi K affioranti dall’infinito O.
SINTESI E PAROLE CHIAVE
Riprendo in questo contributo il tentativo di dare significato a interazioni psicoanalitiche con pazienti psicotici, la cui sofferenza, la fragilità dell’esistere è iscritto negli stati primitivi della mente, l’inconscio non rimosso, non sufficientemente rappresentabile. Condizione proposta come conseguenza di irruzioni pulsionali precocissime, grezzamente trasferibili in proto-emozioni persecutorie, terrifiche o nel nulla, nel “negativo”.
L’assente o precaria rappresentabilità simbolica, la fragilità e, insieme, la disperata tenacia del legame transferale, le patologie del tragitto simbolico, avviano nell’analista fantasie immaginative, operazioni intuitive, il “sogno per due“, la funzione alfa dell’analista e il Linguaggio dell’Effettività, Language of achievement, in sintonia con il pensiero di Bion.
PAROLE CHIAVE : Pre-concezione, stati mentali primitivi, lutto, il “negativo “, creazioni intuitive, sogno-della-veglia, elementi beta, funzione alfa, Language of achievement,“fede “.
NOTES ABOUT THE (UN) REPRESENTED
Reflections on the psychoanalysis of psychotic states
SUMMARY AND KEYWORDS
In this contribution, once again I attempt to give meaning to psychoanalytic encounters with psychotic patients, whose suffering and fragility of existence is inscribed in the primitive states of the mind: the unremoved unconscious, not sufficiently representable. A condition proposed as a consequence of very precocious instinctual irruptions, crudely transferable into persecutory or terrifying proto-emotions or into nothing, into “the negative”.
The absent or precarious symbolic representability, the fragility and, together, the desperate tenacity of the transference bond and the pathologies of the symbolic journey, initiate imaginative fantasies in the analyst, intuitive operations, the “dream for two”, the analyst’s alfa function and the Language of achievement, in tune with Bion’s ideas.
KEYWORDS: Pre-conception, primitive mental states, loss, the “negative”, intuitive creations, dream of waking, beta elements, alfa function, Language of achievement, “faith”.
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Winnicott D. (1971) Gioco e realtà. Roma, Armando, 1976.
1 “Non capisco perché cosi spesso non venga menzionata la Sfinge. Forse perché fini col suicidarsi e non sappiamo se esercitare la nostra curiosità o farla fuori” ( 1997, 52).
2 Devo a Manica (comunicazione personale) l’avermi rimandato al pensiero di Tellenbach e al suo Endon: “ Non il biologico, tanto meno l’esistenziale. L’endon è il risultato dell’impronta della natura e dell’ambiente umano sull’individuo. L’organismo è istruito dal cosmo e il soggetto si fa istruire e istruisce l’organismo” (1961, 19).
3 Tro’mos/Terrore è la condizione essenziale proposta da Manica (2020), quella che ostruirebbe, nelle sue diverse configurazioni, le possibili evoluzioni, nello psicotico, dello sviluppo mentale.
4 Testimonianza del pensiero di Green come prosecuzione del lavoro del “negativo “ gìà presente in Winnicott è lo scritto “Jouer avec Winnicott, 2005 “.
5 Penso alle parole della Klein: “…abbiamo la sensazione che ci divorino, prendendo da noi tutto quello che possono” (2017,123).
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