che noi possiamo dare della nostra dignità
questo ardente singhiozzo che passa di era in era
e viene a morire sulle rive della tua eternità!”
(C. Baudelaire, Les Phares)
Quante volte gli psichiatri hanno letto o si sono sentiti ripetere didascalicamente (e anche un po’ minacciosamente) che il suicidio è il loro rischio professionale specifico, essendo gli specialisti della relativa branca della Medicina che l’ha incluso nel proprio campo di valutazione e nel proprio raggio di azione tecnica?
La risposta sarebbe: un numero di volte sufficiente a rendere il suicidio una sorta di oggetto persecutorio non in quanto possibilità umana di cui, come tale, partecipano in modo perturbante gli stessi psichiatri, ma in quanto potenziale innesco di colpa e di condanna (sentite in prima persona o attribuite da altri), evidenza di mancanza o di fallimento dello specialista nel suo ruolo di soggetto tecnico deputato quasi a mondare l’esperienza umana dal suicidio, come implicato inevitabilmente dalla decifrazione di quest’ultimo nel senso pressoché esclusivo di un’aberrazione naturalistica.
Nell’orizzonte tecnico il suicidio diventa un oggetto muto e passivo di applicazione, che riceve significazione solo dalla sua lettura “sintomatica” e dall’operare teso a sventarlo, finendo con ciò stesso relegato in una sorta d’irrappresentabilità umana e in una fondamentale alienità dell’atto e dell’attore.
Ma se ci traiamo fuori da questa secca, cosa può rivelare o svelare il suicidio come fenomeno umano manifestantesi in ogni tempo e a ogni latitudine?
Partiamo dallo sconcerto e dall’incredulità che seguono la notizia di un suicidio, sia esso prossimo a noi o più o meno lontano.
Per quanto possa apparire ingenuo, è inevitabile per coloro che sopravvivono al suicida chiedersi come sia stato possibile per lui condursi con feroce determinazione a rinunciare per sempre alla forza trascinante di progetti esistenziali (“ci sono tre grandi forze nella natura: le montagne, gli oceani e un uomo impegnato” diceva Aldo Carotenuto), alle sorprese che sempre possono riservare l’imparare e il conoscere, o anche solo al tepore discreto e imperfetto di amori e amicizie, ai ricordi confortanti e alle speranze resistenti nonostante tutto; oppure alla possibilità di assaporare un cibo gustoso, un buon vino, al godimento nelle sue varie forme. Insomma a quel lato dell’esistenza che rimane in tenue luce e che in fin dei conti costituisce, se si escludono le grandi narrazioni trascendenti e religiose che ormai da tempo paiono al loro tramonto, il tratto assiologico più basale e laico dell’esistenza, ciò che la può sottrarre almeno momentaneamente alla reductio ad absurdum in cui parrebbero trascinarla il dolore che la innerva e la perdita che è sempre in agguato. Dolore e perdita, infatti, non sono esperienze aberranti una presunta fisiologia esistenziale ma la tessitura fondamentale, tacitamente continua quando non drammaticamente urlante, dell’esistenza stessa.
Quand’anche si credesse però di evitare una simile ingenuità, si scivolerebbe nell’altrettanto “facile” rispondersi, quasi in modo tautologico, che il dolore morale – o la “malattia dell’anima” per la scienza medica – abbia “semplicemente” schiantato e azzerato tutti quei sopra nominati legami “positivi” con la vita, quelle lievi ma per lo più resistenti nervature di senso, facendone emergere prepotentemente il lato oscuro, smascherandole agli occhi del suicida come l’inganno di un dio subdolo e malevolo che attraverso la loro parvenza illusoria impedisce solitamente suicidi di massa.
Sempre, si ribadisce, che non si preferisca da subito percorrere la strada della confortante equivalenza tra suicidio e comportamento sintomatico di un processo mentale reputato sempre patologico e quindi porsi di fronte al suicidio con l’aria di chi sa già tutto, ha visto tutto e classificato tutto.
Il fatto è che il suicidio portato a termine con successo è sempre misterioso e dal di fuori sembrerebbe fondamentalmente irrappresentabile.
Dal punto di vista di chi sopravvive e “osserva” esterrefatto, addolorato o incredulo il suicidio, sembrerebbe che si abbia a che fare con l’”elemento beta” estremo, impossibile a essere trattato e reso “digeribile” da alcuna “funzione alfa”.
E se pure il suicidio come atto soggettivo, unico, irripetibile, avesse una sua rappresentabilità e comprensibilità “interne”, un sistema semantico intrinseco, esso sarebbe in mano unicamente al suicida e dunque, come tale, non sarebbe comunicabile.
D’altronde non si può neanche escludere in linea di principio che, persino al suo interno, il suicidio possa non emergere altro che da un oscuramento semantico globale, da una sorta di grado zero di ogni funzione alfa, dal collasso gravitazionale nel suicida di qualsiasi proiezione significante, e dunque comunicativa, nel mondo.
Se una o più di queste condizioni ora delineate dovesse rivelarsi verificata, il suicidio affonderebbe per sempre nelle brume di una spietata, indefettibile insensatezza. Anzi di più: in una sorta di orizzonte degli eventi dove le leggi del conoscibile e del dicibile non avrebbero più non solo significato, ma, più radicalmente, alcuna concepibilità.
Qualsiasi “suicidologia” sarebbe così impossibile o ingannevole. E invece una siffatta disciplina esiste, per quanto, a parere di chi scrive, le teorie “tecniche” sul suicidio rimangono comunque, in fin dei conti, convenienti mediatori concettuali di un evento dolorosamente resistente ai tentativi di addomesticamento nomotetico.
Il suicidio può invece forse aspirare a una sua semiotica (non solo dunque a una “semeiotica” clinica) proprio allontanandosi dalla pretesa di una sua decifrazione tecnica e del suo asservimento a una scienza dell’utilizzabilità (nel senso del piegamento del fenomeno a variabili parametrabili, prevedibili, allo scopo di farlo oggetto di prescrizioni tecniche tese a prevenirlo e a scongiurarlo, in una parola a “padroneggiarlo”).
Allontanandosi però in direzione di cosa?
Partiamo dal fatto che viene spontaneo immaginare il suicidio come un atto immerso in un’estrema solitudine, nella scomparsa di qualsiasi riferimento vitale all’altro. In definitiva nell’assenza radicale dell’altro.
La solitudine non è tuttavia il vissuto dell’assenza dell’altro, perché l’altro è fenomenologicamente “pre-messo” nell’io. Perlomeno se lo intendiamo alla luce della sua concezione fenomenologica, in particolare quella di ascendenza heideggeriana.
L’altro non procede da una secondaria e cartesiana deduzione operata da un primigenio io che parta dall’unica certezza cui può ambire, ovvero quella di se stesso (“cogito ergo sum”), ma è piuttosto, all’inverso, l’io-qui, Soggetto o Coscienza, che s’individua come io solo a partire dalla percezione dell’altro-là. A tal proposito Heidegger in Essere e Tempo (1927) cita Von Humboldt che aveva richiamato l’attenzione su quelle lingue in cui l’”io” si esprime col “qui”, il “tu” con il “lì” e l’”egli” con il “là”, in cui cioè i pronomi sono resi con gli avverbi di luogo, suggerendo il senso di uno spazio condiviso ab initio.
In questa prospettiva ciò che chiamiamo “senso di solitudine” sarebbe perciò fenomenologicamente tematizzabile piuttosto come il vissuto del silenzio dell’altro; il vissuto dell’altro che, interrogato, sembra non rispondere (poiché sempre, anche nel soliloquio, risiede un’interrogazione dell’altro).
Un uomo, infatti, se lo intendiamo come Esserci, non parla mai solo a se stesso, in quanto porta in sé, sempre, l’immagine dell’altro. Non nel senso del suo fantasma, ma, per così dire, l’altro “in carne e ossa”, perché senza la percezione primigenia di esso non sarebbe mai potuto apparire alcun “io” (suggestivamente qui viene da pensare alla simulazione incarnata e ai neuroni specchio come traduzione biologica di questo accoppiamento fenomenologico).
Anche nell’atto del suicidio, dunque, in cui possiamo pensare che l’uomo suicida raggiunga il grado estremo della solitudine percepita, sussistono un interrogante (il suicida), un’interrogazione che inerisce all’atto-in-sé (cioè che non ha bisogno di una formulazione linguistico-simbolica dichiarativa) e un interrogato. Sussiste quindi, in definitiva, una relazione.
Chi è l’interrogato dell’atto suicidiario, postulato che esso non sia “insensato”, non sia privo di una sua semantica e più in generale di una sua semiotica?
Potrebbe essere Dio, per chi è disposto a riconoscere a questo Altro una qualche consistenza.
Ma, insieme a lui o senza di lui, gli interrogati sono essenzialmente gli uomini, non solo quelli prossimi al suicida, ma quelli di ogni luogo e di ogni tempo. Tutti gli uomini già stati, quelli viventi e coloro che saranno.
Tutti, uno per uno, guardati negli occhi e scrutati spietatamente nelle pieghe più profonde dell’animo.
E a interrogarli uno per uno e in ogni tempo è ogni singolo atto suicidiario portato a termine, in qualsiasi tempo e angolo della Terra, anche quelli di cui alcuno abbia mai avuto contezza o memoria.
Quale domanda potrebbe riecheggiare in questo sconvolgente, eppure “umano, troppo umano”, atto?
Potrebbe essere la stessa da cui nasce un’attività dell’uomo che è stata denominata filosofia. Non la filosofia che, nella distorsione diffusa di una società e di un tempo tutti tesi al guadagno dell’utilizzabilità tecnica, è concepita come vana disciplina intellettuale priva di ricadute reali e d’impatto nelle viscere profonde della quotidianità umana, ma quella della praxis, dell’agire pratico-morale, ma soprattutto del lebenswelt (il mondo vivo) in cui si muovono gli uomini, intesi non come universali astratti ma come esseri particolari, “patenti” e, soprattutto, mortali (da Omero in poi gli uomini sono βροτοὶ – brotoi -, ossia gli esseri destinati alla morte, in contrapposizione agli dèi, ἄβροτοὶ – abrotoi -, immortali; ma gli dèi sono anche beati, laddove gli uomini sono per definizione δειλοί – deiloi -, gli infelici).
Questa filosofia, che fondamentalmente nasce dalla paura della morte, si concepisce come fenomenologia dell’esistenza, sembrando opporsi a quella intesa tradizionalmente come metafisica e ontologia, ovvero a quella che nasce dalla famosa domanda “perché vi è in generale l’essere piuttosto che il nulla” formulata in modo esplicito da Leibniz.
Questo quesito, nella filosofia intesa come fenomenologia dell’esistenza umana, non è superato o contrapposto a un interesse più precipuo per l’uomo come soggetto particolare, ma solo trasferito dal livello ontologico a quello esistenziale e a veder bene la sua grana profonda è la medesima.
Albert Camus però ha posto la questione con chiarezza e quasi crudezza nell’incipit del suo “Il mito di Sisifo” (1942): “Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia”.
Ecco il punto: il suicida con il suo atto ri-pone in modo radicale, a chiunque sia in grado di coglierla e raccoglierla, la domanda se nell’esistenza sia rintracciabile qualcosa che possa far valere la pena di rinunciare a una morte auto-inferta, di rinunciare a una rinuncia apparentemente deliberata.
Non si sta qui affermando che il suicida sia sempre una sorta di filosofo che pone al mondo e agli uomini questo quesito nella sua forma compiuta, auto-trasparente, una sorta di Socrate esistenzialista che scelga la morte come testimonianza, né che il suo suicidio sia un gesto volutamente proto-filosofico.
Anzi, non è propriamente egli, inteso ingenuamente come creatore e dominus del discorso, a porre una simile interrogazione, ma è piuttosto la domanda che per porsi s’impadronisce del suo atto. La domanda s’invera, per così dire, nell’atto suicidiario; per mezzo suo, essa irrompe nell’esistente e s’impone al sopravvivente.
Ogni questione posta nella forma del domandare attesta uno stato di mancanza e di finitezza in cui versano contemporaneamente colui che pone e colui al quale si rivolge la domanda.
A partire dall’età moderna, proprio da quel Cartesio sopra nominato, la cesura tra soggetto e oggetto domina la rappresentazione dell’uomo posto di fronte al mondo e alla realtà. Così il mondo in cui l’uomo è gettato – ovvero scagliato storicamente – assume, a causa della sua estraneità e distanza dal soggetto, forma di discorso. E non può non assumerla, perché la realtà cosiddetta “esterna” passa attraverso la forma “interna” del pensare e del dire. Certo il suicidio è una possibilità che accompagna l’uomo sin dal suo primo apparire nel mondo, ma nella modernità il dialogo interiore si radicalizza, dando forma al soggetto moderno che rischia di trovarsi in posizione solipsistica di fronte al mondo e all’altro. In alcuni stupefacenti e inquietanti versi di una poesia di Andrea Zanzotto, intitolata “Esistere Psichicamente” (1957), è raffigurato il rischio del soggettivismo estremo implicato dal cogito cartesiano: “da tutto questo che non fu / primavera non luglio non autunno / ma solo egro spiraglio / ma solo psiche, / da tutto questo che non è nulla / ed è tutto ciò ch’io sono”.
“tutto questo che non è nulla ed è tutto ciò ch’io sono”: la distanza del soggetto dal mondo esterno appare talmente abissale – perché sempre mediata dalla psiche, unica realtà indubitabile – da far sorgere il terrore che non esista più nulla che sia veramente, tangibilmente “esterno”, che non esista altro fuori dalla magmatica attività psichica, che il reale si riduca all’abisso dell’interiorità (“io tutto / avvampo e sono mente”), dal quale non sarebbe possibile evadere. Cotard qui sembra assumere una dimensione universale e primigenia.
Il domandare cui si fa riferimento è tuttavia qualcosa di più originario ed essenziale del discorso interiore a rischio di smarrimento proprio dell’uomo moderno e postmoderno. È quello che in una famosa sentenza di Heidegger è così definito: “il domandare è la pietas del pensare”.
Qui la pietas, originariamente indicante il radicamento dell’uomo in un atteggiamento di fede e di devozione (ricordiamo l’antonomastica pietas di Enea, detto perciò “pius”), rimane declinata in quell’accezione originaria e vuol intendere che l’uomo trae la propria singolare specificità, rispetto agli altri esseri viventi, dalla capacità di porre domande come partitura fondamentale del suo pensare e in definitiva del suo essere.
Non è tuttavia qualsiasi domandare o qualsiasi discorso ad attestare la pietas del pensiero, ma soltanto quello che sorge da una sorta di discorso originario, protologico, “primo” non per gli effetti che produce ma perché radicato nei principi primi dell’esistenza (e forse, se non appare troppo roboante, dell’essere), rapsodico nel suo andare e non sistematico come invece è il pensiero strumentale che mira al dominio delle cose.
La domanda posta col suicidio racchiude e mantiene in sé il tempo passato come rimando a tutti i suoi antecedenti; si presentifica nell’attualità del suo realizzarsi particolare; si volge verso il futuro in quanto rilancia l’assenza o perlomeno la sospensione della risposta.
Essa è “vasta” in quanto confina con il nulla; è “profonda” poiché guarda a un fondamento dell’esistenza così primigenio da risultare abissale; è “originaria” in quanto implica un orizzonte che abbraccia insieme gli uomini che pongono la domanda e quelli che la ascoltano.
E’ una domanda che in definitiva chiede la ragione o il senso del darsi delle cose, ovvero dell’esistere dell’uomo in una dimensione detta appunto “esistenziale”. Con essa viene a dolorosa luce lo scarto tra l’apparire delle cose e il trovare ragione delle stesse, tra il darsi della realtà e della vita, in qualche modo immediato e antepredicativo, e la loro “comprensibilità” o la loro attribuzione di senso. Un divario che per la gran parte del tempo degli individui si cela dietro la consuetudine dei significati già-da-sempre-dati, un divario che scorre per lo più silente, inapparente per la sovrapposizione di un velo di Maya.
Quel domandare si colloca appunto in questo scarto, o, come scrive Heidegger, nel “rischio”, nel “salto”, nel “pericolo”.
Noi arriviamo a “cogliere” davvero l’altro (che per i sopravviventi è il suicida) e la sua domanda, scoprendola infine come anche nostra, solo nel momento in cui egli esce dalla scena del mondo con un atto nient’affatto straordinario rispetto alla frequenza del suo apparire eppure stupefacente, poiché nel suo essere “presente” prima del suicidio noi lo esperivamo come qualsiasi altro, come muta e a-problematica attestazione di presenza, come pigra evidenza, come inerzia costitutiva, come pallida alterità cui eravamo poco interessati.
Solo nella sua assenza irrimediabile seguita a un atto scandalosamente sedizioso nei confronti di quel “valore della vita” per lo più superficialmente riecheggiato, possiamo riuscire finalmente a “toccarlo” e infine ad ascoltarne l’interrogazione.
E insieme talvolta possiamo riuscire a sentire con autentica compassione che la vita umana è quello spazio impuro in cui si trovano a scontrarsi, ma anche a crearsi reciprocamente, l’elevato e il sordido, il faceto e il disperato, il solenne e il grossolano, la chiacchiera e il raccoglimento silenzioso, l’imprecazione e la preghiera, la comprensione e l’irrimediabile equivoco, la cura e la furia distruttiva, la recita a soggetto e l’improvvisazione, la libertà e la gettatezza, il progetto e la rinuncia, l’aprirsi della scena e il calare di sipari prevedibili, eppure inaspettati.
Autori e citazioni presenti nel testo:
Charles Baudelaire, da “I Fiori del Male” (1857), Garzanti, 1998.
Albert Camus, da “Il Mito di Sisifo” (1942), Bompiani, 2001.
Aldo Carotenuto, da “Aldo Carotenuto. Psicologia di uno psicoterapeuta”, di Roberto Ruga, Armando Editore, 2008.
Martin Heidegger, da “Essere e Tempo” (1927), Longanesi, 2005.
Martin Heidegger, da “Introduzione alla Metafisica” (1935), Ugo Mursia Editore, 2014.
Gottfried W. Leibniz, da “Principi della natura e della grazia fondati sulla ragione” (1714), Liviana Editrice, 1966.
Andrea Zanzotto, da Guida al Novecento, di Salvatore Guglielmino, Principato Editore, 1990.
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