Di nubi interstellari
E ci ritorneremo per il prossimo Big Bang
Uniti nell'abbraccio
Di un punto dello spazio
Cullati dal calore della singolarità
I Cani, Protobodhisattva
“Le nostre visioni del mondo e della vita non si basano sul sapere delle scienze, quanto sui modelli che consideriamo più verosimiglianti.”1 Se una persona pensa che non bisogna mai fidarsi degli altri, non lo crede perché glielo ha detto la scienza, ma perché probabilmente un evento, un certo tipo di cultura o comunque qualcosa derivante dalla sua esperienza lo hanno portato a pensarla in questo modo. Modo di vedere che è sicuramente condiviso da molti scienziati e che nel tempo può cambiare o rimanere stabile. Perciò, se è vero che il sapere scientifico non è alla base delle nostre Weltanschauung, è vero anche che la scienza produce dei saperi che possono condizionare ed avere degli effetti sulle nostre vite.
Si prenda la teoria della relatività di Einstein: per quanto questa nasca da presupposti che hanno permesso un certo progresso scientifico, falsificando gran parte dei modelli precedenti, essa ha anche avuto degli effetti non di poco conto sulle nostre vite (dall’energia nucleare alla bomba atomica che hanno radicalmente condizionato i nostri immaginari).
Oggi, circa cento anni dopo, molti scienziati denunciano il cambiamento dell’ecosistema Terra che potrebbe in pochi anni portare l’essere umano verso una escalation di disastri che renderebbero il nostro ambiente sempre meno adatto alla vita. Eppure, è abbastanza assodato che l’essere umano sia il prodotto di mutazioni casuali che hanno lavorato e lavorano perseguendo l’adattamento e la sopravvivenza. Tale credenza nasce storicamente dalla teoria evolutiva della specie di Darwin che ha condizionato fortemente i modelli di pensiero dominanti nonché il suo contesto sociale. Come scriveva Sergio Benvenuto2 in un suo breve articolo, nonostante la scienza abbia pretesa di verità, la scientificità è prima di tutto un assetto di organizzazione sociale. In sostanza, essendo la scienza inserita nel linguaggio, anch’essa agisce ed è agita da questo come se fosse una particolare visione del mondo. Dunque, avendo proclamato l’essere umano come un essere capace di adattarsi a qualsiasi ambiente attraverso la selezione naturale casuale e causale, ossia la sua esclusiva capacità di poter dominare e addomesticare la natura piegandola al servizio della sua sopravvivenza come verità assoluta, questo modello, oggi, rischia di portare il sapiens verso la sua auto-distruzione.
Insomma, prendendo atto del fatto che la teoria evolutiva di Darwin sia servita per un certo periodo come una narrazione superomistica in cui possiamo adattarci a qualsiasi cosa, si fa sempre più impellente la necessità di provare a cambiare i modelli scientifici di riferimento dato che ad essere in pericolo questa volta è proprio l’essere umano.
Una traccia: la simbiogenesi
La biologa Lynn Margulis dell’Università del Massachusetts è la principale sostenitrice della teoria evolutiva detta endosimbiosi o simbiogenesi, secondo cui se sono apparse nuove forme di vita, lo si deve principalmente a disposizioni simbiotiche permanenti. L'ipotesi è che alcuni organismi biologici siano stati ingeriti da altri organismi, e, poiché ne trassero un vantaggio evoluzionistico di sopravvivenza reciproco, avrebbero sviluppato una relazione simbiotica permanente che nelle generazioni è divenuta indissolubile e imprescindibile; come esempio viene postulato che, nel passato remoto del Precambriano, un batterio aerobico (che richiede ossigeno) sia stato ingerito da un batterio anaerobico (possibilmente avvelenato da ossigeno) acquisendo un vantaggio evolutivo reciproco; nel tempo, il batterio interno ha perso o spostato materiale genetico nel nucleo dell'ospitante per la codifica di tutto ciò che non era più necessario o superfluo. Praticamente, dalla necessità di due organismi diversi si è generato un terzo organismo completamente nuovo che ha garantito la vita. Per Lynn Margulis, e per gli altri scienziati che ne condividono le idee, la principale dinamica evolutiva per gli organismi superiori non è, dunque, di tipo negativo (mutazione + selezione naturale) ma è di tipo positivo, e consiste nella tendenza intrinseca della natura verso la relazione. Tale caratteristica della natura giunge a produrre vere e proprie forme di vita comune di simbiosi, tendenza di organismi differenti a vivere in stretta associazione reciproca e spesso uno dentro l’altro. Tale modello teorico ha portato la Margulis a credere che la vita non conquistò la Terra attraverso la lotta, ma attraverso la cooperazione e la nozione darwiniana di evoluzione condotta dalla selezione naturale è incompleta, sebbene sia da notare che la teoria endosimbiotica abbia comunque dovuto passare le maglie della selezione naturale per essere fissata.
Implicazioni
Quali sono le implicazioni nel considerare la relazione, anziché il conflitto, alla base dell’evoluzione? Quali altri discorsi entrerebbero in quello scientifico se questa teoria dovesse superare effettivamente l’ortodossia darwinista? Come cambierebbe il sistema sociale se si dovesse assumere questa considerazione come visione del mondo?
Negli ultimi tempi, due discorsi considerati storicamente antitetici come la neurobiologia e la psicoanalisi, nonostante parlassero due linguaggi differenti, hanno trovato un punto di contatto proprio nel considerare l’essere umano come un soggetto relazionale. Secondo Allan Schore, lo sviluppo neurofisiologico e biologico del bambino è garantito da un caregiver che, sintonizzando e modulando le risposte diadiche interemisferiche destre, permette una crescita potenzialmente in grado di adattarsi all’ambiente esterno. Attraverso studi effettuati con Risonanza Magnetica funzionale (fMRI), Schore ha scoperto che la comunicazione tra madre e bambino genera stati affettivi intensi. Questi, se positivi, correlano con alti livelli di produzione di dopamina ed oppiacei endogeni che promuovono la crescita della corteccia prefrontale orbitomediale (PFOMC). Questa zona rappresenta l’apice del cervello sociale, gestendo i sistemi motivazionali e di coinvolgimento sociale, di un ottimale funzionamento del sistema immunitario e dei sistemi regolatori come quelli della paura (amigdala) e dello stress (asse ipotalamo-ipofisi-surrene). Se ad un attaccamento sicuro corrisponde una buona maturazione del cervello sociale, in modo opposto, un attaccamento insicuro non permetterà la maturazione ottimale delle strutture coinvolte esponendo l’individuo a un rischio maggiore di ammalarsi. In sostanza, ogni essere umano per svilupparsi e sopravvivere ha bisogno di relazionarsi, detta ancora più semplicemente, l’esistenza stessa è possibile solo grazie a un altro. Il linguaggio mima questo meccanismo. Lo psicoanalista francese Jacques Lacan diceva che il soggetto che parla è innanzitutto parlato dal «grande Altro», la combinatoria di significanti che si rinviano l’uno verso l’altro generando uno spazio topologico paradossale e anonimo: “E’ come se noi, soggetti del linguaggio, parlassimo e interagissimo alla stregua di marionette, come se i nostri discorsi e i nostri gesti fossero dettati da qualche anonimo agire onnipervasivo”3. Il nostro funzionamento biologico è pieno di esempi del genere: basti pensare alla costellazione di batteri che vivono nel nostro corpo nutrendosi di noi, condizionando i nostri stati mentali e garantendo, a determinate condizioni e completamente all’oscuro da noi, la nostra sopravvivenza. La parola stessa si muove in una dimensione anonima e collettiva che coincide con lo spazio dell’intersoggettività, un campo differenziale prodotto dall’irruzione del linguaggio e dalla socializzazione che esso comporta. L’Altro è quindi l’ecosistema, la «struttura» intesa come articolazione di significanti che si rimandano l’uno verso l’altro in un moto differenziale, che sorregge e rende possibile lo stare insieme degli uomini.
Allo stesso tempo, se il linguaggio è la matrice da cui nascono le relazioni e i rapporti sociali, esso, fissando le cose, gli eventi, gli stati d’animo in condensati di significati unici e irripetibili, tende ad appiattire, a conformare e a generare le masse come dei tumori auto-proliferanti. Ed è proprio da questo cortocircuito linguistico che nasce la psicoanalisi. Questa come tendenza a riaprire alle soggettività restituendo agli individui uno spazio al di fuori di un lessico chiuso e soffocante che ha appiattito il desiderio. Se, per esempio, nella cultura precedente esisteva un lessico centrato sul potere disciplinare dell’uomo come custode e difensore dello status quo, attraverso la repressione femminile, generando quella che sarà chiamata isteria, oggi una tendenza a tradurre ed etichettare i propri particolari stati d’animo, vissuti o esperienze in diagnosi psicologiche entrate a far parte del senso comune, è il nuovo modo per mantenere vivo l’imperativo alienante della produzione consumistica senza limiti del tardo-capitalismo. Per il sociologo Frank Furedi4 questo nuovo conformismo è una forma di gestione sociale più sottile e pervasivo di quanto le religioni e le ideologie del passato siano mai riuscite a fare. Anzi, questa nuova forma di linguaggio non solo tende al conformismo ma paradossalmente e, anche abbastanza contro-intuitivamente, tende a un individualismo di massa e all’annientamento del linguaggio stesso. Parole come, ansia, depressione, autostima, sono ormai entrate a far parte dei nostri discorsi quotidiani. La narrazione stessa secondo cui tutti abbiamo bisogno di uno psicologo è il tentativo di mantenere il disagio, la sofferenza, la solitudine, prodotti molto spesso dell’alienazione a cui siamo soggetti, fuori dalle logiche normative di produzione e consumo senza limiti. Introdurre la relazione come fattore alla base della sopravvivenza, come dato fondamentale del desiderio e soprattutto come oggetto di studio scientifico che ha unito discorsi troppo spesso bollati come pseudoscienze, non solo può essere la chiave per restituire al soggetto il suo desiderio (dato che il desiderio è sempre il desiderio per un altro), ma soprattutto può darci una chiave per uscire da quella che ci è stata spacciata come la normalità e l’unica realtà possibile. Insomma, se per la Margulis e Schore l’evoluzione e la vita si reggono sulla relazione in un meccanismo che si autoregola da sè, anche la collaborazione tra saperi tenuti a distanza come scienza e psicoanalisi possono trovare nelle loro alterità, inediti equilibri, punti di vista comuni e nuove traiettorie per uscire da un collasso percepito sempre più vicino e sempre più insostenibile a una coscienza sempre più alienata.
1 http://www.psychiatryonline.it/node/7422
2 Ivi
3 S. Žižek, Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 30
4 F. Furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Feltrinelli, Milano 2008.
0 commenti