La sesta passeggiata viene dopo un lungo periodo di resistenza.
Ho scritto la ‘sesta’ passeggiata quando in realtà è la terza.
Uso la digitazione vocale e l’errore della scrittura è il riflesso della non corretta pronuncia.
L’errore può anche essere ed è sempre creativo quando stabiliamo fin dall’inizio che l’errore deve essere creativo.
Quel che a me interessa in un laboratorio non è il prodotto ma quel che lo precede è quello che segue.
Si chiama scrittura desiderata per questo motivo.
Il desiderio aleggia sempre senza mai realizzarsi nel prodotto nel godimento narcisistico della nostra presenza.
In questa passeggiata parlerò, sto usando la digitazione vocale, alcune riflessioni senza seguire un filo strettamente logico.
È quello che accade durante il laboratorio: seguire a partire dall’input lo scivolio delle sensazioni e delle percezioni che si traducono in scrittura manuale. Penna e quaderno.
Il che non significa anzi non deve significare il limite del foglio bianco e dell’inchiostro.
In questo momento, fuori dal laboratorio, è lontano dal momento in cui dovrà accadere un nuovo laboratorio, sto facendo laboratorio. Sto provando, innanzitutto, la differenza tra scrivere digitando manualmente e scrivere digitando vocalmente.
La predisposizione stessa del corpo varia, le pause sono sottomesse o sposano naturalmente l’andatura della voce.
Per non dire la comodità che si ha nella digitazione vocale mentre ad esempio si cammina.
Non è questo il caso, sono seduto in divano e quando ho un’idea che considero buona digito le parole per esprimerla.
Il corpo crea l’imprevisto e narrare il personaggio dal punto di vista del corpo e dell’occhio, a esempio, che si colloca sulle cose, aleggia, meglio intorno alle cose, meno di quanto farebbe un insetto nel flusso desiderante del polline. Meno dell’istinto prestabilito dell’insetto a posarsi proprio su quel fiore o all’angolo in alto sul soffitto della veranda proprio vicino alla finestra ecc ecc. L’occhio, il cui desiderio si chiama sguardo, non ha prestabilito nulla: né dall’organo né dal sistema culturale che lo ospita. Un certo colore è più o meno significante di un altro per una semplice abitudine. L’occhio ha la sua postura e la palestra e i suoi movimenti si adeguano o sfuggono allo sguardo quando, pur essendo desiderio, non può non accogliere la legge del prestabilito, se così non fosse non avrebbe ragione di essere, senza legge non c’è desiderio e viceversa.
I giochi di parole sono inciampi della parola anche quando gli inciampi vengono costruiti a tavolino. Sull’equivoco e il malinteso.
In modo che il soggetto giochi con le proprie parole, con il significante della propria lamentazione che produce doppi sensi, equivoci e malintesi. Indirizzare la lamentazione verso l’enigmaticità che produce il vuoto insopportabile. Insopportabile perché non simbolizzato e sconosciuto. Si tratta, insomma, di consentire al soggetto di conoscere il linguaggio che lo abita.
I laboratori non servono a produrre oggetti da vendere ma semmai a scoprire e giocare con il proprio oggetto Agalma. I laboratori non sono luoghi omologanti. Il laboratorio è un luogo dove il soggetto disagiato è messo nelle condizioni di lavorare a partire da quel che incontra nel reale del quotidiano, dove si favorisce la causazione del desiderio e la progettazione della propria soggettività; nel laboratorio si insegue il tragitto desiderante a partire dalla parola del soggetto partecipante a consentire di trasformare la lamentazione in una propria decisione, desiderazione.
Dimmi una sola parola e io sarò salvato, meglio ancora, inventa un motto e mi salverò…
Il vuoto deve permanere nella propria vuotezza, nella propria positiva entità di niente.
Fare pace con il nostro ‘del’ del non-saper dire, ecco, è il primo passo verso il riconoscimento del proprio desiderio… con l’accettazione del suo fraterno vuoto che ne permette il perenne ciclo.
Si narra senza raccontare e in questo modo si differisce la storia senza differenziare il contenuto e renderlo plot o, appunto, narrativo. Questo è quel che si intende per in-narrazione desiderante: non solo scomunicazione incomprensibile, derazionalizzata di io, ma trasmissione di un sentire che attraverso le parole, ma non solo, ci possa condurre a patti con il nostro desiderio, laddove, patologicamente, lo abbiamo smarrito o vi abbiamo rinunciato del raziocinio volontaristico dell’io voglio e dell’io devo.
La scrittura asemica, il puro gesto che ci permette di discrivere di disegnare fuor dell’assillo del significante, del senso e senza forzato utilizzo di lettere per come le conosciamo comunemente.
A esempio la descrittura cromatica: utilizzo di colori e di-segni in una direzione che non deve irreggimentarsi nell’essere comunicativa, e più figurata, ma anche, e soprattutto, distrazione dall’io, abbandono.
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