Percorso: Home 9 Recensioni cinematografiche 9 “Disconnect” di Henry Alex Rubin di Isabella Bernazzani

“Disconnect” di Henry Alex Rubin di Isabella Bernazzani

11 Feb 14

Di Redazione Psychiatry On Line Italia
Il  film “Disconnect “di Henry Alex Rubin  è un viaggio sull’onda del paradosso e dentro alla sommersa solitudine dell’uomo.
I personaggi del film sono tutti “collegati” , anzi  “overconnected” con tutti, in un mondo fatto di “reti”informatiche, tablet, social network, smartphone, computer.
La rete  accorcia le distanze delle relazioni , sposta in avanti i nostri confini.
 L’altro sembra lì , a portata di mano, tangibile, vicinissimo, disponibilissimo, facendoci sentire immediatamente artefici  del contatto.
Un contatto virtuale, che fa entrare in uno spazio così facilmente idealizzabile, che alimenta fantasie infantili di onnipotenza : tutto è lì a portata di mano, inghiottiti e fagocitati dal profondo bisogno di non sentirsi soli  e finalmente  esser “visibili “agli occhi degli altri.
Agli occhi che le persone che  ci vivono accanto non ci vedono più , occhi che guardano e non vedono, non entrano più ad esplorare il dentro, cosa si sente, cosa si prova.
 Nessuno chiede più come stai, né i padri ai figli, né  i mariti alle mogli né le mogli ai mariti, e ognuno rimane “solo” col proprio dolore, con la propria infelicità, con il proprio lutto, con la propria tristezza.
Nel film  si respira un  vento gelido, il vento dell’indifferenza,  della mancanza di un “contatto caldo “e di una comprensione reale.
I personaggi del film non sembrano aver avuto nessun posto  dove mettere  il dolore  se non in loro stessi. Sommersi dalla disperazione silenziosa , c’è chi lavora in eccesso e non sa godere delle vere relazioni umane, c’è chi  si rifugia  nelle proprie fantasie, chi usa il corpo come veicolo di eccitazione  in relazioni virtuali con  una spinta  molto più intensa che non vivere  il contatto con persone reali, c’è chi  entra nella eccitante perversione del sadismo camuffato dall’ilarità e dal gioco.
La trama , raccontata nello stile  documentarista del regista   è un mosaico di vicende  profondamente  drammatiche e tragiche  dove i personaggi sono tra loro sconosciuti nella vita reale, ma  le loro storie  si intrecciano nella via del virtuale.
Le vite disconnesse dei protagonisti sono paradossalmente connesse  nella rete.
Laddove non si parla più, non ci si guarda più negli occhi, non si ha più il tempo dell’ascolto, dove l’indifferenza, il vuoto di emozioni , il silenzio e l’incapacità di vicinanza emotiva dentro alle relazioni coniugali, genitoriali, professionali,  lascia soli  , ha il sopravvento l’”oggetto” .
 L’oggetto inanimato si anima per prendere  il posto delle relazioni umane.
L’incertezza dei piaceri derivanti dai rapporti reali lascia allora ampio spazio per  fantasie, talvolta eccitanti, talvolta perverse,  talvolta drammatiche  , tutte  comunque  dentro ad un mondo segreto e solitario.
L’oggetto diventa  allora sovrano indiscusso, assoluto, il “contenitore” del dolore , del disagio, dei drammi, del vuoto esistenziale .
Nel film la risposta a tutto ciò è tragica,  perché    forse tragica  è la consapevolezza  che sono i rapporti umani ad esser “dis-collegati”.
 La vita reale “offline” si contrappone alla vita virtuale “on-line” a riempire di emozioni  e atmosfere che non  appartengono loro.
Eppure in ognuno dei personaggi del film emerge la disperata ed inconscia  ricerca di contatti umani.
Si susseguono le vicende e le storie familiari di una coppia in crisi  , che la morte  non elaborata di un figlio  ha estraniato , dove  il dolore lacerante  del lutto allontana  distruggendo la capacità di soffrire insieme.
 Ognuno  cerca sollievo  in una sorta di difesa ipomaniacale dalla sofferenza  in contatti eccitanti, che corrono sul filo del rischio e della pericolosità.
Ma  l’urgenza di trovare un “contenitore” trascende altre valutazioni razionali.
Sarà  un detective informatico ( ex-poliziotto frustrato  per dover assolvere da solo ad un ruolo genitoriale  che si trova improvvisamente ad assumere) ad aiutare la coppia in crisi. Il detective è al contempo  padre di un ragazzino  che vive in solitudine i propri conflitti adolescenziali  e che sadicamente è l’artefice di un atto di bullismo in rete  nei confronti di un tenero adolescente , alle prese con i propri problemi di identità , solitudine,  e depressione che vive  in una famiglia con un  padre, avvocato ,immerso nel proprio lavoro e nel proprio cellulare , inconsapevolmente   assente dalla vita dei propri figli.
C’è poi la storia di un giovane ragazzo  solo, che si esibisce su siti per soli adulti in una full immersion eccitante  dove l’ipersessualizzazione  masturbatoria e solitaria , sostituisce   il contatto umano vero , e che una giornalista  in carriera  usa  per i propri scoop giornalistici insensibile  al dolore che arreca con il suo contatto empatico  che inizia ad incrinare la corazza  “corporea” del ragazzo.
Le storie si intrecciano, il dolore e il disagio della solitudine non emerge immediatamente  nelle sensazioni dello spettatore , oramai assuefatto alla normalità  di ciò che  vede narrare , perché  simile alla realtà di tutti i giorni, dove  i personaggi del film e gli spettatori del film esercitano e subiscono la violenza della rete in un modo o nell’altro.
La rete “accomuna” ,  ingloba, spinge  dentro un mondo nuovo, senza filtri,  dove più facilmente  si crea una confusione tra realtà virtuale e realtà  psichica , all’interno della quale il rischio di diffusione dell’identità  è altissimo e dove lo stato mentale di “identificazione narcisistica” e l’eccitazione con perdita dei confini personali offre una ubriacante  e onnipotente confusione tra realtà e fantasia.
 
L’epilogo è nel suicidio del ragazzino , timido, solitario, sensibile, alle prese con le proprie fragilità che ha il desiderio di esser speciale per qualcuno e che  viene improvvisamente  sommerso e soffocato da quella realtà  che fino a poco prima sembrava  fosse arrivata ad illuminare la sua triste vita, ma che ora diventa soffocante  come un nodo in gola, come il nodo che lui stesso farà impiccandosi.
 
Deve arrivare forte la” rottura “ perchè si ristabilisca la visione del mondo, affinchè si aprano gli occhi dei grandi e dei ragazzi .
La violenza del gesto forse rimanda alla violenza della potenza della rete , in sintonia con la prepotente ricerca di contatto interpersonale inascoltato, tragicamente inascoltato , proprio laddove  le relazioni  e i legami sono spesso  più forti :la famiglia.
In questo gioco di proiezioni  e identificazioni  possiamo  cercare di dare voce al sommerso , profondamente sommerso, senso di solitudine , espressione  per alcuni del lutto , per altri di vissuti depressivi , per altri ancora di precoci deprivazioni.
La rottura che nel film squarcia l’indifferenza  soporifera e mortifera  sembra funzionare   come un esame di realtà  per  chi  sommerso dal dolore impensabile del lutto, temporaneamente incapace di amare,  trova la spinta per riprendere a vivere .
Scrive S.Freud  in Lutto e Melanconia del 1917: “ …un ritiro della libido  dall’oggetto che adesso non c’è più  e uno spostamento di essa su di un nuovo oggetto, o sulla vita stessa…”. Solo così l’Io  potrà liberare  la sua libido dall’oggetto perduto.
 Il verdetto della realtà mostra che l’oggetto non esiste più .  E solo lasciando andare l’oggetto si lascia andare il dolore .
Solo allora  il rimuginare sulla propria infelicità e perdita attiva il  rinnovato desiderio di vivere . Vivere all’interno di una ritrovata  vera relazione umana.
La rottura però  nel film  è portavoce anche di un altro stato mentale , dove  il senso di colpa soffocante, l’autocritica ,  la  diminuizione dell’autostima e la disperazione  inducono  un tormento  che infligge un incommensurabile dolore mentale  che conduce a qualcosa di molto vicino allo  stato così ben descritto da Betty Joseph di “assuefazione alla quasi morte” .

Qui questo stato  porterà ad una tragica  e masochistica scelta  di  morte  fisica,   che forse si sarebbe potuta evitare se le fantasie autodistruttive non fossero state vissute in solitudine.
Perché come afferma  Bion  l’esistenza di una “ funzione Alfa”, cioè  una funzione della mente che  rende i pensieri “pensabili” , fa si che i pensieri si possano digerire, elaborare e dare  spazio ad altri pensieri.
 Solo così la vita psichica  vive. E la vita psichica che vive permette la vita.

Loading

Autore

0 commenti

Invia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Caffè & Psichiatria

Ogni mattina alle 8 e 30, in collaborazione con la Società Italiana di Psichiatria in diretta sul Canale Tematico YouTube di Psychiatry on line Italia