È del 1909 il sogno di Jung che segna la sua elaborazione dell’inconscio personale e collettivo:
Mi trovavo al piano superiore, dove c’era una specie di salotto ammobiliato con bei mobili antichi di stile rococò……Ma allora mi veniva in mente di non sapere che aspetto avesse il piano inferiore. Scendevo le scale, e raggiungevo il piano terreno. Tutto era molto più antico, e capivo che questa parte della casa doveva risalire circa al XV o al XVI secolo………Giungevo dinanzi ad una pesante porta, e l’aprivo: scoprivo una scala di pietra che conduceva in cantina. Scendevo, e mi trovavo in una stanza con un bel soffitto a volta, eccezionalmente antica……Esaminavo anche il pavimento, che era di lastre di pietra, e su una notavo un anello: lo tiravo su, e la lastra di pietra si sollevava, rivelando un’altra scala, di stretti gradini di pietra che portava giù in profondità. Scendevo anche questi scalini, e entravo in una bassa caverna scavata nella roccia…….. Il sogno prosegue con ossa e cocci sul pavimento e l’apparizione di due teschi. Poi finisce.
Ma al di là di questo grande sogno (per Jung il grande sogno è il sogno guida) la casa in psicanalisi è sempre simbolo della propria psiche; esplorarne i luoghi profondi significa prendere contatto con aspetti non ancora emersi alla coscienza.
Ecco perché Ammaniti (non sarà un caso che è figlio del famoso psichiatra Massimo) ha scelto proprio una cantina per ambientare la storia di Lorenzo, quattordicenne che vuole isolarsi dal mondo, dalla settimana bianca della scuola e da una madre che ama troppo e dalla quale vuole affrancarsi (chissà perché poi danno sempre a Sonia Bergamasco il ruolo della mamma di adolescenti in crisi!) Ammaniti dichiara di amare già di suo i luoghi chiusi. Io non ho paura ci raccontava una clausura imposta, e Come Dio comanda una situazione priva di qualunque apertura: la pioggia, il fango, e un sentimento padre-figlio esclusivo e vicino alla disperazione. Io e te contrappone alle location delle prime scene (una bella casa borghese con inquadrature perfette ed equilibrate, di porte e portoni ripresi come quadri) lo spazio cupo e polveroso della cantina; all’appartamento luminoso e ordinato, il buio, la polvere, le incrostazioni del luogo in cui Lorenzo decide di passare una settimana in completo isolamento.
Unica compagnia viva, un formichiere. Lui non sa, nei suoi pochi anni, che quel luogo è simbolo dell’inconscio; sa che non ne può più, e che ha bisogno di ritirarsi dalla protezione degli adulti e dalla freddezza dei compagni. Quella che può sembrare semplicemente una fuga (e lo è anche) si fa, nel personaggio, scelta inconsapevole di intimità con se stesso, di ricerca identitaria confusa, ma quando uscirà di lì sarà inevitabilmente cresciuto.
Su questo ha voluto soffermarsi Bernardo Bertolucci, sulla storia di una risalita dagli strati più profondi del Sé, anche se Lorenzo, così piccolo, ne avrà ancora tanta di strada da fare. È solo l’inizio di un percorso, con un finale volutamente aperto; un viaggio che la comparsa della sorellastra Olivia renderà più intenso e profondo. Sono due solitudini che si scontrano, si respingono, per scoprire poi un amore fraterno che darà calore alla vita rinunciataria di Lorenzo. “Promettimi che non ti nasconderai più” gli dice Olivia e lui promette. Lei se ne va e il film ce li racconta fin lì. Ammaniti (tra gli sceneggiatori) è d’accordo con l’interpretazione di Bertolucci, sebbene il suo romanzo termini in maniera più tragica. Lorenzo e Olivia sono osservati da vicino, anzi vicinissimo. Quasi non si conoscono. Lui è un ragazzino e lei una donna fatta (in tutti i sensi, vista la sua dipendenza dalla droga); lui è introverso e lei un fiume in piena. Persino fisicamente sono così diversi: moro lui e biondissima lei, con quei bei capelli lunghi a riempire tante inquadrature. Sono lì, lei perché non sa dove dormire, lui perché deve rinunciare alle comodità della sua stanza di sopra. Anche Bertolucci ama le clausure (Tango a Parigi, The Dreamers), e sa che può permetterselo. Non dev’essere facile girare una storia in spazi così ristretti. Ma da vero maestro ha scelto due attori che non si conoscevano, e ha fatto sì che la confidenza tra loro si stabilisse a poco a poco, in una lavorazione che non ha previsto montaggi stravaganti o salti di narrazione. Il passaggio dalla completa estraneità alla dimestichezza, dal rifiuto all’affetto, credibile e coinvolgente, avviene quando Lorenzo avvicina il suo letto a quello della sorella, fino alla scena del ballo in cui i due fratelli si abbracciano fortissimo sulla musica di “Ragazzo solo, ragazza sola” (versione italiana dello struggente “Space Oddity” di David Bowie), e all’ultima notte in cui finalmente tutte le distanze si azzerano.
Lorenzo scopre dai racconti di Olivia verità nascoste sulla vita dei genitori, sgradevoli, scomode. Ma sono quei segreti su cui spesso si fonda la serenità familiare, che, anche se gelosamente custoditi, ma forse proprio per questo, lasciano tracce indelebili e vengono intercettati dall’inconscio dei figli. E, anche se molesti, dirli è comunque liberatorio. L’ultima inquadratura, infatti, vede un primo piano sul viso sorridente di Lorenzo, a richiamare I quattrocento colpi di Truffaut. Io e te rappresenta una complicità fraterna che aiuta a diventare grandi. Questa intesa non poteva non essere dedicata da Bernardo Bertolucci al fratello Giuseppe, scomparso poco prima del film.
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