La storia è lineare: Pericle (detto “il nero”) è un affiliato ad una cosca camorristica il cui compito è quello di riscuotere il pizzo, intimorire, brutalizzare chi, sul territorio, si oppone al volere e ai progetti di espansione del proprio capo.
In una di queste scorribande, chiamato a punire il parroco del paese reo di aver “parlato troppo”, finisce per ferire mortalmente la sorella di un altro boss che aveva casualmente assistito alla spedizione punitiva. Scatta così una caccia all’uomo, in cui dovrà fuggire continuamente da un capo all’altro della Francia, per difendersi dai suoi vecchi amici e dai suoi nuovi nemici.
Bisognerebbe forse aver letto il romanzo di Giuseppe Ferrandino, da cui è tratto il film, per capire il motivo del soprannome del protagonista, interpretato magistralmente da Scamarcio (tra l’altro produttore del film). Mi piace pensare che esso derivi dal carattere cupo di Pericle, chiuso in un mondo paranoico di diffidenza, sempre lapidario nei dialoghi, e con una vena di truce malinconia ad attanagliarlo (il nero è tradizionalmente il colore del lutto e della depressione emotiva), residuo di una confusione identitaria che lo caratterizza da sempre, derivante dalla scarsa chiarezza delle sue origini (c'è da dire che anche il paesaggio, spesso plumbeo o poco illuminato, concorre a questa cupezza di fondo).
Pericle non sa bene in che circostanze sia morta la madre, figura idealizzata di cui porta con sé una foto giovanile che gli permette di portare alla mente il suo volto – unico volto amico nel suo mondo spietato – altrimenti effimero.
Del resto, il volto della madre, lo sguardo della madre sono gli elementi che per primi aiutano il bambino a definirsi: il piccolo si riconosce negli occhi della propria madre che lo guarda e questa, a sua volta, si ritrova in quelli del proprio bambino – faceva notare il noto psicoanalista inglese Donald Winnicott – in uno scambio bidirezionale fondamentale per il consolidamento del senso di sé nucleare, cioè dell’identità primaria del nuovo nato.
A Pericle manca questo aggancio al proprio passato, tenuto in vita, come detto, solo da una foto. Altrettanto oscura è poi l’identità del padre, o meglio inizialmente Pericle ne ha una versione per poi scoprire, sul finale della vicenda, che non è affatto quella.
Un uomo senza un passato non può avere una chiara identità e rimane in balia di un senso di confusione interiore che lo rende molto vulnerabile all’influenza dell’ambiente esterno, specie se capace di garantirgli un'identità già definita. È quello che accade al protagonista di questo film, che si affida completamente ad una nuova famiglia, quella camorristica, sostitutiva di quella naturale, senza farsi troppe domande, obbedendo pedissequamente al capo ed evitando di riflettere su quanto di volta in volta gli viene ordinato di fare, passando fulmineamente all’azione violenta.
Il vuoto e la fragilità connaturati in Pericle vengono elusi con un ribaltamento di prospettiva esistenziale: essere un duro, sottomettere i nemici sodomizzandoli, chiunque essi siano, assolutamente impermeabile alle emozioni. E’ un meccanismo psicologico di difesa, col quale l’Io del soggetto (di Pericle) mantiene la propria integrità trasformando una sensazione profonda di passività e di debolezza in una sensazione di attività e forza (un meccanismo psicologico che in psicoanalisi è denominato capovolgimento). Ma c’è un prezzo da pagare per tutto ciò, ossia l’incapacità di aprirsi all’altro, di condividere qualcosa di sé con gli altri, di cedere alle emozioni, tutti aspetti necessari per stabilire relazioni reciproche autentiche con il mondo.
Non è un caso quindi che, nel corso della vicenda, dopo la scoperta della verità sulla propria storia e della falsità dei vincoli “di sangue” che lo ingabbiavano in un’identità violenta, egli riuscirà a coinvolgersi per la prima volta in un rapporto affettivo puro ed esterno a quel mondo, a esplorare nuove dimensioni di sé e a concedersi di sognare nuove possibilità di realizzazione. E riuscirà a compiere questo percorso di rinascita nell’unico modo che conosce, cioè attraverso la violenza.
Un film crudo, realistico, che non lascia nulla all’immaginazione (forse troppo, a volte, specie nell’indugiare su alcune scene di sesso), impreziosito, come detto, dall’interpretazione di Scamarcio e dagli stralci di monologo del protagonista (presumibilmente tratti dal romanzo) che accompagnano come voce fuori campo i momenti più importanti della storia.
In una di queste scorribande, chiamato a punire il parroco del paese reo di aver “parlato troppo”, finisce per ferire mortalmente la sorella di un altro boss che aveva casualmente assistito alla spedizione punitiva. Scatta così una caccia all’uomo, in cui dovrà fuggire continuamente da un capo all’altro della Francia, per difendersi dai suoi vecchi amici e dai suoi nuovi nemici.
Bisognerebbe forse aver letto il romanzo di Giuseppe Ferrandino, da cui è tratto il film, per capire il motivo del soprannome del protagonista, interpretato magistralmente da Scamarcio (tra l’altro produttore del film). Mi piace pensare che esso derivi dal carattere cupo di Pericle, chiuso in un mondo paranoico di diffidenza, sempre lapidario nei dialoghi, e con una vena di truce malinconia ad attanagliarlo (il nero è tradizionalmente il colore del lutto e della depressione emotiva), residuo di una confusione identitaria che lo caratterizza da sempre, derivante dalla scarsa chiarezza delle sue origini (c'è da dire che anche il paesaggio, spesso plumbeo o poco illuminato, concorre a questa cupezza di fondo).
Pericle non sa bene in che circostanze sia morta la madre, figura idealizzata di cui porta con sé una foto giovanile che gli permette di portare alla mente il suo volto – unico volto amico nel suo mondo spietato – altrimenti effimero.
Del resto, il volto della madre, lo sguardo della madre sono gli elementi che per primi aiutano il bambino a definirsi: il piccolo si riconosce negli occhi della propria madre che lo guarda e questa, a sua volta, si ritrova in quelli del proprio bambino – faceva notare il noto psicoanalista inglese Donald Winnicott – in uno scambio bidirezionale fondamentale per il consolidamento del senso di sé nucleare, cioè dell’identità primaria del nuovo nato.
A Pericle manca questo aggancio al proprio passato, tenuto in vita, come detto, solo da una foto. Altrettanto oscura è poi l’identità del padre, o meglio inizialmente Pericle ne ha una versione per poi scoprire, sul finale della vicenda, che non è affatto quella.
Un uomo senza un passato non può avere una chiara identità e rimane in balia di un senso di confusione interiore che lo rende molto vulnerabile all’influenza dell’ambiente esterno, specie se capace di garantirgli un'identità già definita. È quello che accade al protagonista di questo film, che si affida completamente ad una nuova famiglia, quella camorristica, sostitutiva di quella naturale, senza farsi troppe domande, obbedendo pedissequamente al capo ed evitando di riflettere su quanto di volta in volta gli viene ordinato di fare, passando fulmineamente all’azione violenta.
Il vuoto e la fragilità connaturati in Pericle vengono elusi con un ribaltamento di prospettiva esistenziale: essere un duro, sottomettere i nemici sodomizzandoli, chiunque essi siano, assolutamente impermeabile alle emozioni. E’ un meccanismo psicologico di difesa, col quale l’Io del soggetto (di Pericle) mantiene la propria integrità trasformando una sensazione profonda di passività e di debolezza in una sensazione di attività e forza (un meccanismo psicologico che in psicoanalisi è denominato capovolgimento). Ma c’è un prezzo da pagare per tutto ciò, ossia l’incapacità di aprirsi all’altro, di condividere qualcosa di sé con gli altri, di cedere alle emozioni, tutti aspetti necessari per stabilire relazioni reciproche autentiche con il mondo.
Non è un caso quindi che, nel corso della vicenda, dopo la scoperta della verità sulla propria storia e della falsità dei vincoli “di sangue” che lo ingabbiavano in un’identità violenta, egli riuscirà a coinvolgersi per la prima volta in un rapporto affettivo puro ed esterno a quel mondo, a esplorare nuove dimensioni di sé e a concedersi di sognare nuove possibilità di realizzazione. E riuscirà a compiere questo percorso di rinascita nell’unico modo che conosce, cioè attraverso la violenza.
Un film crudo, realistico, che non lascia nulla all’immaginazione (forse troppo, a volte, specie nell’indugiare su alcune scene di sesso), impreziosito, come detto, dall’interpretazione di Scamarcio e dagli stralci di monologo del protagonista (presumibilmente tratti dal romanzo) che accompagnano come voce fuori campo i momenti più importanti della storia.
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