“La nostalgia: il fascino del passato” W. Shakespeare
Poche cose sono tristi, cinematograficamente, come le narrazioni dei declini. Si dice che i comici siano dei depressi, e in quello che si dice c’è sempre qualcosa di vero; sul piano psicoanalitico, la loro tristezza diventa, per formazione reattiva, allegria e comicità. È con questa tristezza che ci mette a contatto il bel film di John Baird, dedicato a due personaggi che resteranno per sempre vivi nell’immaginario e nella memoria collettiva, Stanlio e Ollio. Ci mette a contatto con la parte meno conosciuta, e meno gloriosa, della loro vita di artisti e di uomini, quella che inizia nel 1953 quando decidono di partire per una tournée teatrale in Inghilterra, dopo diversi anni di assenza dalle scene. Sono passati sedici anni dal momento d'oro della loro carriera hollywoodiana e, anche se amati da milioni di persone, la loro immagine continua (come è tutt’oggi) ad essere associata alle gag dei loro vecchi film, piuttosto che al teatro o a film differenti. Nonostante le perplessità, il duo parte ugualmente per questa improbabile tournée che si rivela un’intensa esperienza di vita, su cui si basa il film, che ha il merito, oltre che di regalarci le due straordinarie interpretazioni di Steve Coogan (Stanlio) e John C. Reilly (Ollio) , di mantenersi in perfetto equilibrio tra la nostalgia e il lieve divertimento, tra la tristezza di un tempo che non è più e il valore fondante, vivificante dell’amicizia, senza mai scivolare in eccessi caricaturali né nel registro drammatico né in quello comico.
Direi che “Stanlio e Ollio”, tratto dal libro di A.J. Marriot e psicoanaliticamente di grande interesse, è un film, un biopic sulla perdita, il lutto, la fatica dell’arte e il rapporto tra arte vita, e l’amicizia. Il senso di perdita e la nostalgia percorrono, infatti, tutto il film: gravata dalla fragile salute di Ollio (che morirà infatti quattro anni dopo) la tournée svela, da un lato, i retroscena complessi di due vite che rischiavano di restare appiattite nella stereotipia della gag, forma di comicità ormai superata e, dall’altro, un declino progressivo e struggente, tanto più struggente in quanto personificato da due comici. Far ridere è un mestiere molto difficile, diceva Buster Keaton, e il film ci consegna perfettamente il senso intimo di questa difficoltà: come non deludere il pubblico quando si è stanchi, non più di moda, superati da altri modelli, acciaccati nella salute? Come elaborare il lutto, passaggio complesso e doloroso in tutti noi alla fine della nostra vita lavorativa ma forse più arduo per chi ha conosciuto la fama, come maneggiare quella depressione sempre latente, per combattere la quale si era diventati comici? Scopo della tournée sarebbe stato, in realtà, procurarsi il denaro per coronare il loro sogno di fare un film su Robin Hood; ma il film non si farà mai, il pubblico continua ad amare i vecchi Stanlio e Ollio ma non c’è posto per loro nel nuovo cinema anni ’50, per la loro ingenua, infantile comicità. Stanlio e Ollio sono prigionieri di Stanlio e Ollio. Cifra di fondo del film, abbiamo detto, la perdita e la nostalgia; siamo tutti attirati dalla nostalgia, anche quando il passato non è oggettivamente migliore del presente, in quanto esseri sempre alla ricerca dell’oggetto antico, di quello che è perduto per sempre. A volte essa è dolce, a volta persecutoria; questa è una nostalgia dolce, per un passato di gioco e innocenza, per la coscienza di possedere un talento puro. Nostalgia del passato, che non può restituire quella gloria, e nostalgia del futuro poiché il film, il loro sogno, non si avvererà mai. Questo tratto specificatamente umano, la nostalgia, è reso benissimo e commuove lo spettatore, identificato con due uomini di successo ma in fondo sfortunati, sempre sottopagati dai produttori, con i loro vizi e debolezze, ma indissolubilmente uniti. La tournee, in realtà, diventa occasione di rinsaldare un legame che non è esagerato definire d’amore; in quanto amore sublimato, l’amicizia, diceva Freud, meno inquinata da ambivalenze del rapporto amoroso, può costituire il rapporto perfetto. Una coppia sessuale non sarebbe stata in grado, con molta probabilità, di sopportare per tanti anni tutte le alterne vicende, non sempre fortunate, le fatiche, i rancori, lo sbilanciamento della coppia Stan Laurel e Oliver Hardy. Gigante buono completamente dipendente da Stan, l’intelligenza creativa del duo, lavoratore indefesso che scrive tutti i loro film, Ollio, detto “Babe”, è figura umana tenerissima; il cuore e le ginocchia malmenate da un peso eccessivo, la fragilità di fondo fanno sì che Stan sempre lo protegga, lo tenga al riparo da delusioni, e rifiuterà, dopo la sua morte, ogni altra collaborazione delle molte che gli vengono proposte.
Come elaborare il lutto, il doppio lutto abbiamo visto di passato e di futuro, per due persone che hanno perso il solo mondo che conoscevano? Benché entrambi teneramente amati dalle rispettive mogli, io credo attraverso la loro amicizia, straordinario sodalizio umano e artistico per cui non si dà l’uno senza l’altro; la vera coppia sono loro. La reciproca dedizione, l’assoluta sintonia sembrano il mezzo, tutto umano, che consente la tolleranza di un declino inglorioso: ricordati eternamente per il film degli anni ’30, e del tutto dimenticati dopo.
Un dettaglio concentra il senso di questa fedeltà e l’intensità di questa nostalgia. Anche dopo la morte di Ollio, Stanlio continuerà a scrivere per loro due, per una coppia che non esiste più se non come oggetto interno e consolazione della memoria. Ma , indifferente al tempo, lui continua a scrivere per “Stanlio e Ollio”.
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