Adopt a highway è un film americano uscito nel 2019 che, come altri film a causa dell’emergenza sanitaria in corso, non ha ancora avuto diffusione nei nostri cinema. È possibile per adesso vederlo solo a noleggio su alcuni portali online, in lingua originale e coi sottotitoli in italiano (ma è godibile, data la semplicità dei dialoghi, anche da chi non parla fluentemente l’inglese). Non sembra essere una di quelle pellicole che vengono, ancor prima di uscire nelle sale, presentate come un capolavoro imperdibile nelle più quotate riviste del settore. È però uno di quei film che si possono certamente definire poetici, che sono giocati più sull’essenzialità dei dialoghi, sui silenzi, le atmosfere e le inquadrature dei personaggi che sulla trama.
Russell Millings, interpretato da un intenso Ethan Hawke (probabilmente nella sua migliore interpretazione dai tempi dell’Attimo fuggente), è un detenuto che dopo aver assurdamente scontato 20 anni di carcere per un accumulo di piccoli reati cerca di riprendere in mano la sua vita, scontrandosi con la solitudine, il disorientamento e le difficoltà di reinserimento tipiche di chi esce da una lunga detenzione. Come si sa, è difficile ristabilire una continuità esistenziale dopo aver vissuto per tanti anni in un luogo che ti ha reso un numero e ti ha spogliato della tua identità personale se non, molto spesso, confermandoti nell'identità deviante che lì ti ha portato. È ancora più difficile poi quando sei un uomo qualunque e magari non c’è nessuno fuori ad aspettarti.
Dei trascorsi di Russell non si sa molto, né se ne saprà molto di più alla fine del film. Lo scopo del regista – l’attore Logan Marshall-Green, al suo esordio dietro la cinepresa – non è tanto quello di descrivere dettagliatamente i suoi personaggi e la loro storia, quanto di concentrarsi su alcuni loro tratti, di darne solo qualche schizzo quindi, lasciando che sia lo spettatore a fare il resto del lavoro. Il reinserimento di Russell in società andrà avanti in modo faticoso per alcuni mesi, con tutte le difficoltà di ricostruirsi come persona “normale”, dovendo scontrarsi con pregiudizi diffusi legati alla sua identità di ex detenuto e sottostare ai controlli periodici del periodo di libertà vigilata. Russell infatti non è uno di quei personaggi scaltri, spesso rappresentati nei film americani, che usciti di galera sanno soltanto vivere sul filo del rasoio e che si sentono costretti, non senza eccitazione, a muoversi in bilico tra normalità e crimine. È un buono, quasi un imbranato; una vita spezzata da una probabilmente ingiusta carcerazione che torna in un mondo profondamente diverso da quello che aveva lasciato, soprattutto per lo strapotere della tecnologia. I primi mesi di libertà procedono come si diceva in modo faticoso, fino a quando Russell farà un incontro del tutto inatteso che cambierà il suo percorso esistenziale e darà una scossa al suo torpore emotivo, liberandolo dalla paura di ricominciare e facendogli intravedere nuove possibilità nel suo futuro.
Per quanto riguarda la trama, si può tranquillamente dire che il film non si distingue per originalità. Vari film infatti hanno narrato le vicende di detenuti dopo la fine della pena e la rivincita di alcuni di questi, con lo scopo di evidenziare i lati positivi presenti anche negli individui apparentemente più abietti. Il punto di forza del racconto è piuttosto la capacità di dire qualcosa di importante in modo semplice e al contempo non banale, evitando spiegazioni, lezioni morali o esiti scontati che data la storia sarebbe stato facile inserire. Viene dato quindi spazio al non detto: non tutto di ciò che accade viene spiegato o chiarito, soprattutto relativamente al passato del protagonista; non c’è l’esito felice che lo spettatore potrebbe facilmente sperare dinnanzi a una vita così sfortunata che sembra ricominciare. Ma ciò dà a chi guarda la possibilità di immaginare da sé come potrebbe evolversi la vicenda o che tipo di storia abbia alle spalle il protagonista.
Il film muove una critica indiretta ai pregiudizi che nell’opulenta e avanzata società occidentale, nonostante i buoni propositi di integrazione dei meno fortunati, sottostanno agli atteggiamenti e ai comportamenti di molti di noi, vanificando gli sforzi di chi a fatica cerca di inserirsi in società partendo da una posizione di debolezza. Ma sottolinea anche quanto un fatto inatteso, ad esempio il venire al mondo di una vita – col potenziale di amore che essa irradia attorno a sé – possa cambiare il percorso esistenziale di un individuo. Non si tratta però di un messaggio di facile rinascita personale, perché il film prova a dire quanto sia importante la storia, il passato individuale, ciò che è accaduto prima e da cui psichicamente deriviamo, nello specifico l’importanza di una rivisitazione consapevole della propria storia, per quanto parziale, per poter ripartire dalle difficoltà con più sicurezza.
Adopt a highway ci parla dunque della speranza di poter dare un nuovo senso alla vita (cui allude probabilmente il titolo), senza dimenticare il passato e al contempo senza farsi ingabbiare da questo e dai pregiudizi che da esso possono derivare.
Un film delicato che può dare ossigeno alla mente dello spettatore, distogliendola per qualche ora dai timori e dalle ombre che gravano da diverse settimane sulla vita di tutti.
Russell Millings, interpretato da un intenso Ethan Hawke (probabilmente nella sua migliore interpretazione dai tempi dell’Attimo fuggente), è un detenuto che dopo aver assurdamente scontato 20 anni di carcere per un accumulo di piccoli reati cerca di riprendere in mano la sua vita, scontrandosi con la solitudine, il disorientamento e le difficoltà di reinserimento tipiche di chi esce da una lunga detenzione. Come si sa, è difficile ristabilire una continuità esistenziale dopo aver vissuto per tanti anni in un luogo che ti ha reso un numero e ti ha spogliato della tua identità personale se non, molto spesso, confermandoti nell'identità deviante che lì ti ha portato. È ancora più difficile poi quando sei un uomo qualunque e magari non c’è nessuno fuori ad aspettarti.
Dei trascorsi di Russell non si sa molto, né se ne saprà molto di più alla fine del film. Lo scopo del regista – l’attore Logan Marshall-Green, al suo esordio dietro la cinepresa – non è tanto quello di descrivere dettagliatamente i suoi personaggi e la loro storia, quanto di concentrarsi su alcuni loro tratti, di darne solo qualche schizzo quindi, lasciando che sia lo spettatore a fare il resto del lavoro. Il reinserimento di Russell in società andrà avanti in modo faticoso per alcuni mesi, con tutte le difficoltà di ricostruirsi come persona “normale”, dovendo scontrarsi con pregiudizi diffusi legati alla sua identità di ex detenuto e sottostare ai controlli periodici del periodo di libertà vigilata. Russell infatti non è uno di quei personaggi scaltri, spesso rappresentati nei film americani, che usciti di galera sanno soltanto vivere sul filo del rasoio e che si sentono costretti, non senza eccitazione, a muoversi in bilico tra normalità e crimine. È un buono, quasi un imbranato; una vita spezzata da una probabilmente ingiusta carcerazione che torna in un mondo profondamente diverso da quello che aveva lasciato, soprattutto per lo strapotere della tecnologia. I primi mesi di libertà procedono come si diceva in modo faticoso, fino a quando Russell farà un incontro del tutto inatteso che cambierà il suo percorso esistenziale e darà una scossa al suo torpore emotivo, liberandolo dalla paura di ricominciare e facendogli intravedere nuove possibilità nel suo futuro.
Per quanto riguarda la trama, si può tranquillamente dire che il film non si distingue per originalità. Vari film infatti hanno narrato le vicende di detenuti dopo la fine della pena e la rivincita di alcuni di questi, con lo scopo di evidenziare i lati positivi presenti anche negli individui apparentemente più abietti. Il punto di forza del racconto è piuttosto la capacità di dire qualcosa di importante in modo semplice e al contempo non banale, evitando spiegazioni, lezioni morali o esiti scontati che data la storia sarebbe stato facile inserire. Viene dato quindi spazio al non detto: non tutto di ciò che accade viene spiegato o chiarito, soprattutto relativamente al passato del protagonista; non c’è l’esito felice che lo spettatore potrebbe facilmente sperare dinnanzi a una vita così sfortunata che sembra ricominciare. Ma ciò dà a chi guarda la possibilità di immaginare da sé come potrebbe evolversi la vicenda o che tipo di storia abbia alle spalle il protagonista.
Il film muove una critica indiretta ai pregiudizi che nell’opulenta e avanzata società occidentale, nonostante i buoni propositi di integrazione dei meno fortunati, sottostanno agli atteggiamenti e ai comportamenti di molti di noi, vanificando gli sforzi di chi a fatica cerca di inserirsi in società partendo da una posizione di debolezza. Ma sottolinea anche quanto un fatto inatteso, ad esempio il venire al mondo di una vita – col potenziale di amore che essa irradia attorno a sé – possa cambiare il percorso esistenziale di un individuo. Non si tratta però di un messaggio di facile rinascita personale, perché il film prova a dire quanto sia importante la storia, il passato individuale, ciò che è accaduto prima e da cui psichicamente deriviamo, nello specifico l’importanza di una rivisitazione consapevole della propria storia, per quanto parziale, per poter ripartire dalle difficoltà con più sicurezza.
Adopt a highway ci parla dunque della speranza di poter dare un nuovo senso alla vita (cui allude probabilmente il titolo), senza dimenticare il passato e al contempo senza farsi ingabbiare da questo e dai pregiudizi che da esso possono derivare.
Un film delicato che può dare ossigeno alla mente dello spettatore, distogliendola per qualche ora dai timori e dalle ombre che gravano da diverse settimane sulla vita di tutti.
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