Nella capitale era nato il 19 marzo 1923 – segno dei pesci – e presto era rimasto orfano del padre. Molto vitale, didatticamente. Si era visto al Centro Sperimentale di Cinematografia (CSC) – che ha diretto e dove ha insegnato Luce e Fotografia per molti anni – fino a una dozzina d’anni addietro.
Si è scritto – nel salutare Peppino Rotunno – che se n’era andato il leggendario maestro di luce e fotografia dei grandi registi, e ne citiamo alcuni, Luchino Visconti, Federico Fellini, Mario Monicelli, Dino Risi, Vittorio De Sica, Valerio Zurlini Lina Wertmüller, Benigni e Troisi, Dario Argento, e per i set internazionali Fred Zinnemam, Alan Pakula, Robert Altman, Sydney Pollack, ma non sono completamente d’accordo. È più esatto pensare e scrivere che tutti questi “monstre sacré” hanno visto le loro opere d’arte attraverso i suoi occhi. Gli occhi di Giuseppe “Peppino” Rotunno.
Era indulgente, quando gli confessavo la mia ignoranza sui fili elettrici, le prese, le spine, la luce artificiale, le lampadine insomma. Sorrideva, quando gli raccontavo di quella volta, a Bologna, da adolescente che per leggere Salgari di notte – di nascosto dai miei – avevo bruciato la fodera di una sedia per averci appoggiato la lampadina di un lume. Era gentile e garbato di natura. Partiva sempre da lontano e non frettolosamente. Voleva capire bene. Era curioso, intelligente, s’interessava di psicologia, psicoanalisi. Il suo presupposto era che l’occhio fosse una camera fotografica naturale. Una sorta di cinepresa “intenzionale” e soggettiva che sceglieva sempre, non solo e non tanto quello che colpiva maggiormente l’osservatore, quanto piuttosto, e soprattutto, ciò che egli voleva effettivamente guardare, seguendo una sua narrazione interiore di natura profonda, culturale. Un direttore delle luci con un taglio antropofenomenologico spontaneo.
Si! Era un discorso esigente, il suo, che partiva da lontano, per l’appunto. “Peppino”, aveva cominciato molto presto, credo di ricordare sui 16 anni con Arturo Bragaglia. Ho già detto che lo conoscevo perché mi aveva onorato della sua amicizia come anche quella per Massimo Marà, carissimo Collega di specializzazione e analista freudiano, appassionato di cinema che non c’è più, neppure lui da qualche anno. Voleva comprendere bene certe cose che non si vedono. “I miei fondamentali”. Per esempio le dinamiche, i passaggi, i riflessi neuro-psico-anatomo-fisiologici che gli stavano molto a cuore. Mica perchè fosse un patito delle nostre cose di specialisti del cervello e della mente. Non doveva curare nessuno, anche se con l’ultimo Fellini, fu molto paziente e filiale, come dirò più avanti. No! Semplicemente “per mettere a punto i ferri del mestiere”, come diceva lui.
Ricordo ragionamenti inesauribili sul fatto che quello che per noi era semplicemente il “fondo dell’occhio” (allorché fummo anche neurologi”, un tempo remoto), a ben guardare poteva essere immaginato come sorta di vagina universale del mondo animale. Per l’appunto, rispondevo io, una estroflessione del diencefalo, le strutture della base del cervello, quelle degli istinti, delle passioni, luogo ideale dell’Es, una delle magmatiche topiche freudiane. Se l’argomento l’interessava, non spegneva il dialogo. “Se la funzione principale, del «fundus», come dite voi, quando gli occhi ovviamente sono aperti, è quella di essere penetrata da qualunque stimolo, allora quelle cellule che ne restano impressionate … Potevi correre il rischio di rifare l’esame di oculistica. Campo visivo, “Bierrum”, mire, colori, cristallino, opacità, scotoma, diplopia, illusioni, allucinazioni, sclere subitteriche, anelli di Kayser-Fleischer, non si finiva mai. Spesso dovevo ricorrere a tutte le mie nozioni di neuroftalmologia. Mi teneva testa!
Era, preciso, ordinato, profondo, si potrebbe anche dire esigente con sé stesso perchè pensava di poter fare meglio. Era mite ms soprattutto modesto. Una virtù, questa, rara nel cinema, dove prevale il narcisismo. Ciò non gli ha impedito di raccogliere una “carrettata” (come si dice a Roma) di, premi, medaglie, Leoni d’Oro veneziani, Nastri d’argento, David di Donatello, Nomination all’Oscar e altri riconoscimenti di assoluto prestigio mondiale. Giuseppe Rotunno era stato il primo direttore della fotografia non americano ad essere ammesso all'ASC (American Society of Cinematographers). La nomina venne letta – per la circostanza – da Liv Ulmann nel 1966. Proprio Liv Johanne Ullmann, la splendida interprete norvegese di “Sussurri e grida”, attrice, regista e sceneggiatrice, di cui rimase celebre il lungo sodalizio artistico con l’altrettanto famoso regista svedese Ingmar Bergman.
Era piacevole ascoltarlo. “La luce illumina e ti fa vedere le cose, ma bisogna saperla adoperare, perché può diventare un’arma e ferire, accecare, come il sole a picco”. “A volte perseguita … L’interrogatorio nella stazione di polizia con la lampada in faccia. Le torce e i cani che abbaiano mentre fuggi e ti nascondi … vedi il problema spiegava non è la luce ma l’occhio che guarda!” Se decideva di dare l’amicizia era leale e tenace. Basti per tutti l’esempio del suo rapporto con Federico Fellini, un bel problema di gestione quanto a voli onirici, pindarici, realtà, fantasia immaginazione. “Peppino “ era una sicurezza.
Una storia a parte meriterebbe il film mancato di Fellini e Rotunno. Il “Fantasmone”, come lo chiamava (apotropaicamente) il regista, “La dolce morte” come aveva pensato di chiamarlo dopo il successo de “La dolce vita”. Alla fine divenne un libro semi/serio di psicologia del profondo, con argomentazioni ontologico/escatologiche illustrato per fumetti intitolato “Viaggio di G. Mastorna, detto Fernet”. Una lunga vicenda che coinvolse Dino Buzzati l’ideatore, Federico Fellini il co-sceneggiatore e regista, Dino De Laurentiis il produttore, e molti avvocati perchè la storia non ebbe fine neppure in tribunale. Tutti soggetti timorosissimi delle jettature, tra l’altro. Tra “Peppino” e Federico c’era una tacita intesa fin dal 1965, quando Fellini era andato a Milano a trovare Dino Buzzati per dirgli che dal suo racconto, letto anni prima, gli era venuta l’idea di farci un un film sull’aldilà. Con Buzzati ne parlarono quella sera stessa cenadno a base di pesce in un famoso ristorante milanese. Già questo antefatto aveva reso il progetto sulla “scalogna” ancor più difficile e menagramo. Almeno per chi ci credeva!
Federico e “Peppino” ne parlavano ormai a cenni, tanto il “materiale era incandescente”. “Eduardo” diceva saggiamente “non è vero ma ci credo”. Perfino Luigi Pirandello il razionale cervello sorto nel “Caos” [«Io son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco "Kaos"»] che era andato addirittura a Bonn per scrivere la sua tesi sugli antichi dialetti siciliani non si era sottratto con “La patente”. “Peppino” e Federico fino a quando il regista non iniziò la sua drammatica deriva conclusiva neuro-vascolare erano sempre restati d’intesa. Appena un cenno, come nel muto
«Per quella cosa. Ci sei Peppino?» «Tranquillo Federico. Sempre!» non è difficile intuire chi fosse il terapeuta.
Caro Maestro della luce e della fotografia, Giuseppe Rotunno, voglio concludere questo breve epicedio di commiato con un poeta di Roma, Giuseppe Gioachino Belli (1791-1863). Anche lui un grande, orfano di padre da ragazzo, che ha dovuto crescere in fretta inventandosi un “mestiere” proprio come te “Peppino”, amico mio.
…
E sta bbiocca sarà ddio bbenedetto,
che ne farà du’ parte, bbianca, e nnera:
una pe annà in cantina, una sur tetto.
All’urtimo uscirà ’na sonajjera
d’Angioli, e, ccome si ss’annassi a lletto,
smorzeranno li lumi, e bbona sera.
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