Date le circostanze attuali, dove tutto può essere allusivo a tutto e poiché tutti sono diventati sospettosi, tranne quelli che vanno a mangiare alla Caritas (sempre più numerosi), si poteva essere certi dell’esclusione della “Corazzata Potemkin” resa celeberrima dalla battuta di Paolo Villaggio in una delle sue gag fulminanti (“Il secondo tragico Fantozzi”, 1976), per non essere accusati di putinismo. Come filmone poteva starci, per la lunghezza (oltre un’ora), per il restauro della colonna sonora (un’avventura incredibile di cui esistono tracce elettroacustiche sofisticatissime per intenditori alla Cineteca di Bologna in “surround 5.1”), per il regista dell’opera Sergej Michajlovič Ėjzenštejn anche, ma il russo che trasudava da ogni fotogramma e quella scalinata di Odessa in cui precipita la carrozzina che richiama l’odierna tragedia russa-ucraina, lo avrebbero reso ostativo.
È stato cosi che il 27 dicembre 2022, Rai 3, ha inteso sdebitarsi coi propri utenti, trasmettendo dal dopocena fino quasi all’una dopo mezzanotte del giorno successivo i 251 minuti di "C'era una volta in America" la versione restaurata (2012), di Sergio Leone, conservata nella Cineteca di Bologna, che i critici considerano il suo testamento-capolavoro. Ancora Sergio Leone, quest’anno, passato in televisione da noi, qui, Italia; ancora un film didattico, esemplare soprattutto per chi ha re-inventato Holliwood, per riflettere, pensare, emozionarsi, riprendere discorsi sensati, anziché blaterare sulla terza guerra mondiale, minacciare l’Armagheddon nucleare dei “buoni” per fermare i “cattivi”, o viceversa, e altre assurdità tipiche della “guerra di propaganda” sparata a destra e a manca.
Ci sono due aspetti del maestro indiscusso del cinema mondiale che trovo di particolare rilievo e di rilevante originalità, oltre naturalmente alla scelta della storia da raccontare con la cinepresa che per semplificare viene indicata la “trama”. Detto altrimenti e più esplicitamente, una cosa è quando i suoi personaggi raccontano la storia della vicenda, altra cosa è quando agiscono il racconto. Proprio in questa contraddizione consiste la grandezza di Sergio Leone, sotto forma di tautologia irrefrenabile. Uso il termine “tautologia” non per esibire una vanità sciocca delle persone vacue che intendono intimidire i lettori adoperando parole difficili, ma per richiamare una celebre conferenza di Danilo Cargnello all’Università di Genova con un giovane Romolo Rossi , specializzando in neuropsichiatria, come allora si chiamava la specializzazione, che ardì interloquire col maestro di Conegliano Veneto. Tutti i giovani erano tenuti a fare domande per dimostrare la preparazione della “Scuola” e Romolo Rossi, appunto, ebbe l’ardire di alzarsi nell’emiciclo per dire all’indirizzo del maestro di Conegliano Veneto, con un coraggioso timore reverenziale «Mi pare che questa antropofenomenologia sia un po' tautologica». La sorpresa fu che Cargnello rispose entusiasta: «Lei ha capito! Noi procediamo per tautologia, noi diciamo in altro modo le stesse cose in modo che le cose possano essere comprese meglio». Rossi ricorda Cargnello per essere stato «uno dei personaggi fondamentali della psichiatria antropofenomenologica, ma direi della psichiatria italiana sul piano culturale [01]. In effetti, a pensarci bene, molti romanzieri, raccontano spesso lo stesso tipo di esperienza con linguaggio diverso, perchè l’accaduto resta, mentre il loro punto di vista muta al mutar del tempo e col fluire della vita.
Questa premessa per dire semplicemente che la originalità e la grandezza di Sergio Leone consiste nel rappresentaci la vicenda, la trama, dei meccanismi più arcaici della violenza umana, cercata a lungo quasi per tutta la vita di cineasta. La trovò infine nel racconto autobiografico “Mano armata” (“The Hoods”, 1952) di Harry Grey, un criminale statunitense nato in Ucraina. Così vide la luce “C'era una volta in America” (“Once Upon a Time in America”) nel 1984, a completare la sua trilogia del tempo: “C'era una volta il West” (1968) e “Giù la testa” (1971). Il film racconta la storia di un quarantennio di gangsterismo americano, quello che abbraccia gli anni Venti del Novecento, partendo dall’epoca del proibizionismo, per giungere agli anni Sessanta. Nessun contrappunto con la politica estera degli Stati Uniti, né quella interna contro le discriminazioni, i diritti civili, ecc.
Solo la violenza del crimine come stile di vita e di successo, in una società violenta, che è gia un tema sconfinato per le popolazioni del “melting pot“ a stelle e strisce e dell’”American dream”. Dapprima per bande di gente risoluta, quella di “Noodles” con altri tre piccoli delinquenti (Cockeye, Patsy e Dominic) dei bassifondi del quartiere ebraico del Lower East Side, di Manhattan, cui si aggiunge “Max”, a salire su, su, fino alla “Grande Mela” del crimine organizzato negli anni folli e brutali del proibizionismo, delle raffiche di mitra, della mafia ebraica a disputarsi il contrabbando con “Cosa nostra”. Gli anni de “Il Grande Gatsby” (1934), personaggio veramente esistito (non Jay Gatsbi ma James Gatz, arricchitosi misteriosamente, forse con la vendita illegale di alcolici) e altre smodatezze, fino ad approdare ai grandi interessi criminali delle lobbie rappresentate al Congresso degli Stati Uniti d’America.
Un’opera imponente quella di Sergio Leone tal quale ai “romanzi di formazione” nella grande letteratura, i “bildungsroman” di quella tedesca, paragonabile sotto certi aspetti a “I Buddenbrook. Decadenza di una famiglia” (1901), di Thomas Mann, dove qui si racconta il progressivo fallimento della borghesia mercantile di Lubecca, mentre nel film di Leone si racconta il rigoglioso prosperare della criminalità organizzata a New York. Di particolare interesse la figura di “Max” interpretata perfettamente da James Wood, con uno screzio psicotico paranoideo, non si sa quanto farina del suo scrigno artistico o suggerito da Sergio Leone. Sta di fatto che alla locuzione “Tu sei pazzo!”, risponde esageratamente urlando “Non lo dire mai più!” Bel tema. Rammento che nelle assemblee che precedettero la chiusura del manicomio di Monte Mario, girava una battuta che sembrava avere un certo consenso “il paziente psichiatrico è sempre l’ultimo a sapere di esserlo”. Qui sembra proprio il contrario e “Max” Bercovicz, il futuro senatore Bailey, sospetta un proprio squilibrio psichiatrico, dunque non vuole che altri lo dicano. Magnifico! Una “chicca” tra le tante del Maestro romano.
A questo punto si può fare un fermo immagine del lungo film di Sergio Leone, o meglio rileggere il copione della scena madre di “C’era una volta in America” che, a mio avviso, vale l'intera opera del Maestro.
«Be', sei stanco, buona notte» dice Fat Moe «Buonanotte Moe, grazie» risponde Noodles. Esitante sulla porta, Fat Moe si gira e chiede «Che hai fatto in tutti questi anni?» «Sono andato a letto presto», la risposta di Nodels.
Un grande salto nel tempo e un rientro sulla scena di grande suspence. È certo che verranno saldati tutti i conti lasciati in sospeso, la memoria non ha dimenticato la vendetta. Ecco il punto di congiunzione, tra questa espressione della grande filmografia di Sergio Leone e la grande letteratura europea. Questo breve dialogo tra Fat Moe e Nodels, richiama la “Recherche” proustiana, nell’incipit “Du côté de chez Swann – Combray”, «Longtemps, je me suis couché de bonne heure».
Tra i tantissimi interpreti di fama internazionale, tre i protagonisti assoluti nel cast assegnato dal regista italiano. Robert De Niro nelle vesti di “David «Noodles» Aaronson”, Elizabeth McGovern nei panni di “Deborah Gelly” e James Woods in quelli di “Maximilian «Max» Bercovicz”. Attori formidabili, diretti magistralmente, secondo un doppio registro narrativo il racconto attraverso le espressioni del volto e l’agito corporeo come passaggio all’atto un “acting out”. Il sapiente gioco di prestigio del maestro romano, è quello di raccontarci la violenza americana dei tempi del proibizionismo, due volte. La prima come emozione espressa attraverso i lunghissimi primi piani, i volti, gli sguardi degli attori, i dettagli che ti raccontano tutto sulla scena che tu non vedi ma segui perfettamente emozionandoti, concentrandoti fino a trattenere il fiato per seguire i passaggi di macchina. La seconda, come violenza esplicita attraverso le sparatorie, le torture i dettagli grandguignoleschi, con molto rosso simil-sangue verosimile, ma non vero, come se dicesse allo spettatore, semmai si fosse distratto, lo vuoi anche vedere? E allora guarda!
La violenza sotto qualsiasi aspetto resta sempre un gesto riprovevole più o meno giustificabile. Se la racconti o la scrivi, provoca un coinvolgimento emotivo, suscita empatia (l’empátheia dei greci l’Einfühlung dei tedeschi, l’empathy degli inglesi), detto altrimenti induce immedesimazione, quando assistendo a una scena o un racconto riusciamo a metterci nei panni dell'altro, che gli inglesi sintetizzano umoristicamente nella scarpe, quando dicono “put yourself in someone else's shoes”. Ebbene, se tu giri una scena dove l’obbiettivo è puntato sulla violenza che si sta consumando indugiando su dettagli e particolari truculenti, fiotti di sangue, schizzi di materia cerebrale, diventa altra cosa molto lontana da un racconto cinematografico, ti sfugge di mano, si scosta dal progetto artistico originario, resta semmai un documentario, perchè la realtà esplicita non ha mai avuto niente di artistico. Messi sapientemente insieme, uno a corollario dell’altro, nella stessa storia, per esplicitare il racconto o per inverare la parola, i due tipi di violenza funzionano, sono tautologici, diventano artistici, l’arte sapiente di Sergio Leone.
Note
01. Si veda “L’attualità di Bruno Callieri: una rilettura della sua “Inquieta fenomenologia dell’attenzione” di Sergio Mellina, Bruno Callieri, Pol.it 12 gennaio, 2020.
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