Charlie è uno stimato, appassionato professore universitario di letteratura; tiene corsi on line molto apprezzati dai suoi studenti, ma la finestra zoom del suo schermo è nera, Charlie non si mostra: insegna al buio, nascosto. A nulla sembrano valere la sua profonda cultura, unico a possederla in quella provincia profonda, la sua grazia e la sua empatia, a meno che non si nasconda nel suo appartamento, baricentro e punto di attrazione in cui si svolge l’intera scena del film, nell’arco di cinque giorni. Tratto dalla pièce teatrale di Samuel D. Hunter, The Whale deve infatti gran parte della sua forza espressiva alla scelta di aver affidato tutta la narrazione all’unico spazio dell’appartamento, claustrum protettivo ma anche prigione, nido di memorie e specchio di una soggettività che, come dice Charlie, “si è lasciata andare”. Si intende spesso con quest’espressione, di uso comune, un preciso scenario psicoanalitico: Eros si indebolisce nel gioco per la vita, varie ragioni come i troppi traumi, logorio, le troppe perdite, ne causano il disimpasto e il posto è vinto progressivamente dal suo antagonista Thanatos, e una delle vie attraverso cui ciò può accadere è sotto le spoglie di un intenso piacere: un eccesso, una dipendenza, una droga. E’ anzi, da sempre, una delle vie più utilizzate dagli uomini, menzionata da Freud ne Il disagio come una delle modalità per affrontare il male di vivere. Piacere particolare, che sfocerà nel dispiacere: l’al di là del piacere.
Il regista avrebbe potuto scegliere la figura del tossicodipendente da eroina, da nuove droghe, o l’alcolista, figure molto frequentate dal cinema, ha invece scelto per Charlie la deriva dell’obeso, una dipendenza oscena che non è mai, neppure oggi e soprattutto oggi, riconosciuta come tale, a cui non si riconosce il beneficio di un passato traumatico, del lutto antecedente, della sofferenza che ha portato lì, alla droga più a portata di mano, il cibo, e il cibo a poco prezzo, quello cosiddetto spazzatura, di cui il corpo si fa immondo gabinetto. The Whale è il finale di una storia, tenero, teatrale e splendidamente interpretato da Brendan Fraser, dell’eccesso come cura di un lutto.
Charlie è un uomo di mezza età che ha perso tutto, nell’aver perso l’uomo di cui era innamorato e per il quale ha abbandonato la famiglia, alla quale era ugualmente fortemente legato; ma questo amore omosessuale non gli viene perdonato, la figlia gli è sottratta e ora, adolescente rabbiosa, Charlie non ha altro desiderio che lasciarle un’eredità, morale e materiale, prima della morte. Nonostante gli insulti della vita, Charlie è un uomo che ha fiducia nella parola e nel pensiero; la parola letteraria fa da fil rouge a tutto il film, lo apre e lo chiude con l’immagine della balena (The Whale) di Melville, simbolica lotta tra Bene e Male, lotta nella quale si dibatte lui stesso, e romanzo che ha sempre colpito la sua fantasia e inaspettato aggancio con la figlia.
Un termine con cui spesso Charlie interroga la piccola girandola di personaggi intorno a lui è “disgustoso”: mi trovi disgustoso? Quando accesa, intanto, la televisione annuncia la vittoria di Donald Trump. Charlie rappresenta l’individuo che raccoglie in sé tutte le proiezioni di scarto dell’universo conservatore: gay, colui che rompe la famiglia tradizionale, grasso. Un peccatore. Uno che cede alla carne (ne morirà il compagno, in conflitto con la fede), al sesso e alla gola, ossia alla pulsione. Un debole, senza volontà, senza autostima. Che si procura da sé il suo male, il massimo della vergogna nell’etica americana che spinge al progresso. Come ha scritto la saggista Roxanne Gay (anche lei da sempre in lotta col peso) in un articolo sul New York Times all’uscita del film al Festival di Venezia, dove fu acclamato, occorre allo spettatore un certo lavoro empatico per immedesimarsi nel personaggio, appunto perché solleva un certo ‘disgusto’. L’eccesso e la mancanza vanno insieme ma, nel caso dell’obeso, la seconda si nasconde sotto il primo e sembra non urlare più nessuna pretesa. Mentre altre figure dell’eccesso sono state nel tempo associate anche al genio e alla sregolatezza, ad artisti, scrittori e musicisti, nessun genio si associa all’obeso, nessuno di noi vorrebbe riconoscervisi: egli è sempre l’altro, è lui lo sporco, l’avido, il pigro, l’incontinente, è un abisso che tutti temiamo e di cui abbiamo orrore, e alla maggior parte di pubblico non tende a suscitare empatia o tenerezza, nonostante si tratti di un soggetto devastato dalla perdita, a cui ha fatto fronte suicidandosi lentamente con l’eccesso. Come ci ricorda Freud in L’Io e L’Es (1922), poiché “l’Io è soprattutto un Io corporeo”, quando il corpo si modifica così massicciamente, l’Io si modifica: Charlie è un uomo colto e sofisticato ma essendo un grande obeso sembra, si sente ed è percepito come una bestia immonda, o al meglio come un bambino ingordo, un egoista. Solo l’amica infermiera gli è accanto, ha cura del suo corpo e ne rispetta la volontà di morire.
Darren Aronofsky è un regista che sa bene come trattare il corpo; di tutti i suoi film, questo è quello più in linea con The Westler, (Leone d’Oro nel 2008), dove un vecchio lottatore di wrestling tornava sulla scena: corpi che raccontano di una sconfitta, una resa, eppure insieme una presenza, una forza, una personalità.
Altra frase ricorrente nei pochi personaggi che bussano alla porta di Charlie è che “vogliono aiutarlo”: una piccolissima umanità, che prima lo ha respinto, apparentemente soccorrevole sarebbe desiderosa di ‘salvarlo’, facendolo ricoverare. Ma l’anima del personaggio sembra essere quella, da un lato, di una radicale libertà – vivere e morire a modo mio, come decido io – dall’altro la presenza di una struggente nostalgia, che permea tutto il film e si condensa alla fine nel lascito alla figlia e nel ricongiungimento nel ricordo, dove ormai la vita terrena, con tutte le sue miserie, si dissolve e Charlie può tornare al tempo perduto.
L’eccesso, in tutte le sue forme di cui l’obesità credo sia la più infrequente per la vergogna che perseguita il corpo dell’obeso, il cosiddetto fat shaming, abita frequentemente la stanza d’analisi. Il troppo di cui il paziente non sa fare a meno, che sia sostanza, gioco, sesso, cibo, tutte queste o alternativamente una o l’altra a seconda delle fasi della vita. Fame di oggetti, anche persone se usati come sostanze, affligge molti pazienti e molte persone in genere. Spento un eccesso, spesso il bisogno si sposta su un altro. I lutti, e i lutti cumulativi soprattutto, come per Charlie, sono spesso l’occasione scatenante. Tutti i personaggi del film, tuttavia, vivono perdite, e non sembra che l’eccesso curi, sebbene illuda come un balsamo tra i più seducenti e a portata di mano, capace di inebriare e silenziare il corpo, con le sue dolorose tensioni, le urgenze interne, di creare un nirvana, laddove la parola non sembra essere sufficiente, sebbene estremamente benefica. Il film risulta così dominato dal contrasto tra l’eccesso del corpo pulsionale e la costante presenza della parola poetica, sua sublimazione; ancora una volta il cinema, attraverso le sole immagini di poche giornate finali della vita di un uomo, ha portato lo spettatore al cuore della natura umana, della sua irriducibile complessità.
Song of Myself, recita una poesia di Walt Whitman che Charlie scambia con la figlia: complessità che va protetta da ogni conformismo.
I celebrate myself, and I sing myself,/And what I assume you shall assume, /For every atom belonging to me as good belongs to you….
(versione integrale della recensione)
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