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Un’educazione per la democrazia

28 Mar 13

Di simone.dambrosio

[ Offriamo ai lettori di POL.it la presentazione che Vannina Fonte-Basso ha scritto per l’edizione di questa importante pubblicazione del grande storico polacco Bronislaw Baczko. Un’educazione per la democrazia parla della scuola e dei suoi problemi. Ne parla attraverso la voce dei protagonisti del dibattito sull’istruzione pubblica che percorre gli anni della Rivoluzione Francese: un dibattito più che mai attuale nel nostro paese, dove è in atto, oggi, un evidente tentativo di impoverire l’offerta didattico-formativa della scuola pubblica]

"L’uomo non crea cose veramente grandi che al principio; in qualunque campo, solo il primo frutto è integralmente valido" Claude Lévi- Strauss, Tristi tropici, Il ritorno.

PRESENTAZIONE DELL’EDIZIONE ITALIANA

Vi sono almeno due motivi per proporre ad un pubblico, non solo di addetti ai lavori, questa raccolta di testi presentata da Bronislaw Baczko. Il primo è che vi parla di scuola e addentrarsi nei problemi della scuola è da sempre, per tutti, coinvolgente, suscita ricordi, spinge a prese di posizioni, a giudizi…

Il secondo motivo è che questa scuola di cui tanto si parla, è diventata un "oggetto" difficile da definire. Anche se ormai nella coscienza comune la connessione tra democrazia e istruzione viene quasi data per scontata e il diritto all’istruzione, verso cui dichiarano di mirare le politiche scolastiche di qualsivoglia colore politico, sembra un elemento assodato, la realtà dei fatti presenta un quadro ben più problematico che impone una riflessione: quale miglior mezzo per affinare i nostri strumenti di analisi, del ripercorrere le tematiche, le contrapposizioni, le tappe salienti del dibattito che ha interessato gli attori della Rivoluzione negli anni in cui nasce e si afferma l’idea di una scuola pubblica come necessità e come diritto? Non si tratta però di mitizzare un’ "origine" e di cercarvi facili risposte ai problemi del presente. Della suggestiva frase di Lévi-Strass non va fatta una lettura ingenua: l’origine, se di origine si vuol parlare, non è in questo caso semplicemente un evento, e nemmeno una serie di eventi; è un fenomeno complesso, composto da idee già in precedenza proposte e dibattute, idee intessute di immaginario, incarnate nei protagonisti, legate alle circostanze e ai travolgenti eventi della Rivoluzione e lì realizzate solo sotto forma di progetti o di parziali esperimenti (la scuola di Maggio) con una durata limitata. Non c’è quindi un fatto, o un’ "opera" da osservare: ma c’è un mondo che prende forma e che noi ora da lontano possiamo osservare, nel quale possiamo addentrarci.

Bronislaw Baczko

Non era pensabile proporre ai lettori un testo di questo genere senza l’ampia introduzione di Bronislaw Baczko. Chi è Bronislaw Baczko? Per molti un nome già noto, lo studioso dell’Utopia, autore di un fondamentale testo uscito in Francia nel 1978 e subito tradotto in Italia ("L’utopia. Storia dell’immaginazione sociale e delle rappresentazioni utopiche", Einaudi, 1979) ; l’esperto conoscitore del periodo rivoluzionario ("Come uscire dal terrore" Feltrinelli, 1989) e del secolo dei lumi, il collaboratore prezioso dell’enciclopedia Einaudi, che redige le voci "Utopia", "Immaginazione sociale", "Uomo"; un autore indispensabile per chi vuol capire e conoscere il secolo XVIII, che egli affronta fin dagli anni della giovinezza, in Polonia, quando, nel corso delle sue ricerche filosofiche, si imbatte in Rousseau, sul quale scrive un’ importante monografia, affrontando un periodo storico e tematiche che non abbandonerà più. Un autore molto apprezzato in Italia, dove il suo affascinante testo "Giobbe, amico mio. Promesse di felicità e fatalità del male", viene tradotto nel 1999.

La sua vicenda intellettuale ed umana inizia in Polonia, a Varsavia, sua città natale, dove, dopo le vicende turbinose della guerra e il soggiorno di due anni in un colcos, (la struttura collettiva agricola dell’epoca staliniana), ritorna, come ufficiale dell’armata Polacca, nel 1944. E’ all’Università di Varsavia che completa i suoi studi di filosofia e inizia l’attività accademica. E’ membro del partito, quadro intellettuale già autorevole, e viene chiamato a far parte dell’importante "Istituto di formazione dei quadri scientifici", da dove dovevano uscire gli insegnanti marxisti nell’ambito delle scienze umane. Si occupa allora di studiare le idee della Società Democratica polacca, organizzazione della sinistra democratica nel sec. XIX e presenta una tesi su questo argomento. E’ il periodo di più forte ortodossia nei confronti del partito (1952-1953), che lo induce a posizioni polemiche nei confronti di importanti studiosi, come Tadeus Kotarbinski, a cui, più tardi, ma non troppo più tardi, porgerà le sue scuse. La sua evoluzione intellettuale, in Polonia, a Parigi dove soggiorna grazie ad un progetto Unesco, a Varsavia dove insegna Storia della filosofa, è intrecciata, come mette in luce Krystzof Pomian, alle vicende politiche della Polonia e ai cambiamenti che ne attraversano la vita intellettuale e sociale. Egli ripercorre le principali tappe del percorso di questo studioso legato fin da giovanissimo alle vicende del suo tempo, del suo paese, ma da subito capace di quello sguardo penetrante su fatti, idee, situazioni, che non lo abbandonerà più. Pomian, che seguì da studente i corsi universitari del giovane "professor Baczko", ricorda un episodio che ne mette in risalto la libertà intellettuale rispetto al marxismo ufficiale in un momento in cui il terrore staliniano, e la paura, erano vivi in Polonia. Nel 1952, gli sottopone un suo piano di lavoro per un rigoroso seminario di materialismo storico a cui doveva partecipare. Baczko analizza il materiale e la sua risposta è: "non è molto marxista, è piuttosto durkeimiano"; ma aggiunge: "non c’è niente di male a essere durkeimiani". Egli indica la pubblicazione del testo "L’homme et la vision du monde" nel 1965 come un momento significativo nella produzione intellettuale di Baczko. Lo colloca inoltre nell’importante corrente "revisionista" che definisce "un’attitudine, o uno stato d’animo, espresso, ognuno a suo modo, da individui", un gruppo di intellettuali amici, che non avevano bisogno di documenti programmatici. Gli incontri di questo gruppo, liberi, non strutturati, permettevano un confronto e un approfondimento sulla situazione del paese, a fronte di informazioni ufficiali ormai inattendibili, e vengono ricordati come importanti dallo stesso Baczko in una bella intervista che egli rilascia a Michel Porret, pubblicata in "Sens des Lumières" (georg EDITEUR, Ginevra 2007). Siamo nel 1965. Di lì a poco cominciano le prime espulsioni di esponenti del gruppo dal POUP, per attività contrarie alla linea del partito. E’ il 1968: Baczko viene colpito da una serie di misure repressive, legate anche alla campagna antisemita messa in atto nel paese dal generale Moczar dopo la Guerra dei sei giorni, che rendono impossibile la sua permanenza in Polonia: non può insegnare, né pubblicare, né essere citato. Per un professore che della sua attività d’insegnamento aveva fatto un punto centrale, (sempre Pomian ricorda il suo successo presso gli studenti, che finivano con l’assomigliarli, tanto da essere chiamati "Baczkoides"), per un intellettuale arrivato ad un punto centrale della sua produzione (anche il suo libro su Rousseau è già stato pubblicato) significa trovarsi a ricominciare, guardando altrove, lasciandosi alle spalle un percorso di continuità, divenuto impossibile. Ancora una volta c’è la Francia. A Parigi egli aveva trascorso, negli anni ’50, un periodo importante per la sua formazione intellettuale: lezioni tenute da Lévi—Strauss, camera divisa con Witold Kula, il grande storico polacco, autore di "Le misure e gli uomini dall’antichità ad oggi", tutte le letture possibili degli autori che negli anni cinquanta rendevano Parigi "la Capitale", non solo della Francia, ammantandola di quello splendore che è ancor oggi parte del suo fascino. In Francia, a Clermond-Ferrand, nell’accogliente Ginevra, in Svizzera poi, Baczko riprende l’ attività d’insegnamento e di ricerca, ritrovando nel suo percorso di insegnamento e di studi quella continuità che le fratture degli eventi non hanno toccato, carica di coerenza e di profondità.

Questo è quindi lo studioso al quale ci affidiamo per una comprensione ampia e profonda delle tematiche pedagogiche, del problema dell’istruzione come necessità e come diritto, messe a fuoco fin dai primi anni della Rivoluzione e dibattute poi a lungo. Già il titolo, "Un’Educazione per la Democrazia", mette in evidenza un elemento essenziale: il legame tra la Rivoluzione e la sua vocazione pedagogica, realizzata attraverso istruzione ed educazione, strumenti che devono rendere fatto reale la Democrazia, quella democrazia evocata spesso, senza essere nominata, strettamente legata a ciò che si affronta, la disuguaglianza tra gli uomini, e che si impone come emblema della rivoluzione con un nome che diviene parola d’ordine: "Eguaglianza".

Illuminismo e Rivoluzione: liaisons dangereuses

"Testi e progetti del periodo rivoluzionario": questo è il sottotitolo dell’ampia raccolta curata con rigore da Bronislaw Baczko. In realtà il discorso introduttivo si rifà ad un corpo di materiali ben più ampio di quello qui presentato e soprattutto ha alle spalle gli strumenti interpretativi che Backo, storico delle idee, filosofo di formazione, ha affinato a partire dai suoi studi su Rousseau. La conoscenza dell’illuminismo sta a monte e c’è quindi una prima indicazione: bisogna essere consapevoli che la cultura dei lumi è un insieme differenziato, dove si deve dar conto di contraddizioni, dove agiscono idee-immagini che mutano il paesaggio sociale. Egli stesso racconta che si è avvicinato alla Rivoluzione colpito dalla forza dell’idea-immagine del calendario rivoluzionario e, di conseguenza, si è interessato ai discorsi e alle pratiche pedagogiche, le feste civiche rivoluzionarie, opera di una comunità politica costruita sulla trasparenza dei suoi valori, mezzi con cui la Rivoluzione vuole realizzare la sua missione pedagogica; una missione di grande respiro: rigenerare la nazione e formare un popolo nuovo.

Il dibattito, ricostruito seguendo un’evoluzione temporale che è anche evoluzione politica, ricostruisce una scena ampia e complessa. Ripresentarne la forza, le mille sfumature, non è facile, premette l’autore, innanzitutto per la quantità di piani e progetti, ma anche per la distanza che separa i termini del dibattito di allora dal nostro presente. Non è quindi questo uno scenario nel quale è facile orientarsi, né lo è mettere in relazione posizioni e proposte, progetti relativi all’istruzione con precise correnti politiche, Girondini, Montagnardi, Palude, che ne riflettano il radicalismo o un animo più moderato.

Sono molte le questioni che emergono in questi continui dibattiti che affrontano il problema di un’istruzione/educazione definita, nei diversi progetti, come – pubblicarepubblicananazionale, ma anche come rivoluzionaria; sono molti i problemi che questo periodo storico pone, a cominciare dal concetto stesso di Rivoluzione, dalla sua periodizzazione (quando comincia la Rivoluzione? quando inizia la china discendente che la renderà irriconoscibile, con Napoleone e quell’emblematico 18 brumaio anno VIII ?).

Attraverso la ricostruzione di proposte, contrapposizioni, scontri, sull’istruzione pubblica si mettono in luce, ricollocando i termini del problema nella giusta posizione, questioni controverse e dibattute quali il rapporto Rivoluzione-Democrazia e il rapporto Lumi-Rivoluzione. Sono le fondamentali connessioni educazione-democrazia-lumi—rivoluzione che vanno comprese e va considerato il rapporto Lumi-Rivoluzione.

"La Rivoluzione figlia dei Lumi?" È la domanda che Baczko pone all’inizio della sua introduzione e la risposta è: "Sì, ma è stata un’enfant terrible". Proprio attraverso questi testi emerge e viene esplicitato nel dettaglio l’apporto dell’ IIluminismo alla Rivoluzione.

Quanto alla prima questione, il rapporto Rivoluzione-Democrazia, non è questa la sede per ricordare le innumerevoli polemiche che hanno coinvolto storici ed intellettuali sulle responsabilità dell’Illuminismo nei confronto della rivoluzione e dei suoi eccessi e di quanto questa abbia a sua volta spianato la strada ai totalitarismi del XX secolo. Baczko nel suo colloquio con Michel Porret esprime chiaramente la sua posizione: la sequenza Illuminismo uguale razionalismo-macchina-ghigliottina-terrore-totalitarismo, che diventa illuminismo uguale totalitarismo, fa parte di un cliché, di uno stereotipo diffuso, come ha potuto verificare in occasione delle numerose presentazioni, a partire dal 1999, del libro, Giobbe, amico mio. Dovevo spesso, dice, "ripetere che Adam Smith e Thomas Jefferson appartengono alla cultura dei Lumi." L’Illuminismo, egli afferma, non ha nulla a che fare con il totalitarismo.

Quello che è stato dibattuto allora, sui temi istruzione/educazione/eguaglianza, ci riporta piuttosto ad altre riflessioni imposte dalla problematicità del nostro presente. Il diritto allo studio, il diritto all’istruzione, sono ancora punti critici, irrisolti, se come è giusto fare, il nostro sguardo non comprende solo i paesi dove questi principi trovano una pur criticabile applicazione, ma abbraccia la popolazione di tutto il pianeta, legata da un unico destino; quello che fanno o non fanno le politiche scolastiche dei vari paesi, quello che manca in numerosi paesi, le tematiche relative all’equità trattate da Ralws, ci riportano all’aspetto forse più problematico dell’ "istruzione", alla necessità che non venga perduta quella carica ideale che può rendere legittima, per tutti, una qualche speranza nel futuro.

Questo non significa sovrapporre, meccanicamente, gli esiti del presente al passato. Questi dibattiti del periodo rivoluzionario vanno capiti, mette in guardia Baczko, nella loro dimensione sincronica senza cercarvi, quello che poi, più avanti nel tempo, è stato realizzato, in Francia con la legge Ferry, ma in generale in tutti i paesi occidentali nei quali la scuola pubblica e l’obbligo all’istruzione, diritto e dovere, sono diventati una realtà. Ed è quindi del tutto fuorviante cercarvi pedagogie di destra o di sinistra, (girondini- montagnardi- robesperristi- post-termidoriani), cercare un unico filo rosso, che conduca dalle proposte di questo periodo "caldo" ai futuri interventi legislativi sulle scuole occidentali. Baczko ricorda anche, tra le righe, che ogni storico deve partire da una consapevolezza dei legami, intellettuali, morali, che egli ha con il suo tempo: anche senza parlare di condizionamento, c’è sempre un fare i conti con un presente da cui può essere necessario prendere le distanze. Questo non vale solo (è la "responsabilità morale", che è anche responsabilità scientifica, di cui parla in un suo articolo degli anni ‘60) per il mestiere dello storico, ma per ogni lettore che voglia, lucidamente, affrontare la conoscenza di questi periodi che per alcuni tratti permettono fulminei flash, accostamenti con l’oggi che sembrano non avere bisogno di verifica, cosa che non può mai essere vera.

Nella complicata scena degli anni della Rivoluzione molte cose si giocano, anche rispetto al nostro futuro: c’è bisogno di uno sguardo che veda dell’altro, vada oltre i consueti schemi interpretativi, permettendo anche a noi una visione più chiara del processo turbinoso che essa ha innescato.

Un autore come Bronislaw Baczko è una guida perfetta: l’attitudine di "bricoleur" alla Lévi- Strauss, che egli si riconosce, gli permette di usare i materiali più svariati, testi di autori, noti e meno noti di cui ci restituisce uno spessore a tutto tondo, così come la narrazione di eventi apparentemente insignificanti. Nella sua cassetta degli attrezzi, come direbbe Furet, suo amico e interlocutore privilegiato, vi sono raffinati strumenti interpretativi.

Estensione, profondità, capacità di cogliere i particolari, le dissonanze, oltre che le continuità: si può chiedere di più allo sguardo indagatore dello storico/filosofo? che si traduce in sostanza nella capacità di comunicare le dimensioni problematiche delle situazioni senza rifugiarsi in schemi di comodo, ma senza rinunciare a spiegazioni che permettano un comprensione che si avvicini alla dimensione "reale" di ciò che è accaduto.

La storia della Rivoluzione Francese è già stata scritta mille volte. Da Michelet, a Taine, e a Thiers, a Souboul, a Lefevre e così via. Ma ogni scrittura, ogni riscrittura, ricorda Koselleck, è legittimata dalle nuove domande che sono poste, alle quali si risponde grazie a nuovi modelli di spiegazione. Per Thiers si tratta di "scrivere la storia di una rivoluzione memorabile, che ha profondamente sconvolto gli animi e che ancora oggi li divide" per Baczko si tratta, ancora una volta, di dare una risposta alle contraddizioni, o meglio al fatto che, anche, soprattutto nel dibattito pedagogico, non tutto é schematizzabile, spiegabile con successioni lineari di cause, effetti, o trovando corrispondenze tra proposte pedagogiche e precise posizioni politiche con esse coerenti. Le parole illuminismo, rivoluzione, democrazia, immaginario sociale, che ritroviamo frequentemente nel testo introduttivo, sono presenti in un contesto che non ha semplificato nulla e che ci restituisce tutta la complessità delle situazioni.

Si spiega la Rivoluzione attraverso l’analisi della sua vocazione pedagogica, incarnata nei dibattiti dei suoi protagonisti: la loro problematica continuità, le carenze del nostro presente rispetto alle prospettive, ai sogni di allora, non troveranno forse risposta, ma la domanda che conclude l’introduzione vale più di una qualsiasi risposta.

La scelta dei Testi

In questa edizione italiana tra tutti i Rapporti, Progetti, Piani d’istruzione ne sono stati scelti solo alcuni e rispetto all’impianto originale si può temere che l’esiguità dei materiali non renda ragione della ampiezza e dello spessore che questa tematica ha avuto negli anni della rivoluzione. D’altra parte lo stesso Baczko nella sua introduzione fa presente che la sua scelta rende conto delle principali tappe legislative e relativi dibattiti, ma che egli si riferisce ad un corpo più ampio di materiali di cui vuole mettere in risalto lo slancio utopico che li anima. Siamo quindi orientati alla comprensione di queste tematiche e delle fondamentali connessioni tra educazione- democrazia- lumi – rivoluzione, dalla sicurezza di un autore che in questo mondo si è addentrato a fondo. E’ l’introduzione il testo centrale attorno a cui ruotano gli altri: lì c’è la dettagliata analisi sincronica e lo sviluppo diacronico, con le scansioni che caratterizzano le diverse, contingenti fasi politiche. E’ il filo d’Arianna per seguire questo dibattito su istruzione /educazione che è alla ricerca di un esito che in quella fase non trova.

Sono quattro i testi scelti, presentati rispettandone l’ordine temporale: il Rapporto di Condorcet (aprile 1791), il Piano di Lepeletier (luglio 1793), il Rapporto sull’istituzione della Scuola Centrale dei lavori pubblici di Fourcroy (3 vendemmaio, anno III – 24 settembre 1794 ) e Il Rapporto sull’istituzione delle Scuole Normali del 2 brumaio, di Lakanal (anno III – 23 ottobre 1794).

Condorcet-Lepeletier: una contrapposizione non risolta

Abbiamo detto che questo libro verte sull’introduzione, che non potrebbe esserci una presentazione di questi testi senza la trattazione che ne fa Baczko. Non potevamo quindi prescindere dal testo di Condorcet, le cui caratteristiche sono ampiamente illustrate nell’introduzione e nella specifica nota introduttiva. Il Rapporto è completato dalle Note che Condorcet aggiunse in occasione della ristampa del Rapporto, nelle quali riprende, con altre argomentazioni, numerosi punti che erano stati oggetto di critiche. Ci è parso interessante accostarvi la lettura del testo di Lepeletier, il progetto robespierrista per eccellenza. L’introduzione chiarisce molto bene quanto la contrapposizione tra educazione e istruzione differenzi i due testi, contrapposizione chiara già allora, e usata come arma polemica dai protagonisti del dibattito: se sull’istruzione, si ammette nel Progetto Lepeletier, sono state presentate "utili idee", il punto sull’educazione "è stato completamente trascurato."

Una lettura diretta può far notare una serie di dettagli: ad esempio, l’ampiezza di prospettive del lungo testo di Condorcet dove la presenza del sapere nella società, della "cultura", nonostante questo termine non compaia, costituisce una delle basi dell’intero impianto pedagogico; o, a fronte del martellamento continuo che nel testo di Lepeletier viene fatto sull’ uomo/bambino repubblicano, forgiato su un’ unica indelebile matrice, la presenza in Condorcet dell’uomo come "individuo". Il suo discorso comincia proprio dichiarando quello che la società deve garantire "a tutti gli individui". Certo è la visione complessiva della società che è più composita, più articolata, ma è anche la complessità dell’essere umano prefigurato (homme) che fa la differenza: non è solo, non è tanto, bambino o adulto che sia, cittadino investito da diritti -questo certamente c’è ed è un punto in comune- ma un individuo di cui vanno definite le libertà individuali: in primis, quella libertà di giudizio e di opinione che egli pone come obiettivo del processo di istruzione/ educazione. Benjamin Constant nel suo importante testo "La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni", testo che pone la base di fondamentali questioni che riguardano i diritti individuali , cita Condorcet ricordando le sue affermazioni sugli antichi, estrapolate dalle "Cinque memorie", il testo sull’educazione che Condorcet aveva pubblicato prima del Rapporto. Vi si afferma che gli antichi non avevano alcuna nozione dei diritti individuali e che per loro gli uomini erano "nient’altro che macchine" regolate dalla legge. Così mentre nel piano Lepeletier prevale una scena sociale popolata da bambini/uomini che si vuole si somiglino, forgiati da un unico "stampo repubblicano", nel progetto di Condorcet le individualità, di bambini e adulti, sono preservate, senza toccare il principio di uguaglianza, grazie all’autonomia e alla libertà che l’istruzione, il sapere, devono mantenere difendendosi dalle ingerenze del potere, in tutti i suoi livelli, dal primo fino all’ultimo, la Società nazionale di lettere ed arti. E’ un concetto che ritorna più volte e che viene espresso come un giudizio indiscutibile: qualsiasi governo è, per sua natura, "conservatore" e tende quindi " a interrompere i progressi della ragione". (nota j)

Si potrebbe osservare, inoltre, come la stessa proposta "didattica", così la chiameremmo oggi, dei due progetti sia condizionata dalla visione di fondo della società, che sta a monte. Sono ambedue proposte dettagliate, spaziano, oscillando in modo diverso, come abbiamo già notato, nei fronti educazione/istruzione, sono rivolte ambedue a bambini e ad adulti (l’educazione degli adulti oggi riproposta, certo in termini diversi, non è propriamente una novità!), ma quanto stride il confronto tra l’insistenza sul controllo del tempo e dello spazio dei bambini come strumenti educativi essenziali del piano Lepeletier rispetto all’attenzione di Condorcet sulla specificità dei talenti, su certe caratteristiche della mente infantile, sulle avvertenze che bisogna avere quando si insegna ai bambini e sul rispetto loro dovuto.

E’ una lettura appassionante, come può essere appassionante un confronto tra quei dettagli delle due proposte, e sono tanti, nei quali ritroviamo dilemmi educativi ( uso questo termine perché ormai il binomio istruzione — educazione è dato per scontato nelle nostre scuole, a partire dalle scuole dell’infanzia fino ai licei) su cui ancora ci può essere dibattito. Certo non si può dimenticare il cammino della ricerca educativa, gli apporti delle scienze psicologiche, le conoscenze sugli assetti organizzativi (dalla centralizzazione del sistema d’istruzione si è passati, anche in Italia, ad una gestione di Autonomia degli Istituti scolastici), insomma, tutte quelle differenze che un’analisi storica vorrebbe vagliate con ben altre argomentazioni; tuttavia, le feste come momento educativo, l’adeguatezza dei testi didattici, i contenuti da trattare, l’importanza dell’educazione scientifica, e molti altri punti su cui si soffermano questi primi progetti possono, ancora una volta, offrirci elementi di riflessione.

Del Piano Lepeletier va fatta anche una lettura autonoma. E’ insistente e continuo, nel testo, il riferimento alla disuguaglianza della ricchezza, alla povertà. E’ la Francia dell’epoca. Un’ allusione alla differenza che c’è tra chi raccoglie i frutti e chi spigola (il povero) rimanda ad una Francia agricola, in cui la distinzione tra ricchezza e povertà si gioca anche su questo piano. Lo storico Marc Bouloiseau, autorevole difensore della figura di Robespierre, ricorda l’osservazione del suo maestro, George Lefebvre, secondo il quale al capo dei giacobini mancò la consapevolezza di quello che avrebbe significato l’affermarsi della concentrazione capitalistica. Il suo ideale di giustizia sociale, gli interventi sulla ridistribuzione della ricchezza sono "in contraddizione con la libertà concorrenziale dell’economia che assicurava l’avvenire alla concentrazione capitalistica" e che rendeva obsolete visioni e soluzioni che facevano riferimento ad assetti economici destinati a scomparire.

Condorcet e Robespierre: per ambedue la Rivoluzione è il terreno del sovvertimento, entrambi lo auspicano. Nei progetti d’istruzione emerge il "peso" delle forze in campo: in Condorcet, la cultura ha un grande peso, in Robespierre la povertà ne ha di più.

Nella strategia educativa di Robespierre c’è il riferimento alla disciplina militare. C’è la visione di bambini operosi, che provvedono, in parte, con il loro lavoro, al sostentamento degli istituti pubblici nei quali vengono allevati ed è senza biasimo il riferimento ai minori impegnati "fort utilement" nell’industria, dagli otto anni in su. C’è la convinzione che basti confiscare il tempo dell’infanzia per imprimere in modo indelebile convinzioni profonde, c’è una visione semplice, schematica del corpo-macchina. C’è l’illusione del controllo sulle persone, sull’intera popolazione, da ottenersi in pochi anni, con semplici, grezzi strumenti di controllo, la confisca del loro tempo innanzitutto; masse, persone che sono poi rimandate ad una società dove la popolazione è sparsa nel territorio e tutto è fermo. Fermo alla zolla, fermo al lavoro manuale. Il tempo non è però fermo per Condorcet che capisce l’accelerazione che il tempo rivoluzionario ha dato alle cose e che in questo tempo accelerato ha visto muoversi veloci le idee, divenute concretezza presente nella realtà.

Sono, forse, osservandole con un’ottica genealogica, alla Foucault (il Foucault degli anni ‘70) che faccia risaltare quegli aspetti di disciplinamento della società da cui non è esclusa la scuola, semplicemente due diverse strategie di controllo? Ma è difficile accantonare, o anche solo mettere in secondo piano, quella carica ideale che vede nell’istruzione il mezzo per "far sparire" le ingiuste disuguaglianze tra gli uomini, come Condorcet ribadisce più volte, anche nelle note; o, anche in Lepeletier in cui la volontà di controllo è, in un certo senso, rivendicata, non cogliere la positiva volontà di superare i vizi del vecchi sistema sociale, "i vizi della vecchia specie". Quel futuro dispositivo di potere, la scuola, non ancora messo a punto, ha in questo fase tutta la ricchezza delle prospettive che si pensano realizzabili e la sua carica eversiva, di riscatto, pare superare le latenze oscure, i suoi possibili "effetti indesiderati".

L’istruzione, un’istruzione che ora chiameremo "di base", è una parte importante, pur con un diverso valore, per ambedue; nella pratica è questa la parte della proposta su cui c’è accordo, ribadito all’inizio dell’intervento di Lepeletier: su quale sapere dare ai poveri: che non è comunque il sapere con la S maiuscola.

Non è questo il luogo in cui è possibile affrontare le tematiche del sapere nella nostra società: si tratti del rapporto scienza—potere, emerso in modo eclatante con le vicende legate all’atomica nella seconda guerra mondiale, o di quella ricerca di una "terza cultura" che superi insieme la contrapposizione tra sapere scientifico e sapere umanistico, così come la parcellizzazione dei saperi, confinati in ambiti specialistici; o si tratti invece, di ricordare ambiziosi documenti europei o considerare, semplicemente, quei saperi, più legati all’istruzione di base, definiti "saperi minimi" o "saperi essenziali" nella letteratura pedagogica, che sono, appunto, i saperi "per tutti". Anche su questo punto, apparentemente non troppo controverso- (vi sono griglie sui saperi minimi, con relativi strumenti di verifica, elaborati da noti studiosi dell’area anglosassone e utilizzati, a suo tempo, anche nelle scuole italiane) non è in realtà pensabile che possano essere offerte soluzioni definitive. E’ la varietà delle specifiche situazioni, dei paesi nei quali gli allievi (siano, ancora una volta, bambini o adulti) si ritrovano a vivere, è l’evoluzione stessa del sapere nella nostra società della comunicazione, che ne condiziona pesantemente i "mezzi" di trasmissione, che rende aperta a tutto campo, ma problematica, qualsiasi strategia di intervento.

Il rapporto Fourcroy: uno sguardo al futuro

Il Rapporto di Fourcroy, che segue le proposte di Condorcet e Lepeletier , si pone su un altro terreno. Qui non è in gioco l’istruzione per tutti, bensì un particolare tipo di istruzione superiore, legato da un lato a motivi contingenti (le necessità imposte dalla guerra) dall’altro lato alla gloria della nazione rigenerata, la Francia repubblicana, la "Republique", termine che compare frequentemente nel rapporto. Il testo offre tre elementi di interesse. Innanzitutto il personaggio stesso che presenta la proposta. Fourcroy è un uomo della continuità, politicamente solido, abile.

In secondo luogo la sua proposta si inserisce in un filone che avrà un futuro: la Scuola Politecnica è stata, ed è tuttora, un fiore all’occhiello del sistema scolastico francese. Il filone rivoluzione-scienza è stato oggetto di numerosi studi, così come l’origine dell’Ecole Politecnique. Quello che nel testo si può leggere apre uno spiraglio sul legame tra la guerra e lo sviluppo tecnico e scientifico. Il terzo elemento di interesse del testo è costituito dalle sue dichiarazioni sulla situazione politica di questa fine del 1794: i commenti sul "vandalismo" dei robespierristi e sul Progetto Lepeletier ci riporta nel cuore del dibattito sull’istruzione pubblica del post-termidoro. Inoltre, fatto importante, viene ribadito qui il rapporto illuminismo—rivoluzione. Fourcroy, il cui corso politico non finisce con la fine della rivoluzione stessa, rivendica questa origine nel suo discorso di presentazione al progetto sull’istituzione della Scuola Politecnica dicendo esplicitamente: "I lumi hanno cominciato la Rivoluzione". Certo è una percezione di sé, di un attore della rivoluzione, un’auto-rappresentazione che François Furet ci inviterebbe a non prendere troppo sul serio: difficile obbedire, quando una convinzione viene espressa in modo così fermo.

Anche qui ricorre il termine lumière: è un termine che ricompare sempre associato al valore, alla necessità dell’istruzione, con al suo interno il germe di un concetto che ancora non appare, "cultura". Siamo certamente, dopo il Termidoro: la politica conta. Ma quanto pesa quell’eredità nella concezione della proposta di Fourcroy? Quanto l’idea di un sapere unitario, proprio degli illuministi, sta alla base della volontà di creare una scuola che unifichi saperi affini, come la Scuola Politecnica, una scuola che guarda al futuro in uno squarcio che pare lasciarsi alle spalle un passato popolato in gran parte da contadini e piccoli artigiani? Non è solo Condorcet che con la sua scrittura febbrile e coinvolgente ha imposto la successione lumi —progresso- e la corrispondenza lumi-cultura. Anche in questi testi, anche in questi differenti protagonisti, i legami con la cultura dei Lumi, che Baczko mette in evidenza nelle sua introduzione, trovano una conferma.

Lakanal: Il paradosso del formatore

L’ultimo testo proposto è quello di Lakanal. Ci ha spinto a questa scelta l’ampio inquadramento dell’introduzione e, insieme, la consapevolezza che un problema quale quello posto allora, insegnare "l’arte di insegnare", trova delle singolari sintonie con i problemi della formazione dei docenti di oggi. Baczko mette a fuoco queste problematiche con una padronanza da addetto ai lavori: senza mai farci perdere la concretezza del momento storico che sta analizzando pone problemi che si ripropongono anche in tempi diversi. C’è forse anche lo spessore delle esperienze personali (la sua lontana partecipazione alla scuola quadri di Varsavia?) che gli fa porre così chiaramente il problema del formatore ideale, investito di nuovi compiti, e delle diffidenze che questo ispira? Anche il testo di Lakanal ci riporta, ricordando le turbolenze dell’ultimo periodo, quel -"mondo incessantemente agitato da nuovi fatti"- al dibattito post-termidoriano. C’è un chiaro, quasi nostalgico, richiamo al progetto di Condorcet e ancora, una esplicita rivendicazione del legame Lumi-Rivoluzione che appare in un’ affermazione: "la Rivoluzione dell’ ‘89, portata dai lumi", così come nell’idea di comunicare un sapere che vada al di là delle specificità disciplinari.

Tutti i testi presentati sono quindi stati scelti sulla base delle posizioni cruciali che incarnano, per l’evoluzione di discorsi e fatti che rappresentano, per il legame con il futuro che prospettano.

Tutti hanno come premessa una Nota introduttiva di Baczko che dà notizie sugli autori e sul momento storico nel quale la proposta si colloca.

Per motivi editoriali abbiamo mantenuto dei due testi di Condorcet e Lepeletier una versione meno ampia rispetto nel testo originale, omettendo la parte propositiva dei due progetti, i specifici decreti. Questi materiali, estremamente dettagliati, offrono certamente numerosi spunti di riflessione, ma rispetto a quello che ci interessava, esplicitare le diverse posizioni rispetto ai principi ispiratori delle differenti proposte di istruzione pubblica, il Rapporto di Condorcet e il Piano di Lepeletier ci sono sembrati ampiamente esaurienti.

I testi di Fourcroy e Lakanal sono invece completi, come nell’originale.

Non potevano mancare materiali di apparato: abbiamo mantenuto gli utilissimi Orientamenti cronologici e la Bibliografia, a cura di Baczko.

Il quadro informativo è completato da una Bibliografia sugli studi italiani che vertono intorno al tema della pedagogia rivoluzionaria. Anche questo strumento è di grande interesse: è una importante indicatore della "fortuna", o meno, di queste tematiche, nel nostro paese, una traccia per ritrovare le particolarità che riguardano le diverse situazioni italiane e approfondirne aspetti rilevanti.

Il contributo è di Patrizia Zamperlin, docente di Educazione Museale, responsabile scientifico del Museo dell’educazione dell’Università di Padova.

 

La traduzione

La traduzione di questi testi settecenteschi ha richiesto alcune scelte ed alcune avvertenze. Innanzitutto sono testi scritti per essere letti, declamati, all’ Assemblea legislativa prima, alla Convenzione poi. C’è quindi, pur con le dovute differenze legate allo stile personale (è evidente, anche per un lettore distratto, la particolare forza emotiva con cui viene letto il progetto Lepeletier!), un’enfasi legata alla particolare situazione comunicativa. Il linguaggio dei diversi relatori ha caratteristiche comuni rispetto all’utilizzo di una certa terminologia, che rimanda a concetti corrispondenti, molto lontani da quelli che noi attribuiamo ora a quelli stessi termini. La storicizzazione dei concetti storici, il riferimento a Koselleck è d’obbligo, è ormai un dato acquisito nella strumentazione degli storici, che spesso li contestualizzano e spiegano, come premessa alle loro narrazioni e ricostruzioni storiche. A volte proprio certi concetti-chiave sono l’ambito di indagine dello storico. Lo stesso Baczko, rileva la fortunata coincidenza della nascita del termine con la pubblicazione del testo Utopia di Thomas More o si sofferma sulla complessità semantica del termine immaginazione, filo conduttore del suo contributo diacronico sull’Immaginazione sociale.

La lingua di questi testi è il francese settecentesco e rimanda all’universo concettuale di quel periodo. Vi si trovano frequentemente termini polisemici come "foyer", che significa "focolare", ma anche "luogo natio", "paese natale", e che lascia intravedere una inaspettata sensibilità nei confronti delle "origini", o il quasi intraducibile (mente-intelligenza- spirito?) "esprit"; vi si trovano termini utilizzati nell’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert e questo a prescindere dall’appartenenza fattiva (come nel caso di Condorcet) a questo movimento. Termini come "objet-oggetto", "genres-generi", "vues-vedute-idee", come "art-arte" "arts agreables- "arti del piacere", "génie-genio", "talents-talenti", "savant", nel doppio significato di "sapiente" o di "scienziato" ed altri ancora, sono ricorrenti in tutti gli interventi che presentiamo. Vengono anche definiti termini che avranno un futuro: è nel Decreto presentato da Condorcet (Titolo I, Articolo I), -non pubblicato in questa edizione- che si specificano i titoli: instituteur, maestro, per i primi due gradi scolari, le primarie e le secondarie, professeur, professore, per gli istituti e i licei.

Abbiamo scelto di mantenere il più possibile una fedeltà "letterale" ai termini: li presentiamo così fidando nella chiarezza che il contesto del discorso comunica al lettore. A volte questo richiede un certo sforzo: ma si tratta di un faccia a faccia diretto con l’autore, più valido, a nostro parere, dell’inevitabile soffermarsi per decodificare l’offerta linguistica, anche se ben intenzionale, di qualsivoglia, autorevole o meno, traduttore.

Spendiamo una parola a parte per Condorcet: diversamente dagli altri, il testo di Condorcet è già stato edito in Italia, grazie alla notorietà del suo autore, legata al famoso scritto Schizzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, uscito postumo nel 1795 di cui, già nel primo ‘800 c’è copia nelle Biblioteche italiane ( si veda alla Marciana, a Venezia, ad esempio). La scrittura di Condorcet non è sempre lineare: riflette un pensiero articolato, denso, con connessioni che rimandano ad una visione della realtà di cui si intravede, anche se non sempre viene esplicitata, la complessità. E’ una scrittura forse talvolta ripetitiva, ma mai esageratamente retorica o ridondante; non è dunque una soluzione veicolare la traduzione accostandola al linguaggio fine settecento italiano, spesso ben più oscuro e di difficile lettura, per il lettore di oggi. E nemmeno pensare che la particolare enfasi del linguaggio italiano del primo ‘900, (a cui sfugge, in parte la validissima traduzione delle "Cinque memorie" di Giuseppe Jacovello, Milano, 1919 ) rifletta, fedelmente, una stessa enfasi del nostro autore. La differenza è enorme, e sempre, anche nei periodi apparentemente più contorti, c’è, in Condorcet, quel qualche cosa in più nella qualità complessiva della comunicazione che lascia intatta tutta la ricchezza delle cose dette.

Abbiamo cercato di rispettare questo registro comunicativo: in Condorcet, ma anche negli altri autori, sarà il lettore a scegliere la sfumatura di objet, di genie, di arts, di tutti quei termini che hanno avuto un’evoluzione concettuale che li separa dalla loro origine, un’origine a cui li riporta, quasi come una guida, il fluire dei loro discorsi.

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