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Caduto da una stella. Figure della identità nella psicosi

2 Apr 13

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Lo stile piano, elegante, meditativo, l’argomentare discreto e misurato, l’evitamento di ogni affermazione apodittica e/o definitiva, caratteri propri a tutta l’opera e all’insegnamento orale di Arnaldo Ballerini, pervadono anche questo suo ultimo testo: una rapsodia intorno a un tema centrale della clinica psichiatrica, le trasformazioni psicotiche dell’identità dell’Io.

Il discorso di Ballerini è animato dalla fascinazione per l’oltrepassamento del limite segnato dalla psicopatologia descrittiva jaspersiana e schneideriana, l’amore per la quale non impedisce all’autore di percepirne chiaramente l’insufficienza sotto molteplici punti di vista.

Il ponte su cui Ballerini tenta di effettuare il passaggio tra le due rive (che corrispondono, grosso modo, alle parole dimenticate di fenomenologia descrittiva e daseinsanalyse) è costituito principalmente dalla importante dottrina del filosofo francese, da poco scomparso, Paul Ricoeur: i concetti formali di identità-idem (essere sempre identici a se stessi) e identità-ipse (essere se stessi) stanno alla base di quella che è la raccontabilità di ogni singola esistenza, l’identità narrativa che ciascuno di noi ha o dovrebbe avere.

I pilastri su cui Arnaldo Ballerini tenta di traslare questa concettualizzazione in psicopatologia sono le diverse posizioni che, sul tema dell’identità, emergono dalle fenomenologie di Jaspers, Schneider e la sua scuola più recente (Huber, Gross e Klosterkötter), Minkowski, Binswanger, Conrad, Blankenburg, Kimura Bin, Tatossian e i suoi seguaci francesi di questi anni, che, raccolti intorno a Georges Charbonneau, rappresentano forse, insieme al gruppo che gravita intorno a Ballerini stesso, l’ultimo baluardo di studiosi che tenta di mantenere centrali, all’interno della riflessione psicopatologica, riferimenti filosofici espliciti. Fanno da sobrio contrappunto al percorso incursioni letterarie non consuete in psicopatologia, quali quelle in testi di Pirandello, Queneau, Borges e dell’amatissimo Manzoni.

Nonostante tutto questo grosso apparato di riferimenti teorici, tuttavia, l’altra sponda psicopatologica, quella che non considera più le abnormità formali del vissuto, ma semplicemente il divenire altro dell’esistenza individuale, per quanto anelata è spesso solo intravista e difficilmente viene toccata.

Uno spiccato senso della misura e del decoro impediscono a Ballerini di azzardare qualcosa di più di quanto è mediamente condivisbile. Sul vasto scenario teorico si staglia il vero nucleo del libro, quello del resto anche più originale, in cui il sapere fenomenologico si cala direttamente nella discussione di 5 casi clinici che pongono in primo piano, con diverse varianti, un tema caro a Ballerini, quello dei diversi tipi di delirio genealogico e di agnizione. La ricerca delle motivazioni del cambiamento del sè, quando permea il pensiero delirante attraverso intuizioni o interpretazioni retrospettive, che permettono di giustificare il proprio status presente negando l’identità dei propri genitori, configura una di quelle situazioni cliniche in cui proccessualità e derivabilità psicologica si tengono per mano, lasciando spazio ad un’ermeneutica affascinata da momenti rivelatori ed anche poetici.

Da uno dei casi, che ripropone il moderno mito fantascientifico di provenire da un altro mondo, è tratto anche il titolo del libro. La costruzione di una nuova identità, rifondata sul cambiamento delle origini, rappresenta una delle (poche) forme in cui la psicosi azzera l’identità-idem, ma non spezza del tutto la continuità creativa e adattativa di un individuo (l’identità-ipse) e, soprattutto, in cui non si genera quella grave compromissione dell’ipseità che impedisce di fatto ad ogni psicotico cronico di avere una reale definizione identitaria. L’identità delirante è insomma, in questi casi, iscritta in una narrativa (nel cosiddetto romanzo delirante dello psicotico, ben diverso da quello del bambino, su cui si è soffermato Freud) ed è quindi, a sua volta, ricostruibile e "pensabile".

Ballerini si conferma quindi psicopatologo attento per eccellenza a quelle situazioni intermedie tra l’incomprensibile e il derivabile quali, in precedenza, il delirio di riferimento ("La vergogna e il delirio" del 1990, con Rossi Monti) e l’autismo ("Patologia di un eremitaggio", 2002); ma questa vocazione per la minkowskiana psicologia del patologico è ben più retrodatabile, ad esempio a quando, con Laszlo, scrisse una monografia sulle vicissitudini psicotiche dell’Edipo che meriterebbe senz’altro di essere riedita, magari con qualche aggiornamento.

I modi, i riferimenti della psichiatria di questi anni, si sa, sono tutt’altri di quelli della psicopatologia fenomenologia che costituiscono i fondamenti euristici ed epistemologici delle argomentazioni cliniche di Ballerini. Ciò rende questo bel libro un oggetto fondamentalmente inconsueto nell’attuale produzione editoriale, nella quale si situa un po’come un quadro figurativo di ottima scuola fine ottocento in una mostra di astrattisti, materici e transavanguardisti.

Il mio pensiero è, ovviamente che, senza nulla togliere all’"astrattismo" neurorecettoriale e neuroscientifico, al "materico" sociopsichiatrico e al "surrealismo" psicodinamico, l’arte del disegno e della raffigurazione naturalistica e/o impressionistica costituisca sempre il bagaglio fondamentale che ogni psichiatra, soprattutto se in formazione, deve coltivare. Questo fa delle opere di Ballerini fondamentalmente dei classici didattici senza tempo.

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