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Il manicomio centrale femminile di San Clemente, Memorie del “Regio Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti”

5 Apr 13

Di Mario Galzigna

[All’interno della rubrica "Libri", la serie "Letture", che affianca le schede e le recensioni, si propone di offrire ai lettori resoconti relativi a testi ottocenteschi e novecenteschi non recenti, inediti, rari o difficilmente accessibili. La nostra brevissima rivisitazione della "memoria" dell’alienista Cesare Vigna compare anche — con irrilevanti modifiche e con il titolo Cartelle cliniche, ovvero: la confisca della follia. Digressione — nel mio blog ("heteronymos": http://www.emmegi.splinder.com/), affiancata dalla foto di una cartella clinica del Manicomio veneziano di San Clemente, consultabile nell’Archivio della Fondazione San Servolo di Venezia ( http://www.provincia.venezia.it/servilio/servilio.htm ), che nel nel corso del 2006 verrà aperto agli studiosi (M.G.)]

 

Nel 1888 viene pubblicata a Venezia, per i tipi del "Regio Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti", una "memoria" del dottor Cesare Vigna (1819 — 1892): noto alienista, musicologo, amico di Giuseppe Verdi e direttore del manicomio provinciale veneziano di San Clemente a partire dal 1873, cioè dall’anno della sua fondazione.

Nel suo scritto — Il manicomio centrale femminile di San Clemente — ritroviamo contraddizioni significative, molto comuni all’alienistica europea del XIX secolo ed anche a molta psichiatria del secolo successivo: se da un lato Vigna difende i benefici della cosiddetta "cura morale", caldeggiando, ad esempio, l’uso della musica per la cura delle malattie mentali, dall’altro lato, pur riallacciandosi al no restreint dell’alienista inglese Conolly, egli afferma: "Il vero progresso non consiste già nell’abolire i mezzi repressivi che occorrono, ma bensì nel rendere più raro il bisogno della loro applicazione".

Cesare Vigna si batte per la "necessità di un regime dolce e umano". Sottolinea l’esistenza di "mirabili guarigioni d’antiche psicopatie ottenute col mezzo della musica", poiché "il nostro corpo diviene tutto un fonografo, in cui la musica scrive le sue delizie".

Ma Cesare Vigna è anche colui che in questa stessa "memoria" del 1888 afferma con grande chiarezza: il no restreint è solo un "ideale", un’ "ultima meta cui può toccare il progresso"; un ideale regolativo, verrebbe da dire, che non contraddice affatto la necessità, entro la pratica clinica quotidiana, di "un uso moderato" della repressione e degli strumenti di contenzione, tra cui la ben nota camicia di forza (o "camiciuola", come la chiama l’autore).

Un’ultima citazione, per mettere meglio a fuoco il tenore di questa argomentazione: "La questione essenziale, che su tale argomento sembra tuttora sussistere, consiste piuttosto nel determinare se all’atto pratico sia preferibile l’applicazione di qualche strumento repressivo, oppure l’azione manuale dei custodi".

Vigna opta per la prima possibilità, essendo "la mano degli infermieri, d’ordinario violenta, spesso brutale, e sempre feconda di guai, e di reciproche lesioni".

La violenza, se proprio è necessaria, non deve essere diretta. Non deve essere prodotta da una specifica azione corporea di tipo punitivo e repressivo. Deve essere invece affidata a mezzi indiretti: ieri gli strumenti di contenzione, oggi il farmaco, usato non come strumento ausiliario di una psicoterapia radicale ed efficace, ma come nuova camicia di forza chimica. Come "assolutore simbolico della relazione", per dirla con Fausto Petrella.

Il "regime dolce e umano" — capacità di ascolto e di dialogo, "cura morale", presa in carico fondata su comprensione ed empatia — convivono dunque con la repressione, con la contenzione, con le tecnologie del dominio (come le chiamerebbe Foucault) e della manipolazione.

Bisognerà, io credo, riflettere nuovamente, in termini storico-critici, su quel singolare e paradossale ossimoro che è stato il manicomio a partire dal secolo XIX.

Un ossimoro che mette assieme libertà e coercizione, prossimità e distanza, "cura" dell’altro e repressione dei suoi spazi di libertà.

Un ossimoro che scandisce non soltanto il profilo dell’istituzione psichiatrica (e, più in generale, dell’istituzione terapeutica), ma anche, a volte, la fisionomia contraddittoria, talora inquietante, di molte pratiche e situazioni "ordinarie" che ci riguardano personalmente: la relazione pedagogica, la relazione amorosa, i rapporti familiari, eccetera…

Anche la cartella clinica manicomiale — con le sue etichette nosografiche (mania, malinconia, demenza, psicosi, isteria, schizofrenia, eccetera) — è ricca di insegnamenti che coinvolgono la sfera della nostra quotidianità.

Quante volte, nel definire l’altro, nel rapportarsi all’altro, si utilizzano apriori, categorie già predisposte, arsenali concettuali ereditati dalla tradizione, ma anche paralizzanti pregiudizi e banali stereotipi che ci impediscono realmente di ascoltare, di vedere e di capire chi abbiamo di fronte? Il clinico — il medico, lo psichiatra, lo psicoanalista — utilizza spesso i quadri nosologici e le categorie nosografiche come veri e propri apriori: occhiali già predisposti, che rendono difficile e problematica un’autentica percezione dell’altro, del paziente…

Fortunatamente, tuttavia, le nosografie cambiano, si rinnovano, hanno una storia. L’esperienza diretta dell’altro bussa alle porte del sapere. Irrompe nello scenario concettuale, riuscendo spesso a ribaltarlo, a metterlo in crisi, a mostrarne le insufficienze e le crepe…

Il terapeuta critico e intelligente accetta e conosce questi sommovimenti, queste autentiche sfide. Si mette in gioco, Si mette in discussione. Se non lo fa il risultato è semplice. Sotto gli occhi di tutti noi: il suo sapere si irrigidisce, si atrofizza. Diventa inevitabilmente pratica di potere. Esercizio di dispotismo, mascherato da finalità terapeutiche ed umanitarie.

De nobis fabula narratur, mi viene da dire.

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