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Psicopatologia fenomenologica della psicosi. Sul senso dell’incontro con l’esperienza psicotica

8 Apr 13

Di Mario Galzigna

[Propongo all’attenzione dei lettori di POL.it alcune riflessioni da me sviluppate in occasione della pubblicazione di questo libro: uscito nel 1999, adottato in molti corsi universitari e utilizzato da non pochi operatori della salute mentale. Il libro è attualmente in via di esaurimento. Ci auguriamo che l’Editore ne comprenda l’importanza e decida di stampare una seconda edizione]

 Il Leib — cioè il corpo proprio, il corpo vissuto — è il punto di incontro, il punto di trasformazione e di reciproco inserimento tra l’interno e l’esterno. Husserl lo definisce Umschlagspunkt: e Umschlag significa letteralmente, in tedesco, involucro, cioè qualcosa che contiene, che avvolge, che include.

Nell’ambito della compresenza, cioè della comunicazione empatica con gli altri (Einfühlung), il Leib si rivela a se stesso come anima, come Seele, e scopre negli altri la stessa unità tra Leib e Seele, che sta a fondamento della comunicazione interpersonale, dell’intersoggettività, e, conseguentemente, dell’appartenenza ad una determinata comunità sociale, ad una determinata cultura. La persona, entro questa prospettiva, la persona intesa come unità di Leib e di Seele, si rivela come membro del mondo sociale, della comunità: Mitglied der sozialen Welt (Husserl, Idee, II).

L’esterno è dunque modalità dell’interno. Le più recenti elaborazioni teoriche delle neuroscienze — da Edelman a Robertson, fino a Damasio – mettono in evidenza l’importanza di questo punto di vista, già sviluppato da Husserl e presente — in maniera più o meno esplicita – in alcune qualificate riformulazioni della psicopatologia ad orientamento fenomenologico, come quelle esposte in questo importante libro di Gozzetti, Cappellari e Ballerini.

L’interazione con il mondo, con la storia, con l’esperienza, "scolpisce", per dirla con Ian Robertson, la matter of the mind, la materia della mente. Il concetto di coscienza-mondo (al quale sto lavorando, da qualche tempo, e che ritrovo anche in questo libro) — un concetto che rimette in discussione l’antico dualismo cartesiano di res cogitans e di res extensa — ripete la sua apparizione, dopo Leibniz e Spinoza — per non citare che loro – in Husserl, nelle ricerche della psicopatologia, nelle più recenti acquisizioni teoriche delle neuroscienze.

C’è dunque in noi la totalità del mondo, la Weltall, di cui parlava Husserl, soprattutto l’ultimo Husserl.

Il soggetto, nella fenomenologia husserliana — da noi riletta in chiave antiidealistica – è sempre soggetto concreto, soggetto pieno di mondo: radicato nel mondo, nella storia, nella materia.

Incontrare il soggetto, comprenderlo, significa anche spiegarlo, svelando la sua Umwelt, il mondo di cui egli è portatore, l’esterno che egli racchiude. In questo senso, come afferma Gozzetti, "la coppia comprendere/spiegare — Verstehen ed Erklären, in Jaspers — non costituisce più, per molti autori, una netta dicotomia". In questa direzione, l’incontro con il paziente, anche nella prospettiva della psichiatria fenomenologica, non è più suffuciente, da solo, a portare a compimento il disvelamento del mondo di cui il paziente stesso è portatore: quello stesso mondo in cui risiedono — in maniera spesso evidente e devastante — le stesse patologie che una psicologia teoricamente povera assegna esclusivamente all’interiorità dei soggetti.

Malattia del sé e malattia del mondo — psicopatologia del sé e psicopatologia del mondo, per dirla con James Hillman — sono strettamente collegate. E’ impossibile, in altri termini, situare nevrosi e psicosi esclusivamente in una realtà personale, intrasoggettiva (psicodinamiche interne all’io) o intersoggettiva (psicodinamiche interpersonali, relative al rapporto tra il paziente, i suoi partner, la sua famiglia, il suo ambiente ristretto). In entrambe i livelli (intrasoggettivo ed intersoggettivo), il mondo rimane esterno; rimane materiale morto, inerte: un mero fondale nel quale e attorno al quale la soggettività — con le sue caratteristiche e i suoi disagi — ha fatto la sua comparsa.

Potremmo dire, rovesciando la prospettiva, che le patologie, oltre che nei soggetti, le incontriamo oggi nella cultura che è la nostra: le incontriamo nelle strutture (Hillman direbbe nella psiche) della politica, della medicina, delle istituzioni, eccetera. L’occhio del patologo non può esimersi da uno sforzo di storicizzazione della malattia; non può esimersi dall’esame della cultura, vista nei suoi aspetti malati, e perciò forieri di malattia. Sentiamo cosa dice Freud, in chiusura del suo famoso saggio sul Disagio della civiltà, del 1929:

C’è una domanda che mi è difficile scartare. Se l’evoluzione della civiltà è tanto simile a quella dell’individuo (…) non è forse lecita la diagnosi che alcune civiltà — e forse l’intero genere umano — sono diventati nevrotici? Alla dissezione analitica di queste nevrosi potrebbero far seguito suggerimenti terapeutici di grande interesse pratico.

Scriveva nel 1992 Ferdinando Barison, indimenticabile maestro della psicopatologia italiana e veneta, a cui è dedicato questo libro:

Il circolo ermeneutico è proprio questo: un continuo divenire consistente nell’interazione del tutto sulle parti e della parti sul tutto; l’ermeneutica è quindi storicizzazione.

Comprendere e spiegare, dunque: l’incontro con il paziente viene reso possibile, produttivo, curativo, proprio nella misura in cui queste due dimensioni si integrano tra di loro. La psicopatologia, come afferma Gozzetti nell’introduzione, "non è una semeiotica rivolta esclusivamente ad individuare il sintomo; piuttosto, è una semiologia attenta al significato". Non è dunque un mèro ordinatore nosografico, ma si sviluppa attraverso la sua capacità di rappresentare un ordinatore di senso.

Il privilegio (certamente non esclusivo) accordato ai significati, rappresenta una controtendenza rispetto alla dominanza assoluta, e spesso esclusiva, del "furore" tassonomico e farmacologico presente in molte pubblicazioni psichiatriche, soprattutto nordamericane. In questo senso, come ho già avuto modo di dire nel dibattito organizzato dallo psichiatra e psicoanalista Totò Russo all’ospedale di San Donà, in provincia di Venezia, questo libro – questa frontiera del lavoro psicopatologico esplorata dai nostri tre autori — rappresenta un coraggioso momento di battaglia culturale, a favore del paziente, della sua sofferenza, della sua domanda di cura, contro ogni scorciatoia riduzionistica, contro ogni compromesso verso quelle che considero le Scilla e le Cariddi della terapia psichiatrica: le pressioni dell’industria farmacologica, da un lato; dall’altro lato le istanze aziendalistiche, massicciamente presenti, oggi più che mai, nell’Amministrazione sanitaria.

Attenzione ai significati, dunque. Questa inflessione teorica, se verrà approfondita, nel prossimo futuro, dalla ricerca e dalla pratica clinica, renderà possibile una fertile e necessaria integrazione con i metodi e le tecniche terapeutiche (di tipo gruppale) che caratterizzano, oggi, anche in Italia, quella che viene chiamata, in letteratura, psichiatria transculturale, o etnopsichiatria.

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