ma non lasciatevi ingannare-
Mladen Dolar non è un idiota»
Slavoj Žižek
Mladen Dolar, con Alenka Zupančič, è il fondatore della Scuola Psicoanalitica di Ljubljana, giunta alla ribalta internazionale sulla scorta dei successi editoriali di un altro suo membro: Slavoj Žižek. Proprio quest’ultimo, in diversi contesti, ha fatto frequenti riferimenti al suo «amico marxista Mladen Dolar» tessendone le lodi per le capacità analitiche e teoretiche dimostrate. Abilità che vengono alla luce nel volume «La voce del padrone, una teoria della voce tra arte, politica e psicoanalisi», pubblicato per le edizioni Orthotes e magistralmente curato da Luigi Francesco Clemente. Il testo, originariamente pubblicato da MIT Press nella collana diretta proprio da Žižek, «Short Circuits», focalizza un aspetto dell’esperienza umana su cui poco si è spesa la filosofia: la voce. Ad eccezioni delle brillanti analisi di Derrida, sviluppate in particolare in «La voce e il fenomeno», l’argomento ha avuto un posto marginale nell’agone filosofico che perlopiù ne ha valutato il ruolo strumentale e subordinato in ordine alla produzione delle idee. In ciò ha ovviamente pesato una metafisica della presenza che storicamente ha fatto della voce il canale di trasmissione privilegiato della ratio, all’interno di un sistema di pensiero che si è identificato principalmente con il Logos. In tale ottica Derrida ha criticato proprio il presunto carattere metafisico della voce, strumento privilegiato per l’affermazione dell’irriflesso principio della presenza secondo il quale l’Essere è ridotto ad un ente pronto e disponibile per le esigenze logocentriche del soggetto.
Dolar contesta questa lettura e facendo sue alcune intuizioni di Lacan, sviluppate in particolare nel Seminario XI, mostra come la voce sia stata di fatto sminuita dalle diverse analitiche filosofiche. Per tale ragione, afferma, si sente l’urgenza di un percorso teoretico in grado di sviscerare il carattere eccedente, problematico, sovversivo e ben poco logocentrico della voce. Se quest’ultima è stata considerata solo in relazione alla produzione di significati è perché ci si è limitati a valutarne l’aspetto più ovvio, quello strumentale, paradossalmente proprio quello che Derrida vorrebbe decostruire. Dolar sostiene che «la voce è qualcosa che mira al significato, è come se in essa ci fosse una freccia che mira all’attesa del significato» (p.24), una tensione verso la verità della Cosa che non può essere esaurita secondo la ben nota tesi di Lacan su la verità-non-tutta. Questo carattere di resistenza al senso (Sense) contraddistingue la voce come ciò che non è mai presente a se stessa e che, pur tendendo verso la significazione, non si riduce ad essa per il suo essere non soltanto il veicolo, ma anche l’ostacolo, il supporto materiale, l’istanza corporea. Il carattere di estraneità della voce è particolarmente centrale nel setting durante il quale più che il detto interessa il dire, i suoi riflessi, le sue risonanze, le sue variazioni, le declinazioni corporee che precedono l’intenzione significativa. La voce -il suo tono- non può essere padroneggiata, come intuibile dal rimando alla dimensione pre-simbolica «della lallazione [babbling] del lattante [infant]» (p.38), in cui si mostra senza filtri il «cortocircuito tra natura e cultura, tra fisiologia e struttura» (p.37). Questo groviglio inestricabile di istanze significanti e di risonanze corporee rappresentano il materiale privilegiato di ogni analisi, il riflesso scoperto della soggettività, ciò che non può essere celato dietro il flusso discorsivo condizionato dalle resistenze. In questa prospettiva la voce smette di essere il luogo privilegiato dell’autoaffezione soggettiva, «dell’identità e della (auto) presenza» (p.7). Come ben illustrato nella presentazione del curatore, Luigi Francesco Clemente, si tratta di superare «il pregiudizio che vuole la voce come spazio di un accesso immediato alla pura presenza e al senso» (p.7) per focalizzare l’attenzione sulle diverse possibili declinazioni della voce.
L’analitica di Dolar, riallacciandosi alle riflessioni di Lacan, punta l’attenzione sulle dimensioni divergenti della voce: quella che tende alla significazione e quella che «resiste al significato e […] che non può essere detto» (pagg. 25-26). L’istanza in-significante in grado di produrre significati come scarto del suo scorrere lungo la catena discorsiva è il desiderio che Lacan pone come il motore e il movente dello psichico. Affermato ciò, Dolar ritiene necessaria una differenziazione che mette radicalmente in discussione le tesi derridiane sul fonocentrismo, quella tra la voce e il significante: «il significante possiede una logica, può essere analizzato, può essere identificato e fissato» (p.27) in virtù della sua iterabilità, del suo generare significati come effetto differenziale tra più tratti. Il significante funziona solo in virtù del suo essere differente da altri significanti. Per Lacan, il significante ha un supporto materiale, la lettera, che lo incarna lungo la catena, facendo di quest’ultima lo spazio paradossale dell’incontro tra le tensioni che tendono verso la significazione e l’elemento corporeo soggetto al principio di piacere. Anche nella voce, «al di là dei suoni del linguaggio […] sta un’entità completamente diversa […]: il fonema» (p.28). «Suono silente e voce senza suono», così Dolar descrive questa entità che si smarca dalle logiche della presenza e dell’assenza e che prende parola attraverso l’intonazione caratterizzata dalla sua «particolare melodia e modulazione» (p.32), cadenza e inflessione, elementi tutti in grado di produrre il senso [sense] che viene dopo il significato [meaning] e che può essere espresso discorsivamente attraverso la denotazione. Proprio la differenza tra senso e significato è uno degli argomenti intorno a cui Dolar costruisce la sua narrazione mostrandone la differenza tra i concetti che rimanda alle duplici declinazioni della voce come istanza significante e come tensione corporea legata al godimento (jouissance).
Particolarmente apprezzabile è risultata la scelta del curatore di indicare tra parentesi i termini originariamente utilizzati da Dolar per esprimere la dicotomia sense/meaning, senso/significato, garantendo al lettore una più aderente comprensione del testo e delle argomentazioni espresse. Ciò risulta particolarmente utile per focalizzare i due pregiudizi che interessano la voce e che Dolar vuole mettere in discussione: quello della significazione e quello del senso ulteriore. Sul primo aspetto abbiamo già detto qualcosa: la voce è ordinariamente intesa come lo strumento privilegiato del senso, ciò che permette la denotazione di un oggetto, fatto o parola. Dolar precisa però che senso e significato non sono sinonimi (p.170) e mentre il secondo ambito [Meaning] può essere espresso discorsivamente attraverso la locuzione, il primo, cui si collega la dimensione dell’ascoltare [listening], indica una realtà ulteriore rispetto a quella della significazione: «l’ascoltare implica un’apertura verso il senso indecidibile, precario, elusivo, aderente alla voce»(p.170). Lo spazio del senso è sempre eccedente rispetto alla voce e non coincide mai con essa, tanto dovrebbe bastare per mettere in crisi la posizione fonocentrica e il suo portato metafisico. Le risonanze, il tono, le variazioni fonetiche contribuiscono retrospettivamente alla produzione del senso come dimensione che emerge dal non-sense.
Un altro ambito che secondo Dolar risulta necessario indagare per decostruire la visione metafisica della voce è quello dell’valorizzazione estetica riscontrabile, in particolare, in tutte quelle dimensioni che fanno della voce il canale principale di trasmissione di un presunto senso ordinariamente sottratto alle esperienze di vita comune. Il canto, la recitazione, l’arte oratoria sono tutti spazi d’eccezione in cui la voce sembra annunciare la verità in quanto tale, la verità-tutta che secondo Lacan non può essere detta. In questo caso lo strumento d’inganno è il fascino estetico che la voce sollecita negli ascoltatori rapiti. Dolar afferma che per cogliere il carattere in-significante della voce bisogna evitare il coinvolgimento estetico e i suoi riflessi teologici chiaramente percepibili nei comandi e nelle comunicazioni impartiti dal Dio di Abramo ai fedeli delle tre principali religioni monoteiste. Il carattere in-significante è quello più interessante per la psicoanalisi perché rimanda all’istanza pulsionale che abita alle spalle l’emissione fonica determinandone i toni, le variazioni, i rimandi, il tono, gli accenti: tutti elementi che nel setting hanno più valore del contenuto espresso intenzionalmente dall’analizzante. La voce, in quanto articolazione pulsionale, rimanda all’oggetto causa del desiderio, l’oggetto a intorno a cui bordeggia per tutta l’esistenza l’universo affettivo del soggetto. Dolar sostiene che la vera posta in gioco di un’analitica della voce deve riguardare proprio al commistione tra desiderio e articolazione fonica, tra pulsione e voce, perché in questi legami inestricabili si gioca l’esistenza del soggetto, la sua particolare esperienza del mondo come surrogato della Cosa. La questione è politica se consideriamo che il registro simbolico, articolato discorsivamente ed espresso attraverso la voce, è una piega di quest’istanza significante che precede la voce e ne determina le variazioni. Indagare quest’aspetto, solitamente obliato, significa entrare nello spazio inconscio in cui si scrive e si ri-scrive la soggettività e il suo stare al mondo sostanza che gode attraverso il senso (joui-sense). «L’inconscio è strutturato come una lalangue» (p.167) -dice Dolar- e il soggetto, parlando, gode. Provare a pensare lalangue, il suo carattere straniante, la dimensione performativa e al contempo elusiva è il compito di una teoria della voce adeguata che vuole eludere i rischi della doxa. La sfida che si delinea è quella di sviluppare un’etica all’altezza della situazione. Questo libro, nei suoi sette capitoli, sembra essere un buon punto di partenza per abbandonare vecchie credenze irriflesse e predisporre l’attrezzatura concettuale necessaria alla riflessione critica.
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