Con questo suo ultimo libro titolato Le persone e le cose, Roberto Esposito aggiunge un altro capitolo importante alla sua ricerca filosofica intorno alle origini della nostra Civiltà e alle ragioni che rendono possibile (o impossibile) il dono-dovere della Comunità, il nostro vivere insieme. La sua chirurgica e meticolosa genealogia si configura come uno dei cammini filosofici più originali e innovativi degli ultimi vent’anni. Si tratta di un lavoro sulle parole fondative dell’Occidente (basta anche solo scorrere velocemente i temi e i titoli dei suoi lavori: politica, democrazia, potere, vita, comunità, immunità, pensiero) capace di estrarre dalla torsione teoretica di una di queste parole qualcosa di impensato e, insieme, di spaesante. Questo modo di lavorare ha pochi altri luminosi esempi nella filosofia contemporanea con i quali Esposito, non a caso, intrattiene da anni un colloquio serrato e fecondissimo: sicuramente quelli di Hiedegger e Derrida, ma anche quelli, forse a lui personalmente più vicini, di Michel Foucualt e Jean-Luc Nancy.
In questo suo ultimo libro sotto al suo sguardo cadono le “persone” e le “cose”. In queste due parole si manifesta secondo Esposito una divisione ontologica che è stata la matrice di processi ben più ampi che hanno pesantemente coinvolto le fondamenta stesse della nostra vita collettiva. Questo binomio è infatti un “binomio escludente”. E’ una prima tesi del libro: l’operazione che fonda la persona come soggetto autorale, integralmente “decorporeizzato”, reso titolare di diritti e di patrimoni, è tutt’uno con quello che lo elegge a padrone delle cose. In questa doppia fondazione (la persona come concetto e la persona come padrone delle cose) si produce una esclusione di tutto ciò che contrasta con questa biforcazione metafisica. In primis l’esclusione del corpo: “Non rientrando compiutamente né nella categoria di persona né in quella di cosa, il corpo dell’uomo è stato cancellato come oggetto di diritto”. Il corpo non è infatti né cosa né persona, ma il loro punto scabroso di ibridazione che confonde le acque anziché separarle irreversibilmente. Esposito mostra bene come la genealogia del concetto di “persona” sia il risultato di una astrazione progressiva che finisce per disgiungerla nettamente dal corpo. Quello che infatti definisce le cose secondo l’ordinamento “rigorosamente patrimonialistico” del Diritto romano “è la loro appartenenza a uno o a più proprietari”. Allo stesso modo, secondo una reversibilità speculare, anche le cose sono state private del loro corpo. Accade originariamente con la metafisica greca, ma ancora più chiaramente con l’affermazione della tecnica che da quella tradizione scaturisce già secondo l’insegnamento di Marx, prima ancora di quello di Heidegger: le cose non sono lasciate essere per quello che sono, ma sono ridotte a “risorsa” (Bestand) e sottoposte ad uno sfruttamento illimitato. Le cose, che non sono fatte per essere possedute, diventano terra di conquista. Esiste allora un filo rosso che unisce la subordinazione platonica delle cose all’Idea alla riduzione del mondo a “risorsa” di cui appropriarsi: “il ruolo delle cose è sempre quello di servire, o comunque, di appartenere alle persone”. La spinta all’appropriazione appare così come una sorta di nucleo pulsionale originario che regola in Occidente il rapporto tra l’uomo e le cose. Questo comporta lo schiacciamento di altri esseri umani allo statuto inerte degli oggetti inanimati, delle cose anziché delle persone. Il corpo stesso viene colonizzato: il soggetto si divide in una parte animale e sensibile e in un’altra razionale e spirituale che deve esercitare il suo dominio su di essa.
Questo esito nichilistico troverebbe un suo antagonista irriducibile, anche se minoritario, in una tradizione di pensiero che Esposito fa risalire a Spinoza e che, passando da Vico, giunge sino a Nietzsche e alla fenomenologia francese (Sartre, Meleau-Ponty). Questa tradizione contesta radicalmente il taglio che disgiunge irreversibilmente l’anima dal corpo e la persona dalle cose e che ha fondato, a partire dal gesto inaugurale di Cartesio che distingue la res cogitans dalla res extensa, l’attuale primato narcisistico dell’Io come governatore del proprio corpo e del mondo delle cose. Siamo alla pars costruens del libro: il corpo può essere la pietra di scarto destinata a divenire la pietra angolare di un altro modo di pensare la vita. Una constatazione preliminare si impone: sebbene escluso, o proprio perché escluso, il corpo vivente torna incessantemente al centro della scena della politica e dei suoi conflitti. Come già Foucault aveva indicato ne La Volontà di sapere: “la vita, molto più del Diritto, è diventata la posta in gioco delle lotte politiche”. “La vita umana – prosegue Esposito – da cornice dell’agire politico, ne diviene il centro – si fa affare di governo, così come la politica diventa governo della vita”. Questo significa che l’esclusione del corpo dal regime della persona genera uno spazio vuoto dove domande sempre più pressanti restano senza risposta: “da quando e sino a quando il corpo può essere considerati persona anziché cosa? Il trafugamento di un cadavere, oppure di embrioni, va considerato alla stregua di un rapimento come se si trattasse di una persona o di un furto come fosse una cosa?”. Ecco apparire la dimensione più chiaramente politica della riflessione di Esposito: come poter individuare i modi del ritorno di ciò che è stato rimosso, bandito, esiliato? Non si deve dimenticare che questa parte esclusa non s’incarna solo nelle istanze del corpo individuale vivente, ma anche in quelle collettive di un popolo – di una moltitudine – che è stata tenuta fuori dalla rappresentanza e che oggi spinge non tanto per averne una, ma per denunciare il limite costitutivo di quella stessa idea di rappresentanza (fondata arbitrariamente su di una esclusione). E’ l’aut-aut etico che il libro ci consegna: prevarrà la passione immunitaria che esalta il proprio sul comune, l’interesse individuale su quello collettivo, l’Io sull’Altro o la passione per la comunità e l’economia del dono insieme al rischio di smarrimento e di perdita di identità che l’esposizione all’Altro sempre comporta?
In questo suo ultimo libro sotto al suo sguardo cadono le “persone” e le “cose”. In queste due parole si manifesta secondo Esposito una divisione ontologica che è stata la matrice di processi ben più ampi che hanno pesantemente coinvolto le fondamenta stesse della nostra vita collettiva. Questo binomio è infatti un “binomio escludente”. E’ una prima tesi del libro: l’operazione che fonda la persona come soggetto autorale, integralmente “decorporeizzato”, reso titolare di diritti e di patrimoni, è tutt’uno con quello che lo elegge a padrone delle cose. In questa doppia fondazione (la persona come concetto e la persona come padrone delle cose) si produce una esclusione di tutto ciò che contrasta con questa biforcazione metafisica. In primis l’esclusione del corpo: “Non rientrando compiutamente né nella categoria di persona né in quella di cosa, il corpo dell’uomo è stato cancellato come oggetto di diritto”. Il corpo non è infatti né cosa né persona, ma il loro punto scabroso di ibridazione che confonde le acque anziché separarle irreversibilmente. Esposito mostra bene come la genealogia del concetto di “persona” sia il risultato di una astrazione progressiva che finisce per disgiungerla nettamente dal corpo. Quello che infatti definisce le cose secondo l’ordinamento “rigorosamente patrimonialistico” del Diritto romano “è la loro appartenenza a uno o a più proprietari”. Allo stesso modo, secondo una reversibilità speculare, anche le cose sono state private del loro corpo. Accade originariamente con la metafisica greca, ma ancora più chiaramente con l’affermazione della tecnica che da quella tradizione scaturisce già secondo l’insegnamento di Marx, prima ancora di quello di Heidegger: le cose non sono lasciate essere per quello che sono, ma sono ridotte a “risorsa” (Bestand) e sottoposte ad uno sfruttamento illimitato. Le cose, che non sono fatte per essere possedute, diventano terra di conquista. Esiste allora un filo rosso che unisce la subordinazione platonica delle cose all’Idea alla riduzione del mondo a “risorsa” di cui appropriarsi: “il ruolo delle cose è sempre quello di servire, o comunque, di appartenere alle persone”. La spinta all’appropriazione appare così come una sorta di nucleo pulsionale originario che regola in Occidente il rapporto tra l’uomo e le cose. Questo comporta lo schiacciamento di altri esseri umani allo statuto inerte degli oggetti inanimati, delle cose anziché delle persone. Il corpo stesso viene colonizzato: il soggetto si divide in una parte animale e sensibile e in un’altra razionale e spirituale che deve esercitare il suo dominio su di essa.
Questo esito nichilistico troverebbe un suo antagonista irriducibile, anche se minoritario, in una tradizione di pensiero che Esposito fa risalire a Spinoza e che, passando da Vico, giunge sino a Nietzsche e alla fenomenologia francese (Sartre, Meleau-Ponty). Questa tradizione contesta radicalmente il taglio che disgiunge irreversibilmente l’anima dal corpo e la persona dalle cose e che ha fondato, a partire dal gesto inaugurale di Cartesio che distingue la res cogitans dalla res extensa, l’attuale primato narcisistico dell’Io come governatore del proprio corpo e del mondo delle cose. Siamo alla pars costruens del libro: il corpo può essere la pietra di scarto destinata a divenire la pietra angolare di un altro modo di pensare la vita. Una constatazione preliminare si impone: sebbene escluso, o proprio perché escluso, il corpo vivente torna incessantemente al centro della scena della politica e dei suoi conflitti. Come già Foucault aveva indicato ne La Volontà di sapere: “la vita, molto più del Diritto, è diventata la posta in gioco delle lotte politiche”. “La vita umana – prosegue Esposito – da cornice dell’agire politico, ne diviene il centro – si fa affare di governo, così come la politica diventa governo della vita”. Questo significa che l’esclusione del corpo dal regime della persona genera uno spazio vuoto dove domande sempre più pressanti restano senza risposta: “da quando e sino a quando il corpo può essere considerati persona anziché cosa? Il trafugamento di un cadavere, oppure di embrioni, va considerato alla stregua di un rapimento come se si trattasse di una persona o di un furto come fosse una cosa?”. Ecco apparire la dimensione più chiaramente politica della riflessione di Esposito: come poter individuare i modi del ritorno di ciò che è stato rimosso, bandito, esiliato? Non si deve dimenticare che questa parte esclusa non s’incarna solo nelle istanze del corpo individuale vivente, ma anche in quelle collettive di un popolo – di una moltitudine – che è stata tenuta fuori dalla rappresentanza e che oggi spinge non tanto per averne una, ma per denunciare il limite costitutivo di quella stessa idea di rappresentanza (fondata arbitrariamente su di una esclusione). E’ l’aut-aut etico che il libro ci consegna: prevarrà la passione immunitaria che esalta il proprio sul comune, l’interesse individuale su quello collettivo, l’Io sull’Altro o la passione per la comunità e l’economia del dono insieme al rischio di smarrimento e di perdita di identità che l’esposizione all’Altro sempre comporta?
e se in luogo dell’aut-aut
e se in luogo dell’aut-aut cercassimo la dimensione mediata dell’Et-Et..? Coniugare una adeguata passione immunitaria con una equilibrata passione per la comunità.?