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Presentazione saggio “L’Altro, diversità contemporanee – Cinema e Psicoanalisi nel territorio dell’alterità di Rossella Valdrè

1 Mar 15

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Pubblichiamo la premessa al saggio a firma dell'autrice Rossella Valdrè

              "Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell'avere nuovi occhi"
 
                                                                                                                             (M. Proust)

 

Questo libro rappresenta il seguito ideale del precedente, pubblicato nel 2013, La lingua sognata della realtà. Cinema e psicoanalisi nell’esplorazione della contemporaneità[1]. Non mi dilungo e non ritorno sulle ragioni che motivarono quel libro, indicate a suo tempo nel testo, ma ne voglio riprendere una soltanto: sono stati i lettori a chiederlo. Le ‘recensioni’ (termine che mi pare sempre più improprio ma che per comodità e per mancanza d’altro continuiamo a usare) sono state pubblicate finora soltanto on line, nella sezione ‘cinema’ del sito della Società Psicoanalitica Italiana (www.spiweb.it) e benché risulti molto piacevole leggerle ‘a caldo’ subito dopo l’uscita del film, nasce sempre più l’esigenza, da parte mia e da parte loro, i lettori, di ritrovarle nel tempo sulla carta stampata, ormai sottratte all’urgenza della visione del film, articolate dentro il discorso, o i discorsi, che io suggerisco. Così, come generosamente avevano sostenuto l’acerba (e incerta!) uscita del primo libro, visto il buon esito, si sono ritrovati d’accordo con me nel chiedersi: perché non un secondo? Come diceva Winnicott, bisogna essere sempre grati ai pazienti – ed io aggiungo: ai lettori, talvolta anche pazienti – per quanto non smettono di insegnarci, per quanti errori ci perdonano.
Ecco quindi L’Altro, questo breve e composito viaggio nell’alterità contemporanea attraverso le nostre due lenti privilegiate: il cinema e la psicoanalisi. Come nel precedente, le recensioni sono suddivise in quattro capitoli – il Male, Infanzia e Adolescenza, l’Altrove finanziario e il Virtuale – in modo che può forse apparire talvolta un pò arbitrario, ma tutte accomunate da un fil rouge, da un discorso di fondo: l’alterità. Come si declina nella sensibilità contemporanea, come si articola con l’identità, sua polarità opposta e dialettica e, soprattutto, come possiamo esplorarla attraverso il cinema, aiutati dalla psicoanalisi e concedendoci qualche incursione nella letteratura, nella filosofia, in tutto lo spettro del sapere umano? Psicoanalisi e cinema ne restano, in ogni caso, i cardini, ne costituiscono l’ossatura fondante di lettura, i vertici.
Pur mantenendo quindi lo stesso stile ad ampio spettro nell’intento di raggiungere anche lettori non solo dell’area ‘psi’, e con la stessa architettura di base, quest’attuale libro vuole esprimere anche la mia personale evoluzione, il mio percorso interno come psicoanalista e cittadina inquieta e attenta di questo mondo, di cui cinema e psicoanalisi rappresentano i mappatori per eccellenza, i rappresentanti più capaci di fornire immagini, l’uno, e di dare senso, l’altro. Pur nel mantenimento dello schema, ho apportato alcune differenze: le recensioni sono in numero minore, dodici e non trenta, a favore di un maggiore approfondimento teorico e tematico, soprattutto sul cinema, le sue teorie e i suoi protagonisti, essendo il bagaglio psicoanalitico a noi tutti più noto e familiare. La contemporaneità resta l’angolatura privilegiata da cui m’interessa esplorare il soggetto umano e le sue peripezie in questo mondo sempre in evoluzione, ma il focus si raccoglie su un aspetto vasto, sì, ma ben definito. L’alterità, appunto. Alcune recensioni, inoltre, derivano dai report fatti per spiweb ad alcuni Festival del Cinema, come il Tribeca Film Festival di New York e la Mostra di Venezia, e può trattarsi dunque di film o non arrivati in Italia, o che hanno avuto una distribuzione molto limitata. Mi dispiace molto di questo, che resta tuttavia circoscritto a due film, e non vuole rappresentare una scelta elitaria o snobistica, tutt’altro; sono film che desideravo che anche il pubblico ‘non da festival’ conoscesse per la loro bellezza e incisività, e che si prestavano particolarmente al discorso. Il periodo inizia dove terminava il precedente: dal 2011 al 2014. Allo stesso modo, le recensioni non sono state in genere modificate, ma solo in qualche caso ampliate, soprattutto quando provenienti dai report dei Festival, flash necessariamente molto brevi; assecondando le diverse suggestioni nel frattempo emerse, ma cercando nello stesso tempo – anche per coerenza stilistica col libro precedente – rispettarne la ‘freschezza’, la spontaneità dello scrivere a caldo, pur nell’imprecisione e consapevole che lo stesso materiale, troppo rimaneggiato, sarebbe diventato un’altra cosa.Migliore, forse, o forse no: ma non era questo lo scopo, non essendoci in questi scritti alcun intento valutativo in sé, ma solo riflessioni libere, che sorgono in me alla stregua di associazioni come dopo un sogno o una fantasticheria, e che seguono la visione del film. Le recensioni originariamente più brevi e ‘formattate’ secondo uno schema predefinito (ad esempio quelle dei Festival) che provenivano dalla voce ‘in sala’ del sito, sono state ampliate e unificate allo stile complessivo del recensire, per come personalmente lo intendo.[2] Finita la noiosa ma doverosa premessa di stile, veniamo al cuore del libro.
       L’alterità, la presenza dell’altro, sia esso un altro essere umano (come accade più di frequente) o sia rappresentato da una situazione, da un simbolo, da un mezzo, è una costante irriducibile della nostra vita, con la quale siamo costretti a confrontarci continuamente, coscientemente e inconsciamente, attivando vari meccanismi di difesa per accoglierla, per arginarla, per tollerarla. Dell’altro, di un altro in quanto tale possiamo forse fare a meno, ma inevitabilmente ci troviamo nostro malgrado a dover fare i conti con l’alterità del mondo in sé, con la pressione delle sue esigenze, dei suoi mutamenti. Con il cosiddetto, e a mio avviso sempre sopravvalutato, reale. Al dolore di un altro che ci sfuggirà sempre, che non sarà mai come noi lo vogliamo, come la nostra fantasia lo ha costruito, non possiamo sfuggire. Dall’altro lato, se di un altro c’è bisogno per non vagolare nel buio indefinito di un sé senza limite, anche l’identità impone le sue esigenze. La soggettività, a me pare oggi con sfumature particolari su cui tenteremo delle ipotesi, è oggi più che mai un tesoro da coltivare e proteggere, al riparo da invasioni e tentazioni conformistiche e consumistiche. Sembra una tela inestricabile, un conflitto senza soluzione: dell’Altro c’è bisogno, ma senza che vada a detrimento dell’identità, così come del baricentro in noi stessi c’è ugualmente bisogno, senza però sfociare in sterili derive narcisistiche. Un equilibrio delicatissimo, virtuosismo da veri equilibristi, mai definitivo, mai dato per scontato una volta raggiunto: è sempre un anelito, un tendere a, piuttosto che un’acquisizione. E così passiamo l’esistenza a tentare improbabili arrangiamenti, ciascuno per come può, in modi diversi nei diversi momenti della vita, saremo più sbilanciati ora verso un polo ora verso l’altro, aiutati o meno dalla psicoanalisi e dall’arte, ma pur sempre soli in questa battaglia.
     Le scelte tematiche dei quattro capitoli, sono certamente non esaustive, poiché il territorio della dialettica identità-alterità non ha confini: appena finisco io, inizia l’altro. Ma rappresentano pur sempre un tentativo di segnare una traccia, uno spunto; di circoscrivere un pensiero.  Un breve cenno, dunque, a queste tracce, su cui torneremo.
Il Male – quello universale, quello con la maiuscola – è tema di cui da sempre si dibatte. Può declinarsi in violenza o in aggressività, cioè in espressioni riconducibili a una qualche che forma di reattività e dunque umanamente più comprensibili ma, per quanto non tutti concordino e sia un assunto difficile da tollerare, esso esiste anche nella sua forma pura, irriducibile. Il Male in quanto tale, desolatamente privo di spiegazioni, di tentativi di umana comprensione: la Storia lo ha visitato nell’Olocausto, la psicoanalisi lo ritrova nel sadismo, in certe forme perverse. Con l’aiuto di alcuni film, tra i molti usciti in questi ultimi anni, tenteremo un’analisi del Male in quanto luogo che vorremmo essenzialmente dell’altro: il male è in lui, non in me. La proiezione e l’identificazione proiettiva, con tutte le loro sfumature e conseguenze, sono i meccanismi psichici profondi che la fanno da padrone: tutto ciò che in me è sgradevole, brutto, pericoloso, lo metto fuori, lo attribuisco all’altro. Il mio vicino, il mio coniuge, lo straniero, e via dicendo…troveremo sempre potenziali ‘altri’ per le nostre sgradite proiezioni.
Infanzia e Adolescenza, di cui non mi ero direttamente occupata nel libro precedente, sono state oggetto, involontariamente, di molte delle mie recensioni. Moltissimi film contemporanei hanno sviluppato, a mio avviso, una sensibilità e un acume nel trattare queste fasi della vita che erano impensabili nel cinema di qualche decade fa. Da comprimario all’adulto, spesso ridotto a uno stereotipo (se si eccettuano, ovviamente, i capolavori), il bambino e l’adolescente (confini, questi, oggi peraltro sempre più sfumati) sono entrati in scena da veri protagonisti, soggetti portatori di un’identità propria, conflitti specifici, mondi interni su cui la macchina da presa ha saputo soffermarsi qualche volta precedendo, a mio parere, la lettura sociologica o psicologica. I registi hanno saputo attingere sia dall’osservazione della realtà, sia dalla loro personale memoria, trasfigurandola. Nella sua autobiografia, Bergman racconta i toni tetri e foschi della sua infanzia in cui “l’educazione si basava per la maggior parte sui concetti di peccato, confessione, punizione, perdono e grazia” (1987, p. 13), e di come per sopravvivere dovette mettersi una maschera, fingere: il tema della maschera, come sappiamo, diventerà centrale nella sua poetica. Come scriveva Pasolini, grazie alla sua forza visiva, alla sua potenza metaforica, il cinema ci arriva prima, precede fatalmente la letteratura per le caratteristiche stesse del mezzo: la sua “prevalente artisticità, la sua violenza espressiva, la sua fisicità onirica” (1991, p.172, corsivo mio).
 
 “ Il potere del cinema passa solo attraverso il suo mito. I suoi racconti, il suo realismo o la sua dimensione immaginaria, la sua psicologia, i suoi effetti di senso – tutto ciò è secondario. Solo il mito è potente e al cuore del mito cinematografico, c’è la seduzione – quella di una grande figura seduttrice”.
                                                                                                                       (J. Baudrillard)
 
 
E’ dunque con questo assunto di base, con questa consapevolezza che il potere del cinema è nel suo sedurci (condurci-a-sé) con la sua forza mitica e non già con i suoi effetti e psicologie, che pur tuttavia siamo costretti (piacevolmente costretti) a scegliere alcuni film, alcuni fili conduttori per orientarci nel discorso. Il Mito, quello, resta comunque attivo dentro di noi, di qualunque film si parli e con qualunque angolatura lo si legga. In totale e felice analogia col sogno, come vedremo alla fine, la forza del cinema è molto legata all’uso dell’immagine: come evoca la sua radice etimologica, è dall’imitare che deriva l’immagine. Ma il cinema non si ferma lì: “non è l’immagine cinematografica, una meccanica e asettica riproduzione della realtà, ma epifania del suo senso.Essa illumina il cuore della vita, si fa ascolto interpretante delle sue più intime intermittenze, ne svela la fragilità e l’incanto irrepetibile”, nelle belle parole di Panzavolta (2012, p. 378).
La scelta è ricaduta su alcune pellicole, tra le molte, che mi è parso abbiano saputo toccare con delicatezza e profondità il turbamento contemporaneo di molti bambini e adolescenti: se c’è una fase della vita in cui si sente diversi, altri per antonomasia, è proprio questa. L’infanzia è un periodo così doloroso dal quale il sé cerca di sfuggire per tutta la vita, scrive Bollas (1999). In alcune situazioni, come quelle percorse in questi film, oltre alla diversità dell’essere bambino in sé rispetto al mondo degli adulti, l’alterità è accentuata da particolarità specifiche: avere la pelle di un colore diverso, sentirsi sessualmente non orientati come gli altri, aver ricevuto l’improbabile diagnosi di un etichettato disturbo mentale; sono solo alcune, quelle su cui ci soffermeremo, delle possibili sofferenze infantili sul sentirsi altri rispetto ai più. Infinite, dolorose situazioni di strappo, di lacerazione, in cui qualcosa fa sì che ci si senta, proprio nell’epoca in cui vorremmo conformarci più che mai, esiliati dal gruppo, respinti. Ciascuno può attingere prima di tutto alla propria memoria: chi non ricorda di aver patito di una sofferenza del genere? La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda, scrive Gabriel Marquéz. Lo sappiamo bene, la realtà psichica per noi è ugualmente importante, se non di più, di quella esterna e oggettiva: se anche qualcosa di antico non è realmente avvenuto proprio come lo ricordiamo, ma la memoria lo deforma e lo trasfigura, sarà su quel vissuto, e non sulla realtà, che il bambino porterà avanti il suo fardello. Tornando a Bollas, quando parla del ‘conosciuto non pensato’ (1989) forse allude, nella mia fantasia, a qualcosa che è valido anche nel cinema: un film appassiona quando dà vita a qualcosa che sapevamo esistere, ma al tempo stesso mai avvenuto, quando il regista riesce a evocare un mito e al tempo stesso a crearne uno nuovo, in cui possiamo ritrovarci.
Potrà sembrare curiosa la scelta del Denaro, la cosiddetta ‘bolla finanziaria’ degli ultimi dieci anni che ha investito prima gli Stati Uniti poi tutti i Paesi Occidentali, all’interno del libro. Moltissimo si è discusso, infinite le analisi da più voci, spesso autorevolissime, che dunque non ripropongo. No, il mio interesse voleva soffermarsi su un aspetto specifico, a mio avviso un pò sottovalutato all’interno delle peraltro giustificatissime critiche al ‘sistema’: la bolla finanziaria ha pur sempre rappresentato un sogno, un’illusione, tanto potente da coinvolgere non solo cinici malfattori ma milioni di persone nel mondo, che hanno semplicemente creduto in un tenore di vita migliore di quello che logicamente potevano permettersi. Sogno di cosa, dunque? Di un altrove. Ancora, di un’alterità, se si vuole, normalmente proibita: avere quello che appartiene all’altro, al ricco, al potente, o semplicemente al mio vicino che ha la casa più bella della mia. Poco importa all’inconscio se non posso permettermela con il mio reale guadagno: qualcuno mi ha fatto credere che sì, posso anche io. Lo stesso termine ‘bolla’, che tutti abbiamo imparato a usare, rimanda ad un’atmosfera non certo realistica, ma sospesa, quasi magica. Puntualmente il cinema, immancabile lingua parlata della realtà, testimone della realtà (Pasolini, 1991) ha saputo descrivere con diversi film ad alto impatto emotivo e visivo, le diverse angolature di questo straordinario fenomeno: il dramma individuale, il dramma collettivo di alcune famiglie, le diverse reazioni a seconda delle tipologie ambientali e le singole psicologie. I film qui presentati ne sono un piccolo, ma a mio avviso significativo estratto: di nuovo in anticipo sulla letteratura, prima che escano grandi romanzi, epopee sull’impatto generazionale della crisi economica del terzo millennio, il cinema ha saputo raccontare, narrare prima ancora di interpretare, vicende individuali e collettive travolte dal sogno effimero, ma fascinoso, dell’altrove. Ha raccontato le sue vittime, i suoi artefici spesso diventati vittime a loro volta, le vergogne, le miserie…
Infine, mantenendo la chiusura del libro con un unico film come ne La lingua sognata, che rappresentasse sia un bellissimo film in sé, sia un omaggio alla capacità del cinema di giocare tra realtà e fantasia, di aprire porte ancora socchiuse all’indagine psicoanalitica, la scelta del Virtuale (termine che, anch’esso, mi pare improprio e riduttivo, ma che uso per comodità, e su cui torneremo).[3] come territorio dell’alterità per eccellenza: altro rispetto all’umano, ai limiti consueti del corpo, dello spazio, del tempo. In particolare, è sulla possibilità di un corpo evaporato che si sofferma la mia riflessione intorno all’unico film qui indicato, Her di Spike Jonze (2013). Si aprono qui, come intuibile, scenari contradditori e affascinanti, su cui torneremo, e su cui è aperto il dibattito psicoanalitico nel mondo: si può fare a meno del corpo, ad esempio in seduta? L’evaporazione del corpo è un miraggio, il sogno infantile di un’alterità che ci vorrebbe senza limiti, senza le strettoie e i bisogni di un corpo umano, o la futura tecnologia si avvicinerà sempre più a questo salto di paradigma?
 
     Il concetto di alterità ha origini antiche e nasce come concetto filosofico che, nel linguaggio scolastico, si oppone a quello di ‘identità’; solo successivamente la psicoanalisi lo prenderà a prestito. Già Platone, specialmente nei dialoghi dialettici e muovendo dall’opposizione dell’essere e del non essere o, più esattamente, di “quel che è” a “quel che non è”, riconosce come, in questo secondo termine dell’antitesi, il ‘non essere’ si risolva nell’’essere altro’. In Aristotele il concetto di alterità si presenta solo come una delle forme possibili dell’’’antitesi’ o ‘opposizione’, accanto, per esempio, alla ‘contrarietà’ e alla ‘contraddizione’: rispetto a bianco, ‘altro’ è verde, o qualsiasi altra cosa; contraddittorio è ‘non bianco’, contrario è ‘nero’. La riflessione filosofica sull’alterità torna in primo piano con Hegel: il problema dell’’essere altro’ (Anderssein) torna a presentarsi connesso con quello del ‘non essere’ (Nichtsein): dall’antitesi del non essere all’essere si genera il divenire. Se da Hegel[4] in poi il problema dell’alterità e del suo rapporto con la negazione (il non essere) è rimasto tra le questioni capitali della dialettica, diverso è l’interesse dello psicoanalista: l’alterità ci riguarda in quanto presenza dell’altro, dell’oggetto sia in quanto oggetto di dipendenza fin dalla nascita e strutturante l’identità sia, in una visione più ampia, in quanto molteplicità, pluralità delle coscienze rispetto all’Io. L’alterità ci interessa, cioè, come contraltare inevitabile, e conflittuale, all’identità.
Anche il linguaggio eterno e universale del mito, a cui la psicoanalisi è più vicina e dal quale ha attinto l’evocatività di concetti il cui uso è anche entrato nel linguaggio corrente, ha rappresentato il conflitto identità/alterità, intrinseco all’essere umano, con le figure di Narciso ed Eco. Narciso incarna l’identità assoluta, che vive nel totale diniego dell’altro, mentre Eco è l’alterità assoluta, che vive per l’oggetto, oscurando completamente se stessa, ridotta infine ad una voce. Nella loro traduzione ‘clinica’ (imbrigliatura che certamente ne impoverisce le infinite sfumature espressive) ritroviamo, agli estremi dello spettro, da un lato il narcisismo fino ai disturbi narcisistici di personalità, e all’altro polo la totale dipendenza, l’assenza di soggettività per sacrificio all’oggetto, entrambi spinti nel mito – e nella realtà – fino all’annientamento di sé, ma presenti in ciascuno di noi all’interno di un caleidoscopio infinitamente ampio e variegato. Abbiamo tutti un pò di Narciso e un pò di Eco dentro di noi, siamo tutti ancorati al bagaglio rassicurante dell’identità, ma anche bisognosi di farci pura voce, eco, dell’altro. Binomio che nasce quindi dalla filosofia, ma ripreso nella mitologia e da lì assunto in psicoanalisi, poiché rappresenta un’antitesi irriducibile, strutturale, eterna. Freud, pur non utilizzando specificatamente il termine ‘alterità’, riconduce la presenza degli altri, dell’ambiente, a una delle tre cause di infelicità umana ne Il Disagio della civiltà (1930), insieme alla forza sovrastante della natura e al decadimento fisico. Da un altro nasciamo, da un altro dipendiamo per un tempo scabrosamente lungo, ricorda sempre Freud, rispetto a tutte le altre specie animali; il piccolo umano solo dopo diversi anni, e con molta fatica, acquisisce indipendenza rispetto agli oggetti originari. Poiché dal primo oggetto, la madre o meglio la funzione materna, dipende la sua vita e la sua morte, la fonte di nutrimento, piacere e accudimento e insieme la fonte di dolore e frustrazione, questo primo oggetto viene, prima ancora che amato, odiato. L’odio, come vedremo nel primo capitolo, è pertanto strutturale all’essere umano, all’ambivalenza irriducibile e originaria che vede in un unico oggetto, la Madre, la fonte contemporanea di piacere e frustrazione.
Nasciamo in un universo segnato dall’Altro, nel linguaggio lacaniano. E’ semmai l’alterità a precederci, senza che possiamo cambiarla o opporvi resistenza per un lungo arco di tempo. Ciascun bambino nasce in un contesto dato che altri – genitori e le generazioni precedenti – hanno già saturato di valenze, affetti e significati, sì che il bambino (o la fantasia di ciò che sarà) è già inscritto nella mente della madre e dell’ambiente, può già essere un ‘ben destinato’, il “contratto narcisistico” (Aulagnier, 1975) è stato efficace e vitale, o un futuro bambino rifiutato, senza alcun intervento da parte sua. In questo mondo regolato dall’Altro, segnato dall’Altro, dobbiamo pur escogitare strategie di sopravvivenza, compromessi, ritagliarci il nostro posto, il nostro posto al sole. Strutturare un’identità, una soggettività ben ferma, solida, ma aperta al cambiamento, a quel divenire che l’incontro con l’alterità genera pur senza cadere nel diventare una pura voce, senza annientare se stessi, diventa il compito cruciale di ogni essere umano. Si può immaginare qualcosa di più faticoso?
All’interno di questa già complessa configurazione strutturale di base, la contemporaneità che ruolo riveste? Siamo inevitabilmente immersi in una kultur che è essa stessa un altro da noi (quella che Lacan chiamava “il grande Altro”)[5], che non solo ci precede, come abbiamo visto, ma evolve, cambia, pone nuovi assiomi, nuovi diktat, nuovi stili, nuovi e talvolta paradossali imperativi. E’ lecito domandarsi, dunque, se il perenne conflitto identità/alterità, narcisismo e socialismo nei termini di Bion, l’Anderssein e il Nichtsein della filosofia, sia oggi soggetto a mutamenti, a nuove difficoltà o meno, e se sì, quali, come identificarle, come distinguerle da semplici, e naturali, passaggi che ogni momento storico ha presentato. Crediamo che in quest’intrigante ricerca il Cinema (con l’aiuto della psicoanalisi, e non viceversa!) costituisca uno strumento privilegiato d’indagine, di riflessione, di scoperta. Viene dunque prima il cinema, questa povera ‘settima arte’ presente solo, esattamente coeva della psicoanalisi, da poco più di un secolo? Come riteneva Freud, credo che siamo debitori agli artisti: “I poeti sono alleati preziosi e la loro testimonianza deve essere presa in attenta considerazione, giacché essi sanno in genere una quantità di cose tra cielo e terra che il nostro sapere accademico neppure sospetta” (1907, p.380). Chiedetelo ai poeti, rispondeva a quanti lo interrogavano circa i misteri della mente.
Si osserva con piacere, in linea con il ‘rispetto’ freudiano per la preconscia intuitività dell’artista, come sia mutato ormai da diversi anni l’approccio dello psicoanalista nel presentare film o nel parlare di cinema. Lungi da un atteggiamento dottrinario, teso a spiegare, interpretare o saturare con contenuti pre-confezionati, magari corretti ma che pilotino in una qualche direzione la riflessione dello spettatore, oggi si privilegia di gran lunga quell’assetto che Bolognini chiama “far lavorare la mente dello spettatore” (2013, p. 1), facilitarne semplicemente la libera associazione mentre si gode la visione del film, lasciare che le idee emergano, che gli inconsci si tocchino sia tra chi guarda e i personaggi del film, sia all’interno della mente privata, dei percorsi interiori di ciascuno di noi. In perfetto parallelo, a me pare, a come è evoluto l’atteggiamento dell’analista nella stanza d’analisi, così è mutata l’atmosfera con cui discutiamo di cinema: pur dovendo disegnare qualche traccia, proporre dei punti nodali di discorso che, ovviamente, scegliamo arbitrariamente secondo la nostra sensibilità o il tema di cui si intende parlare, tutto il resto è insaturo, va avanti da sé, come se vivesse di vita propria. Al ‘qui ed ora’ della stanza analitica, assocerei senza esitazione sia il ‘qui ed ora’ della visione del film sia, nella mia personale esperienza, il ‘qui ed ora’ dello scrivere le cosiddette recensioni. Esse partono, naturalmente, dalla visione di un film che non è mai scelto in precedenza, ma che mi ha colpita o emozionata per qualche ragione (spesso inconscia o preconscia) durante la visione o nell’immediata elaborazione successiva, nel tragitto di ritorno, o nei sogni della notte seguente: immagini, dialoghi, dettagli, si impongono, non smettono di bussare alla mia mente. Il film si è fatto scegliere. Segue allora una fase di documentazione (dati sul film, regista, nozioni varie che in seguito scelgo o meno di inserire nello scritto, ma servono essenzialmente a me per la costruzione interna della genesi del film), le associazioni psicoanalitiche o narrative che via via emergono, e la traduzione nello scritto, il montaggio direi, per seguire il parallelo con la costruzione di un film. Il montaggio finale sarà dunque frutto di tutti questi passaggi (e altri ghirigori interni che è difficile esprimere in parole), dai risultati incerti, inaspettati ai miei stessi occhi: parlerà certamente del film ma non solo, sarà variamente aderente al testo poiché nel frattempo si sono intromesse miriadi di fantasie, ricordi, riferimenti cinematografici e psicoanalitici, spunti personali che un pò fanno da intralcio e vanno ripuliti, ma a volte integrano in misura essenziale il senso del discorso. Insomma, il prodotto finale, ciò che il lettore legge, è certamente sì uno scritto sul film, ma sul mio film. I lettori, psicoanalitici e non, che da anni seguono le mie recensioni, non badino a queste ultime righe poiché conoscono assai bene lo stile che le contraddistingue, e anzi talvolta confidano di ricercarle proprio per questo. E’ mio augurio che ai nuovi lettori, invece, queste poche righe di (poco coerente, mi rendo conto, e confusionaria) spiegazione, siano di aiuto nel percorso di lettura.
     “Descrizioni di descrizioni”, propongo di chiamarle, prendendo a prestito la squisita definizione che il curatore del saggio omonimo diede, nel 2006, alle varie ‘recensioni’, divagazioni e commenti su cinema e letteratura che Pasolini scrisse tra il ’73 e il ’75.[6] Descrizioni di descrizioni.
 
 
           
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 



[1] Ed. Antigone, Torino
[2] Il sito www.spiweb.it, alla sezione cinema, si compone di ‘recensioni’ e di ‘in sala’, voce nata successivamente (e perciò non presente nel precedente libro) che raccoglie segnalazioni di film più istantanee, nate per essere più immediate e di invito, come recita il nome, a correre a vederle ‘in sala’. Di fatto, a mio parere, la differenza è minimale: al lettore delle recensioni ‘in sala’, il piccolo sforzo immaginativo in più di riempire da sé, con l’aiuto del libro nel complesso, gli eventuali buchi narrativi.
[3] Uso il termine ‘virtuale’ nel suo senso antropologicamente più ampio, quello di “una “natura” drammaticamente cambiata nel momento in cui essa è formata anche dalle memorie di massa dei computer in un subitaneo ma radicale cambiamento che si è attuato con l’affermazione definitiva del paradigma dell’Information Society” (Bollorino F., Cosa avrebbe detto Karl Jaspers di Internet?, intervento alle XIV Giornate Psichiatriche Ascolane: Karl Jaspers, cent’anni di psicopatologia, su www.psychiatryonline.it, 17/05/2013).
[4] Fonti riassunte da: Enciclopedia Treccani
[5] Per un approfondimento indiretto su Lacan, si veda: Zizek S. (2006): How to read Lacan. Granta Publications, London. Tr. it: Come leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo. Boringhieri, Torino, 2009
 
[6]  Il volume, a cura di Chiarcossi G. (Garzanti, 2006) raccoglie le recensioni che Pasolini andò pubblicando sul settimanale "Tempo" tra il '72 e il '75.

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