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NON E’ PIU’ CASA MIA di Veronica Delvar – Presentazione di Giulio Giorello

27 Giu 15

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“Vorrei essere letta, sentirmi in compagnia del lettore mi basta… saperlo libero di riaprire e chiudere pagina dopo pagina, sottratta alla visione della mia casa decadente”, scrive Veronica Delvar, raccontando del cancro che la devasta. Si è tanto discusso, nei secoli della nostra modernità, del corpo umano come una macchina; ma per Delvar il suo corpo non è più un congegno di cui si può a piacimento rimpiazzare un pezzo danneggiato perché tutto torni a funzionare. È invece una casa di cui il male – l’alieno, come lo chiamava Oriana Fallaci – l’ha espropriata, da quando “ospite indesiderato” è penetrato modificandone l’arredamento, prima impercettibilmente, si direbbe anche silenziosamente, poi in modo sempre più invasivo, “lui” con tutto il corredo dei “veleni buoni” che la terapia abitualmente somministra.
Quella che Delvar mette su carta non è la descrizione “oggettiva” ovvero “scientifica” del decorso della malattia; ne è, invece, la storia “soggettiva”, quasi il resoconto di un improvviso trasloco, ove non resta che “andare con la mente, come con le nuvolette dei fumetti” alle personali scie di cose perdute per strada, come capita se, sul camion del trasporto, ci si accorge troppo tardi che “manca un tappeto e la lampada preferita è perduta chissà dove”. Sarà perché sono stato fin da piccolo un appassionato lettore di Topolino che questa metafora mi ha colpito; e ho trovato la leggerezza dell’immagine (“le nuvolette”) assai adatta a esprimere quel “casino senza certezze” in cui si è tramutata l’esistenza di Delvar. Un gran casino in cui sarebbe necessaria – ed è difficile! – “una gran forza di volontà”.
La forza Delvar l’ha trovata nella parola, perché questa “se ne infischia del corpo, e resta intatta, immune, illesa”. A costo di poter sembrare cruda, sgradevole, scostante, cinica, persino impolitica nel suo non chiedere commiserazione, tolleranza o compassione, nel suo non cedere alla moda dell’outing politicamente corretto, nella sua dichiarazione di non affidarsi a consolazioni a buon mercato.
Scrive Delvar che “amare la nuova casa” – quel corpo invaso dal cancro e saccheggiato dalla stessa cura – è letteralmente impossibile: “Non mi si venga a raccontare che c’è qualcuno che ‘si piace col cancro’; è uno di quei dannati buonismi falso tanto come se qualcuno si piacesse grasso o con la cellulite o col doppio mento. Escluso a priori: ammettiamo di farci abbastanza schifo”. Resta la piccola soddisfazione di scoprire di “voler bene” ai propri “miserevoli progressi”, alle piccole conquiste quotidiane, nella difficile coabitazione con lo straniero. Delvar non disprezza la scienza, si affida ai suoi medici, non cerca vie di fuga alternative, diffida radicalmente delle grandi speranze, che le paiono solo forme di tirannia affettiva, varianti dispotiche del potere dell’illusione. Un potere che, per di più, come altre forme di pretesa sovranità, si rivela vuoto di contenuto di fronte all’urto del cambiamento. “La nuova casa stravolge noi e stravolge gli altri intorno (e dentro) di noi. I vicini… possono diventare i più lontani, gli estranei la nostra nuova delizia disimpegnata, i personaggi dei romanzi e delle fiction quelli che vi fa più piacere incontrare”.
È il paradosso di “una routine piena di imprevisti”. Sotto questo profilo la malattia, in particolare il cancro, che è così difficile perfino nominare, offre anche “un’occasione” di dedicare “più spazio, più tempo, più respiro a quegli aspetti che sarebbero rimasti in letargo nel lungo inverno della quotidianità”. Ma si può dire occasione solamente in questa accezione: Delvar è apertamente scettica nei confronti di qualsiasi disegno provvidenziale per il male che concretamente la affligge; e insiste sulla vanità di concezioni che, religiosamente o anche laicamente, giustifichino tale occasione non voluta in un disegno di speranze trascendenti: come se la sofferenza potesse redimere o salvare! Tale chiarezza apparirà forse spiazzante per i temperamenti pii (scrive Delvar di non invidiare i credenti e di non volersi affidare “all’oppio della divinità”). A me, invece, questa schiettezza piace: niente “bontà”, niente “speranza”, niente “fede” nella Provvidenza. Il suo libro non è solo la cronaca “semiseria” del progredire del male ma una dichiarazione di Illuminismo, come dimostrano le sue valutazioni disincantate ma attente dell’atteggiamento scientifico e della professione medica: un Illuminismo che, lungi dall’enfatizzare la luce abbagliante della ragione, ne scorge i limiti nell’ombra e allo stesso tempo capisce che senza il bagliore di quella candela l’avvenire sarebbe ancora più insopportabile.
Tanto meglio che affidarsi a quella triade di bontà, speranza e fede che, a livello delle nostre passioni, corrisponde a “una specie di statalismo: c’è qualcuno o qualcosa di superiore a me, impalpabile e vago” quando le energie del corpo vengono meno. Delvar confessa di essere sempre stata una tenace individualista, una di quelle persone che si modellano “sempre e comunque” ascoltando la voce della coscienza (e oggi “le cellule folli non fanno eccezioni”). La sua è un’esplorazione di quella che una volta i filosofi chiamavano alienazione: alieno è il male, alieni gli “altri”, con cui risulta talvolta arduo perfino comunicare, alieno è il senso di dipendenza che via via si constata man mano che “l’invasore penetra nella casa che era il proprio corpo”. Eppure, resta il modello di una indipendenza e di un’autonomia che ancora permette di dire di no a quelle relazioni che non si vogliono avere e alla cui imposizione non ci si vuole arrendere. Poi si scopre che l’altro più enigmatico e inaccessibile è il proprio sé, e nulla è più impegnativo che rispondere all’ingiunzione di Socrate “Conosci te stesso.”
Le pagine di Delvar ci fanno capire perché la speranza e altri valori costituiscano degli ostacoli in tale cammino; come nebbie che un sobrio atteggiamento razionale mira a dissipare non contro ma grazie alla stessa passione per la vita che traspare da queste pagine: “Non voglio sperare, voglio sapere”. Veronica Delvar ha scritto un libro che tratta con lucida consapevolezza di libertà e di conoscenza, facendo intendere come sia difficile difenderle insieme, ma anche come non si possa farne a meno finché si ha a cuore la propria dignità. In questi tempi di realtà terribile e di retorica fatta di “diabolico ottimismo”, forse la sua fatica può essere stata non solo una delle sue soddisfazioni da “sfrattata”, ma un invito per gli altri a capire la loro stessa condizione. Credo che almeno di questo lettrici e lettori la debbano ringraziare.

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