La società disciplinare di Foucault, sostiene Han, era determinata dal "non potere" del singolo, dal suo non poter essere ciò che è “liberamente”. E quindi dal suo sentirsi recluso, relegato, obbligato dal sistema.
La società di Ehrenberg, invece, era una società depressa, poiché l'individuo era dominato dal "dover essere ciò che è": la sua depressione derivava dal peso eccessivo della responsabilità e della iniziativa personale.
Ora, invece, siamo arrivati alla società nevrotica e frustrata della positività assoluta: dell'illimitato dover essere, ciò che possiamo essere, oltre i nostri stessi limiti. In luogo del dovere, subentra il dominio del progetto, dell’iniziativa. È la prestazione di prestazione.
Il dovere era ancora intaccato dalla negatività dell’obbligo.
Mancando qualsiasi regolamentazione sociale rigida e dittatoriale, l’individuo non è più indotto a sottostare a un “dover essere” esterno, e quindi a uno sforzo che necessariamente consuma, o limita, le sue risorse e inclinazioni. Siamo oramai in presenza di un nuovo imperativo categorico, che ricalca la iper-produzione incontrollata declinandosi in un iper-attività mortifera. Il sistema globale, seppure animato dalla massimizzazione dei profitti e della produzione, se rimane strutturato all’interno dell’obbligo disciplinare, incontra necessariamente i propri limiti. I nuovi schiavi, per produrre meglio, non devono vedersi sfruttati da qualcuno: debbono essere spinti ad autosfruttarsi illudendosi di sentirsi liberi.
Al dover essere si è sostituito il “poter essere” del “dovere di prestazione”.
Alla pressione del dover fare, la quale produceva il dolore del limite rispetto alla propria volontà, e quindi il non poter fare ciò che si voleva, abbiamo sostituito l’esautorazione del poter fare illimitato. Il dover fare poteva ancora riagganciarsi, seppur nella produttività del sistema, alla obiezione del soggetto che vedeva negato a se stesso il diritto di fare altro, o anche di fare ciò che avrebbe potuto fare.
Ora, è il poter fare stesso a essere il nuovo dic tat, la nuova legge, e rispetto a questo ogni negatività viene espunta. L’individuo non è più lacerato tra il dovere e il piacere, o tra il dovere e il volere. Ma soggiace a un esaurimento e a uno sfinimento, dovuto alla positivizzazione assoluta di tutte le sue attività, rispetto al poter fare illimitato e al dovere di prestazione. Il quale, a differenza del “dovere” foucaultiano, non prevede una negazione esterna, un divieto, e quindi un non-potere; ma un iper-potere che consuma in sé stesso il soggetto, che si trova ancora una volta a dover fare qualcosa, ma a partire da una propria istanza interna. Libertà e costrizione dell’autosfruttamento nell’autoconsunzione.
Lo sforzo di volontà dovuto al dover fare, implicava ancora una opposizione al negativo: non voglio fare ciò che non mi piace fare. La prestazione del “poter fare” implica un esaurimento per accelerazione.
Attraverso la maschera dell’autonomizzazione integrale del singolo, della sua libera espressività incondizionata, l’illusoria libertà da costrizione esterna, unità all’imperativo della prestazione di prestazione, sfocia in una libertà costrittiva secondo la quale l’individuo sfrutta se stesso inconsapevole della sua stessa schiavitù.
Manca il potere del negativo.
La potenza positiva infatti, si distingue dalla potenza negativa così come dalla impotenza, come suggerisce esemplarmente Han. La potenza positiva è appunto “il poter fare” qualcosa. L’impotenza è il contrario di questa potenza positiva. Ma è essa stessa positiva, poiché appunto è ancora legata a qualcosa: è il non poter fare qualcosa.
La potenza negativa, invece, rappresenta il superamento della potenza positiva, poiché non si lega ad essa: è il poter dire “di no”. Senza questo tipo di potenza negativa, la possibilità assoluta della potenza positiva nella percezione, ad esempio, ci porterebbe a una dispersione negli stimoli e negli impulsi esterni i quali ci si propongono continuamente. Non ci sarebbe alcuna interruzione, alcuna possibilità di riflessione, e quindi alcun senso spirituale. Il pensiero stesso, infatti si disperderebbe nell’infinita serie degli oggetti, e si prolungherebbe indefinitivamente sui suoi stessi correlati di pensiero. Senza la potenza negativa saremmo consegnati alla passività assoluta della dispersione tra le cose, a partire da una iper-attività costante e convulsa, stereotipata, la quale è appunto il contrario di una attività. L’iper-attività in questo senso, infatti, si rovescia in una pura passività, in una mera reazione impulsiva. Ed è proprio ciò che sta accadendo.
È il dominio dell’oggetto sul soggetto, per usare la terminologia di Baudrillard.
Lo spirito si rivela nella sua contemplatività e nella sua attività, nel momento in cui esso oppone una resistenza agli istinti e agli impulsi che reagiscono all’esterno, per rientrare finalmente in se stesso: per tradurre internamente cioè, attraverso il dialogo con sé, la propria grammatica interna di senso, le sue stesse immagine del mondo, oggettivando i propri modi di essere e allargando, in questa maniera, la sua stessa dimensione osservativa e significatoria. Ma se l’attività si trasforma in una iper-attività; se gli impulsi interni cedono continuamente alla reazione rispetto agli stimoli esterni, seguendone l’emergere e l’annullarsi, l’iper-attività si trasforma in una dipendenza passiva rispetto all’esterno.
Il riempimento oculare costante ha prodotto uno spegnimento della capacità di visione. La contemporanea bulimia iconica arresta, nella iper-produzione delle immagini, la capacità contemplativa di lasciar emergere da sé ciò che è-da-vedere. La pedagogia della visione e della contemplazione, la quale richiede un proprio tempo e una propria articolazione di senso, lascia il passo a una frammentazione rapsodica e superficiale della attenzione. La proliferazione incontrollata spinge a una iper-attività dell'occhio che non può lasciarsi sfuggire tutto ciò che incontra e che sfugge.
La fuggevolezza del mondo, e quindi la sua mancanza d'essere, inducono a una frenesia dell'attenzione e dello sguardo, nel tentativo paranoico di controllare tutto, di divorare tutto, di non lasciarsi scappare nulla. Non è solo Dio e la sua fede in lui ad essere scomparsi, come dice Han, ma è il mondo stesso ad aver perso la sua consistenza ontologia.
Questo meccanismo perverso, inevitabilmente declina in un auto-controllo e in un auto-asservimento inconsapevole, nel quale si raggiunge una saturazione interna che non lascia più alcuno spazio per il negativo, per la differenza-da-sé.
Spinto a una divorazione costante nella continuità oculare tra la visione e l'oggetto, e quindi tra il soggetto e l'oggetto, l'individuo non può che divorare se stesso, non può che consumare se stesso nella ricerca spasmodica dell'accumulazione indefinita. Ma questa stessa accumulazione produce un burnout mentale e spirituale.
L’occhio si rivela lo strumento di uno spirito che non riesce più a dialogare con se stesso, nel momento in cui viene sopraffatto dalla adesione incontrollata alle cose che osserva, senza opporre resistenza alcuna. In questa maniera, viene a prodursi un isolamento dell’io, il quale soggiorna costantemente presso le cose e mai presso di sé.
Hanna Arendt ha messo a fuoco la differenza tra l’essere “Uno” dell’individuo che si trova con gli altri, nel mondo, e al contrario l’essere il due-in-uno dello stesso soggetto, il quale si ripiega su di sé quando pensa a sé. L’armonia sorge non la dove il soggetto si fa identico a se stesso, quando diventa monodico: ma solo nel momento in cui ci sono due parti in dialogo, o due note che producono un suono armonico. È ciò che Platone soleva chiama “il dialogo silenzioso dell’anima con se stessa”. Per non incorrere in vuote tautologie, occorre che nell’Uno che io sono per gli altri si tramuti in un io-sono-per-me-stesso. E per fare ciò è necessario che si infiltri una differenza nella identità.
È il “con” inteso come sintesi e mediazione tra me e me stesso che produce l’identità, concepita come l’essere se stessi e per se stessi. Per pensare a me stesso debbo pensarmi come “diverso” da me stesso, cosicché possa prodursi un commercio comunicativo tra me e me, possa stabilirsi cioè un dia-logos interno. L’identità è il rapporto di se stessi con se stessi: non è il pensare a qualcosa, ma su qualcosa. E precisamente su me stesso. Posso tenermi compagnia e sentirmi appartenere a me, solo scindendomi in un due-in-uno dialogante. Come dice la Arendt ne La vita della mente, “La solitudine è quella situazione umana in cui tengo compagnia a me stesso. La desolazione dell'isolamento si produce quando sono incapace di scindermi nel due-in-uno, senza essere capace di tenermi compagnia, allorché, come soleva dire Jaspers, ‘vengo meno a me stesso’ (ich bleibe mir aus), o, per dirla in altro modo, quando sono uno e senza compagnia.”
Ma in questa condizione di aderenza al mondo, di connessione perpetua, l’individuo è talmente abituato a soggiornare presso le cose, a sentirsi Uno rispetto ad esse, che ha disimparato il dialogo silenzioso con se stesso, vivendo in questa maniera al proprio interno l’isolamento dell’Uno. Vive sempre una espropriazione a sé. La pluralità delle cose, la quale rivela la differenza delle cose stesse e quella interna del soggetto, uniformandosi, toglie questa differenza, questa alterità. Al dialogo silenzioso del due-in-uno, viene a sostituirsi così il silenzio prodotto dal riempimento della iper-attività nella iper-produzione.
Il silenzio carico di senso della contemplazione, nella quale lo spirito dialoga costruttivamente con se, lascia il passo al silenzio della parola soffocata dagli oggetti, da una attività che non lascia spazio alla riflessione, al vuoto di senso.
Il vuoto si riempie prima ancora di poter dialettizzare la latenza dei suoi stessi elementi, nella indifferenziazione e nella tensione produttiva delle immagini interne, rispetto al senso della propria vita. Poiché il soggetto non può permettersi alcuno iato tra se e le cose esterne, allo stesso modo non può avere il tempo di lasciar decantare al proprio interno quello spazio di silenzio necessario, quel vuoto fertile, a partire dal quale lasciar emergere da sé nuovi significati, nuove integrazioni e sintesi di senso.
Ma cosa si intende, nello specifico, con vuoto fertile?
Giovanni Paolo Quattrini sottolinea come la Gestalt non abbia mai definito l’”essenza” del cosiddetto vuoto fertile. Tuttavia, ha chiarificato la strada, ha indicato “come” trovarlo.
Quando la mente è rivolta all’esterno, essa è continuamente occupata nelle sue elucubrazioni; così come l’io viene a riempire la mente con il suo chiacchiericcio quando sovrasta il soggetto con le sue richieste. È solo nel momento in cui ci si sgancia dalle risposte automatiche al mondo esterno, rivolgendosi silenziosamente – ma attentamente –, all’interno di sé, che la mente, invece che rispondere in modo coattivo al di fuori, comincia a produrre autonomamente. Friedlander, dal quale prende le mosse il concetto di vuoto fertile della Gestalt, sintetizza il cosiddetto “pensiero differenziale” in questo modo: ogni evento nasce da un punto zero, un punto di indifferenziazione, a partire dal quale solo successivamente si dipartono delle polarità, delle categorie, delle differenze appunto, tra un più e un meno, tra questo e quello, ecc. È il Ku dello Zen. Ora, sostiene la Gestalt, se io fisso la mia attenzione sul punto zero precedente a queste differenziazioni, e cioè tra la fase di ritiro dell’organismo e la fase di emersione di un nuovo bisogno, è possibile che io riesca a vedere l’intero: lo stabilirsi silenziosamente e con una attenzione indifferente al centro del Ku da parte della mente, e cioè tra le figure ritiratesi sullo sfondo in modo indifferente tra loro, fa si che possa emergere, in modo spontaneo, la figura che necessita maggiormente di un suo soddisfacimento. Che si “produca” cioè qualcosa, e che questo qualcosa possa essere integrato rispetto alle altre parti. Il vuoto fertile.
Che cosa produce effettivamente questo vuoto? Bisogni, desideri, fantasie, progetti, intenzionalità. Quando si fa silenzio per ascoltare se stessi dall’interno, inevitabilmente emerge una intenzionalità, una volontà capace di dirci in che direzione stiamo andando, di cosa abbiamo bisogno, che cosa desideriamo. È quasi una nuova nascita, poiché il soggetto che lascia che il vuoto diventi fertile, effettivamente, non sa cosa sorgerà da esso.
Ma se c’è una continuità circolare fatta di consumo, informazioni acquisite e una comunicazione ininterrotta con l’esterno e a partire da esso, non è possibile creare nulla di nuovo poiché non può prodursi quel vuoto capace di far decantare quegli elementi all’interno di esso, di farli dialogare ed esprimere.
In questo continuo stato di confluenza nella connessione costante, che non chiude praticamente mai con i contatti passati, né allo stesso tempo permette, in virtù di questa apertura mai conclusa, di aprire al nuovo, non c’è mai ritiro, non c’è mai silenzio, e non vi è mai un effettivo contatto poiché manca qualsiasi distanza capace di, appunto, incontrare l’Altro nel contatto. Vi è solo una connessione perenne, una connessione senza contatto.
Nella continuità tra soggetto e oggetto, il singolo esclude da sé il dialogo sia interno che esterno, poiché l’ascolto ha bisogno di una distanza per poter articolare un dia-logos: senza questa distanza il soggetto aderisce in modo incondizionato e compulsivo ai propri oggetti di consumo. Il dialogo, così come l’ascolto come suo spartito ritmico di senso, ha bisogno di un tempo capace di rallentare le attività spasmodiche nelle quali siamo immersi, permettendo alle persone di dedicarsi alla contemplazione, all’attenzione dell’Altro, prestandogli in questo modo ascolto. L’ascolto dell’Altro ha bisogno di tempo per svilupparsi, per estendersi. Sia un tempo esterno, che un tempo interno: è il tempo del riposo creativo.
Ma non c’è più il tempo, perché siamo passati dal riposo creativo, il tempo del vuoto fertile, all’iper-attività produttiva, la quale non tollera sospensioni, pause, trattenimenti. Non tollera quell’indugiare presso l’Altro, quell’abitare la distanza, capace di farlo sentire a casa attraverso la nostra presenza e la nostra stessa cura. Non c’è più un prendersi cura. C’è solo la funzionalità e il consumo degli altri anonimi, all’interno di un sistema che non prevede alcun abitare, ma un soggiornare fugace presso le cose prima di consumarle.
Il silenzio diviene un vuoto che si riempie continuamente, non permettendo alcuna articolazione, alcun dialogo, alcuna dialettica tra le parti. L’individuo contemporaneo, nella sua immanenza radicale rispetto ai propri oggetti, viene a scomparire per un eccesso di autoaffermazione incondizionata al mondo: si esautora in esso e per esso. In questo senso scompare la sua differenza rispetto al mondo.
L’unico dialogo possibile, sembra essere oramai quello del mondo iper-produttivo con se stesso. Al silenzio del vuoto capace aprire uno spazio nel quale possano articolarsi le parole di chi parla e di chi ascolta, viene a sostituirsi il silenzio del vuoto che si riempie senza lasciare alcuno spazio di discussione biunivoca. La positività assoluta produce un meta-discorso costante e anonimo, che sovrasta ogni possibilità apertura di un autentico spazio di ascolto.
La rapsodicità accelerata del tempo non permette alcuna interruzione, stemperando così i sentimenti e le emozioni “forti”: le quali hanno bisogno appunto di un “tempo” di svolgimento e di una tensione dialettica. La collera, la rabbia, necessitano di una interruzione temporale che possa permettere loro di esercitarsi e di dirigersi rispetto all’Altro cui si rivolgono. Debbo stabilire una distanza rispetto all’Altro se voglio incontrarlo, seppure a partire dalla collera che provo verso di lui. E devo accettare per questo una certa “sospensione temporale” se voglio permettere alla mia collera di salire fino alla sua tensione apicale, e consentirle quindi di scaricarsi in quanto collera. Non c’è più distanza né tempo oramai, né per vedere l’altro né per esprimere la propria collera, la quale si è illanguidita in irritazione, nervosismo, disappunto. Niente ci appassiona, tutto ci irrita e ci innervosisce. L’intero cui sia la collera che l’angoscia sollevavano e si rivolgevano, l’essere cioè, a partire dal paradigma immunologico capace ancora di vedere e di espellere da sé l’Altro in quanto altro, subiscono una frammentazione in un presente puntiforme e in una positività assoluta che appiattisce tutto, persino i sentimenti. Nervosismo, irritazione, frustrazione, ansia: questi sono i sentimenti contemporanei, tradotti secondo l’iper-attività di un tempo accellerato e convulso.
Il mondo non ha più la capacità di creare una resistenza poiché la promiscuità e l’ibridazione continua di tutte le forme, sia nell’ambito culturale che nella percezione stessa della vita, fa il paio con il cambio di “paradigma immunologico”, come lo chiama Han, il quale lascia il passo a quello abreativo neurale del rifiuto.
Il paradigma immulogico prevedeva la risposta all’Altro in quanto Altro. Alla negatività cioè dell’Altro, la quale cercava di penetrare nel Proprio tentando di negarlo: la risposta immunologica si esprimeva in questo senso come il tentativo da parte del Proprio di negare la Negatività dell’Altro. Il Proprio cioè tentava la propria autoaffermazione nella negazione di Negazione. Ma la negatività dell’Altro è scomparsa cedendo il passo al consumo persino dell’estraneo, il quale si elicita non a partire dalla sua alterità profonda, ma in virtù della sua “differenza”, e cioè versione diluita, fluidificata dell’alterità, la quale non può provocare alcuna risposta immunologica, alcuna reazione.
Il paradigma immunologico, come dice l’Autore, è incompatibile con la globalizzazione, la quale abbisogna di un abbattimento incontrollato di tutte le barriere, di tutte le opposizioni, affinché tutto possa circolare liberamente. La reazione immunitaria bloccherebbe questo processo di abbattimento e di scorrimento. La positività assoluta produce una dissoluzione di tutti i confini nella iper-produzione indistinta di informazioni, comunicazione, beni e merci: in questo senso non ha ragion d’essere neanche la reattività immunologica, dice Han criticando Baudrillard, che pure sostiene la positivizzazione assoluta del sistema. Poiché è lo stesso paradigma dell’Uguale a essere penetrato così a fondo, da far si che non sia più necessario parlare in senso forte di “risposte”.
L’Uguale al posto dell’Altro domina trasversalmente tutti i sistemi, di modo che non è possibile nemmeno, in una ipotetica metafora sociologico-ematologica, far si che possano stabilirsi gli anticorpi capaci di respingere, appunto immunologicamente, l’estraneo in quanto Altro. Cosicché, al rifiuto immunologico dell’Altro inteso come negazione di Negazione – il quale viene esercitato anche solo in virtù della sua minima quantità di presenza, e quindi a partire dalla sua qualità di Altro in quanto Altro, a partire dal suo negativo intrinseco –, viene a stabilirsi un rifiuto dell’Uguale come digestione neurale, come rigetto. L’extracomunitario oramai non rappresenta più una minaccia, ma un peso, un “di più”.
Secondo Han la profusione incontrollata dell’Uguale a partire dalla positivizzazione assoluta degli apparati e dalla cancellazione del negativo, produce il “terrore dell’immanenza”. La violenza da parte dell’Altro vista dalla prospettiva immunologica, era una violenza deprivativa: l’Altro era ciò che rischiava di privarmi di me stesso. La violenza esercitata dalla presenza asfissiante dell’Uguale, è una violenza saturativa. Vi è un eccesso dell’Uguale, rispetto a ciò che già il sistema stenta a sostenere, nella sua continua spinta verso la positività assoluta e la prestazione di prestazione. È questo il terrore dell’immanenza di cui qui si parla, il quale provoca come dice l’Autore quegli “infarti psichici”, che egli intercetta nei nuovi disturbi contemporanei. Depressione, iperattività, sindrome da deficit di attenzione, il disturbo borderline di personalità, burnout.
I cosiddetti deficit di attenzione sarebbero causati da una iper stimolazione la quale produce a sua volta una iperattività dell’attenzione stessa: la quale inarrestabilmente accelera, fino a una saturazione delle funzioni corticali superiori. Alla attenzione profonda della cultura contemplativa dello spirito, viene a sostituirsi l’iper-attenzione della vigilanza paranoica.
Vi è una distrazione continua, un saltare da una connessione a un’altra, un continuo dileguarsi tra gli apparati tecnologici: dal telefono, alle mail, a facebook. Non c’è più spazio per la noia come “culmine del riposo spirituale”. Oltre a questa distrazione, si aggiunge anche una costante “dissociazione” dal presente: dal cosiddetto qui ed ora. Viviamo sempre in un “altrove”, in un “non qui” e in un “non ora”, rispetto al senso di realtà sviluppabile mediante l’esperienza sensoriale del presente.
Essendo solo ciò che viene condiviso ad assumere un valore di verità, penso ovviamente ai social network, viene a mancare la capacità di elaborazione autonoma dei sentimenti, delle emozioni, dei pensieri, vissuti nel momento attuale.
Tutte queste distrazioni e salti ontologici virtuali, tutto questo essere sempre altrove e dovunque, porta a un infiacchimento della volontà e a una all’allentamento dell’attenzione, la quale abbisogna di esercizio e di rigore per allenarsi alla focalizzazione. La volontà a sua volta necessita di una “resistenza” per potersi sviluppare e articolare: non è semplicemente una risposta automatica agli impulsi esterni, ma un esercizio etico e comportamentale insieme, il quale richiede una opposizione capace di svilupparla in un progetto che faccia i conti con il principio di realtà, e quindi con le proprie risorse interne disponibili, motivazioni progettuali, e significati personali. Così come l’attenzione vuole uno sforzo di concentrazione capace di fissarsi su un unico oggetto alla volta, per produrre un assorbimento mnemonico e una integrazione dell’esperienza. Nella distrazione continua e nella dissociazione dal presente, non c’è spazio né per la volontà né per l’attenzione. Tutto è dispersione, tutto è effimero.
Il mondo è diventato fragile. Ha perduto il suo spessore ontologico oppositivo originario – il suo valore di esistenza e di verità.
Ci sono troppi stimoli da gestire, troppe comunicazioni da intercettare.
La densità delle informazioni, sia televisive che digitali, rappresenta un miscuglio di immagini, parole, suoni, musica, che il cervello umano, in milioni di anni di evoluzione, non ha mai incontrato in natura, e quindi non è capace di gestirlo in modo efficace. Come mette in evidenza Pietro Trabucchi, rispetto a questo bombardamento e ingorgo informazionale il sistema entra inevitabilmente in un loop cognitivo che viene compensato da attività inconsce emotive e pulsionali sottostanti, le quali sono facilmente permeabili alla manipolazione esterna. Il cervello, che tende anch’esso alla sopravvivenza dell’intero organismo, quando quest’ultimo viene sovrastato da un eccesso di stimoli rispetto a una delle sue funzioni, in questo caso la neocorteccia, per prevenire il burnout organismico, attiva le funzioni sottocorticali, le quali permettono un dispendio minore di energia poiché sono automatiche e cioè non attivate dalla volontà. Non richiedono uno sforzo.
L’attenzione in questa maniera si diffonde in attività superficiali e rapsodiche che, nella violenza implosiva della saturazione coscienziale, danneggiano la capacità di memoria, la capacità critica, la concentrazione, e la facoltà di distinguere gli stimoli che hanno una certa rilevanza da quelli che portano a una distrazione. È come se la connessione costante del multitasking, disattivasse le aree prefrontali che si trovano in questa maniera a rinunciare a gestire le capacità attentive e a filtrare le informazioni e gli stimoli. Vi è una cortocircuitazione dell’intero organismo, il quale si espone in misura ancora maggiore al rischio della dipendenza esterna degli impulsi.
La società della stanchezza è quella società la quale, asservita all’imperativo categorico della prestazione a ogni costo, alla efficienza e alla competenza dell’individuo, soggiace a una iperestesia degli stimoli e a una iperattività maniacale, precipitando l’anima che consuma se stessa in una catatonia spirituale. È la società del doping. Che in fondo è una prestazione senza prestazione, nella quale l’individuo assume sostanze che aumentano progressivamente le sue attività prestazionali in modo prettamente chimico, e non a partire da uno sforzo di volontà e dalle sue proprie risorse.
L’anima diviene consunta nella continua deinteriorizzazione delle proprie funzioni complesse, come la riflessione, la contemplazione, l’immaginazione, declinate queste nelle mere prestazioni funzionali al sistema positivizzato. C’è così l’effetto di una stanchezza atomizzata, solipsistica, impotente, la quale produce un isolamento e una separazione dei soggetti, i quali, esaurite le loro energie nel tentativo sempre fallimentare di superare se stessi, ricadono sfiancati all’interno del proprio io. Un io incapace sia di guardare l’altro, sia di ascoltarlo. L’io positivizzato occupa tutto lo spazio mondano disponibile, non ha tempo né di ascoltare né di ascoltarsi. Deve produrre se stesso oltre se stesso. Ricadendo nuovamente, infine, al di qua del mondo, nelle proprie mura difensive costituite di impotenza.
[1] J. Baudrillard, Il delitto perfetto, tr. it. di G. Piana, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996
[2] J. Baudrillard, Le strategie fatali, tr. it. di S. D’Alessandro, Ed. Feltrinelli, Milano, 2007
[3] J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, tr. it. G. Mancuso, Ed. Feltrinelli, Milano, 2002
[4] Byung-Chul Han, Nello sciame. Visioni del digitale, tr. it. di F. Buongiorno, Ed. Nottetempo, Roma, 2015
[5] H. Arendt, La vita della mente, tr. it. di Giorgio Zanetti, Ed. Il mulino, Bologna, 2009
[6] Perls F., Hefferline R. F., Goodman P., Teoria e pratica della terapia della Gestalt. Vitalità e accrescimento nella personalità umana, Ed. Astrolabio, Roma, 1997
[7] Quattrini G. P., Per una psicoterapia fenomenologico-esistenziale, Ed. Giunti, Milano, 2011
[8] P. Trabucchi, Tecniche di resistenza interiore. Come sopravvivere alla crisi della nostra società, Ed. Mondadori, Milano, 2014
La società di Ehrenberg, invece, era una società depressa, poiché l'individuo era dominato dal "dover essere ciò che è": la sua depressione derivava dal peso eccessivo della responsabilità e della iniziativa personale.
Ora, invece, siamo arrivati alla società nevrotica e frustrata della positività assoluta: dell'illimitato dover essere, ciò che possiamo essere, oltre i nostri stessi limiti. In luogo del dovere, subentra il dominio del progetto, dell’iniziativa. È la prestazione di prestazione.
Il dovere era ancora intaccato dalla negatività dell’obbligo.
Mancando qualsiasi regolamentazione sociale rigida e dittatoriale, l’individuo non è più indotto a sottostare a un “dover essere” esterno, e quindi a uno sforzo che necessariamente consuma, o limita, le sue risorse e inclinazioni. Siamo oramai in presenza di un nuovo imperativo categorico, che ricalca la iper-produzione incontrollata declinandosi in un iper-attività mortifera. Il sistema globale, seppure animato dalla massimizzazione dei profitti e della produzione, se rimane strutturato all’interno dell’obbligo disciplinare, incontra necessariamente i propri limiti. I nuovi schiavi, per produrre meglio, non devono vedersi sfruttati da qualcuno: debbono essere spinti ad autosfruttarsi illudendosi di sentirsi liberi.
Al dover essere si è sostituito il “poter essere” del “dovere di prestazione”.
Alla pressione del dover fare, la quale produceva il dolore del limite rispetto alla propria volontà, e quindi il non poter fare ciò che si voleva, abbiamo sostituito l’esautorazione del poter fare illimitato. Il dover fare poteva ancora riagganciarsi, seppur nella produttività del sistema, alla obiezione del soggetto che vedeva negato a se stesso il diritto di fare altro, o anche di fare ciò che avrebbe potuto fare.
Ora, è il poter fare stesso a essere il nuovo dic tat, la nuova legge, e rispetto a questo ogni negatività viene espunta. L’individuo non è più lacerato tra il dovere e il piacere, o tra il dovere e il volere. Ma soggiace a un esaurimento e a uno sfinimento, dovuto alla positivizzazione assoluta di tutte le sue attività, rispetto al poter fare illimitato e al dovere di prestazione. Il quale, a differenza del “dovere” foucaultiano, non prevede una negazione esterna, un divieto, e quindi un non-potere; ma un iper-potere che consuma in sé stesso il soggetto, che si trova ancora una volta a dover fare qualcosa, ma a partire da una propria istanza interna. Libertà e costrizione dell’autosfruttamento nell’autoconsunzione.
Lo sforzo di volontà dovuto al dover fare, implicava ancora una opposizione al negativo: non voglio fare ciò che non mi piace fare. La prestazione del “poter fare” implica un esaurimento per accelerazione.
Attraverso la maschera dell’autonomizzazione integrale del singolo, della sua libera espressività incondizionata, l’illusoria libertà da costrizione esterna, unità all’imperativo della prestazione di prestazione, sfocia in una libertà costrittiva secondo la quale l’individuo sfrutta se stesso inconsapevole della sua stessa schiavitù.
Manca il potere del negativo.
La potenza positiva infatti, si distingue dalla potenza negativa così come dalla impotenza, come suggerisce esemplarmente Han. La potenza positiva è appunto “il poter fare” qualcosa. L’impotenza è il contrario di questa potenza positiva. Ma è essa stessa positiva, poiché appunto è ancora legata a qualcosa: è il non poter fare qualcosa.
La potenza negativa, invece, rappresenta il superamento della potenza positiva, poiché non si lega ad essa: è il poter dire “di no”. Senza questo tipo di potenza negativa, la possibilità assoluta della potenza positiva nella percezione, ad esempio, ci porterebbe a una dispersione negli stimoli e negli impulsi esterni i quali ci si propongono continuamente. Non ci sarebbe alcuna interruzione, alcuna possibilità di riflessione, e quindi alcun senso spirituale. Il pensiero stesso, infatti si disperderebbe nell’infinita serie degli oggetti, e si prolungherebbe indefinitivamente sui suoi stessi correlati di pensiero. Senza la potenza negativa saremmo consegnati alla passività assoluta della dispersione tra le cose, a partire da una iper-attività costante e convulsa, stereotipata, la quale è appunto il contrario di una attività. L’iper-attività in questo senso, infatti, si rovescia in una pura passività, in una mera reazione impulsiva. Ed è proprio ciò che sta accadendo.
È il dominio dell’oggetto sul soggetto, per usare la terminologia di Baudrillard.
Lo spirito si rivela nella sua contemplatività e nella sua attività, nel momento in cui esso oppone una resistenza agli istinti e agli impulsi che reagiscono all’esterno, per rientrare finalmente in se stesso: per tradurre internamente cioè, attraverso il dialogo con sé, la propria grammatica interna di senso, le sue stesse immagine del mondo, oggettivando i propri modi di essere e allargando, in questa maniera, la sua stessa dimensione osservativa e significatoria. Ma se l’attività si trasforma in una iper-attività; se gli impulsi interni cedono continuamente alla reazione rispetto agli stimoli esterni, seguendone l’emergere e l’annullarsi, l’iper-attività si trasforma in una dipendenza passiva rispetto all’esterno.
Il riempimento oculare costante ha prodotto uno spegnimento della capacità di visione. La contemporanea bulimia iconica arresta, nella iper-produzione delle immagini, la capacità contemplativa di lasciar emergere da sé ciò che è-da-vedere. La pedagogia della visione e della contemplazione, la quale richiede un proprio tempo e una propria articolazione di senso, lascia il passo a una frammentazione rapsodica e superficiale della attenzione. La proliferazione incontrollata spinge a una iper-attività dell'occhio che non può lasciarsi sfuggire tutto ciò che incontra e che sfugge.
La fuggevolezza del mondo, e quindi la sua mancanza d'essere, inducono a una frenesia dell'attenzione e dello sguardo, nel tentativo paranoico di controllare tutto, di divorare tutto, di non lasciarsi scappare nulla. Non è solo Dio e la sua fede in lui ad essere scomparsi, come dice Han, ma è il mondo stesso ad aver perso la sua consistenza ontologia.
Questo meccanismo perverso, inevitabilmente declina in un auto-controllo e in un auto-asservimento inconsapevole, nel quale si raggiunge una saturazione interna che non lascia più alcuno spazio per il negativo, per la differenza-da-sé.
Spinto a una divorazione costante nella continuità oculare tra la visione e l'oggetto, e quindi tra il soggetto e l'oggetto, l'individuo non può che divorare se stesso, non può che consumare se stesso nella ricerca spasmodica dell'accumulazione indefinita. Ma questa stessa accumulazione produce un burnout mentale e spirituale.
L’occhio si rivela lo strumento di uno spirito che non riesce più a dialogare con se stesso, nel momento in cui viene sopraffatto dalla adesione incontrollata alle cose che osserva, senza opporre resistenza alcuna. In questa maniera, viene a prodursi un isolamento dell’io, il quale soggiorna costantemente presso le cose e mai presso di sé.
Hanna Arendt ha messo a fuoco la differenza tra l’essere “Uno” dell’individuo che si trova con gli altri, nel mondo, e al contrario l’essere il due-in-uno dello stesso soggetto, il quale si ripiega su di sé quando pensa a sé. L’armonia sorge non la dove il soggetto si fa identico a se stesso, quando diventa monodico: ma solo nel momento in cui ci sono due parti in dialogo, o due note che producono un suono armonico. È ciò che Platone soleva chiama “il dialogo silenzioso dell’anima con se stessa”. Per non incorrere in vuote tautologie, occorre che nell’Uno che io sono per gli altri si tramuti in un io-sono-per-me-stesso. E per fare ciò è necessario che si infiltri una differenza nella identità.
È il “con” inteso come sintesi e mediazione tra me e me stesso che produce l’identità, concepita come l’essere se stessi e per se stessi. Per pensare a me stesso debbo pensarmi come “diverso” da me stesso, cosicché possa prodursi un commercio comunicativo tra me e me, possa stabilirsi cioè un dia-logos interno. L’identità è il rapporto di se stessi con se stessi: non è il pensare a qualcosa, ma su qualcosa. E precisamente su me stesso. Posso tenermi compagnia e sentirmi appartenere a me, solo scindendomi in un due-in-uno dialogante. Come dice la Arendt ne La vita della mente, “La solitudine è quella situazione umana in cui tengo compagnia a me stesso. La desolazione dell'isolamento si produce quando sono incapace di scindermi nel due-in-uno, senza essere capace di tenermi compagnia, allorché, come soleva dire Jaspers, ‘vengo meno a me stesso’ (ich bleibe mir aus), o, per dirla in altro modo, quando sono uno e senza compagnia.”
Ma in questa condizione di aderenza al mondo, di connessione perpetua, l’individuo è talmente abituato a soggiornare presso le cose, a sentirsi Uno rispetto ad esse, che ha disimparato il dialogo silenzioso con se stesso, vivendo in questa maniera al proprio interno l’isolamento dell’Uno. Vive sempre una espropriazione a sé. La pluralità delle cose, la quale rivela la differenza delle cose stesse e quella interna del soggetto, uniformandosi, toglie questa differenza, questa alterità. Al dialogo silenzioso del due-in-uno, viene a sostituirsi così il silenzio prodotto dal riempimento della iper-attività nella iper-produzione.
Il silenzio carico di senso della contemplazione, nella quale lo spirito dialoga costruttivamente con se, lascia il passo al silenzio della parola soffocata dagli oggetti, da una attività che non lascia spazio alla riflessione, al vuoto di senso.
Il vuoto si riempie prima ancora di poter dialettizzare la latenza dei suoi stessi elementi, nella indifferenziazione e nella tensione produttiva delle immagini interne, rispetto al senso della propria vita. Poiché il soggetto non può permettersi alcuno iato tra se e le cose esterne, allo stesso modo non può avere il tempo di lasciar decantare al proprio interno quello spazio di silenzio necessario, quel vuoto fertile, a partire dal quale lasciar emergere da sé nuovi significati, nuove integrazioni e sintesi di senso.
Ma cosa si intende, nello specifico, con vuoto fertile?
Giovanni Paolo Quattrini sottolinea come la Gestalt non abbia mai definito l’”essenza” del cosiddetto vuoto fertile. Tuttavia, ha chiarificato la strada, ha indicato “come” trovarlo.
Quando la mente è rivolta all’esterno, essa è continuamente occupata nelle sue elucubrazioni; così come l’io viene a riempire la mente con il suo chiacchiericcio quando sovrasta il soggetto con le sue richieste. È solo nel momento in cui ci si sgancia dalle risposte automatiche al mondo esterno, rivolgendosi silenziosamente – ma attentamente –, all’interno di sé, che la mente, invece che rispondere in modo coattivo al di fuori, comincia a produrre autonomamente. Friedlander, dal quale prende le mosse il concetto di vuoto fertile della Gestalt, sintetizza il cosiddetto “pensiero differenziale” in questo modo: ogni evento nasce da un punto zero, un punto di indifferenziazione, a partire dal quale solo successivamente si dipartono delle polarità, delle categorie, delle differenze appunto, tra un più e un meno, tra questo e quello, ecc. È il Ku dello Zen. Ora, sostiene la Gestalt, se io fisso la mia attenzione sul punto zero precedente a queste differenziazioni, e cioè tra la fase di ritiro dell’organismo e la fase di emersione di un nuovo bisogno, è possibile che io riesca a vedere l’intero: lo stabilirsi silenziosamente e con una attenzione indifferente al centro del Ku da parte della mente, e cioè tra le figure ritiratesi sullo sfondo in modo indifferente tra loro, fa si che possa emergere, in modo spontaneo, la figura che necessita maggiormente di un suo soddisfacimento. Che si “produca” cioè qualcosa, e che questo qualcosa possa essere integrato rispetto alle altre parti. Il vuoto fertile.
Che cosa produce effettivamente questo vuoto? Bisogni, desideri, fantasie, progetti, intenzionalità. Quando si fa silenzio per ascoltare se stessi dall’interno, inevitabilmente emerge una intenzionalità, una volontà capace di dirci in che direzione stiamo andando, di cosa abbiamo bisogno, che cosa desideriamo. È quasi una nuova nascita, poiché il soggetto che lascia che il vuoto diventi fertile, effettivamente, non sa cosa sorgerà da esso.
Ma se c’è una continuità circolare fatta di consumo, informazioni acquisite e una comunicazione ininterrotta con l’esterno e a partire da esso, non è possibile creare nulla di nuovo poiché non può prodursi quel vuoto capace di far decantare quegli elementi all’interno di esso, di farli dialogare ed esprimere.
In questo continuo stato di confluenza nella connessione costante, che non chiude praticamente mai con i contatti passati, né allo stesso tempo permette, in virtù di questa apertura mai conclusa, di aprire al nuovo, non c’è mai ritiro, non c’è mai silenzio, e non vi è mai un effettivo contatto poiché manca qualsiasi distanza capace di, appunto, incontrare l’Altro nel contatto. Vi è solo una connessione perenne, una connessione senza contatto.
Nella continuità tra soggetto e oggetto, il singolo esclude da sé il dialogo sia interno che esterno, poiché l’ascolto ha bisogno di una distanza per poter articolare un dia-logos: senza questa distanza il soggetto aderisce in modo incondizionato e compulsivo ai propri oggetti di consumo. Il dialogo, così come l’ascolto come suo spartito ritmico di senso, ha bisogno di un tempo capace di rallentare le attività spasmodiche nelle quali siamo immersi, permettendo alle persone di dedicarsi alla contemplazione, all’attenzione dell’Altro, prestandogli in questo modo ascolto. L’ascolto dell’Altro ha bisogno di tempo per svilupparsi, per estendersi. Sia un tempo esterno, che un tempo interno: è il tempo del riposo creativo.
Ma non c’è più il tempo, perché siamo passati dal riposo creativo, il tempo del vuoto fertile, all’iper-attività produttiva, la quale non tollera sospensioni, pause, trattenimenti. Non tollera quell’indugiare presso l’Altro, quell’abitare la distanza, capace di farlo sentire a casa attraverso la nostra presenza e la nostra stessa cura. Non c’è più un prendersi cura. C’è solo la funzionalità e il consumo degli altri anonimi, all’interno di un sistema che non prevede alcun abitare, ma un soggiornare fugace presso le cose prima di consumarle.
Il silenzio diviene un vuoto che si riempie continuamente, non permettendo alcuna articolazione, alcun dialogo, alcuna dialettica tra le parti. L’individuo contemporaneo, nella sua immanenza radicale rispetto ai propri oggetti, viene a scomparire per un eccesso di autoaffermazione incondizionata al mondo: si esautora in esso e per esso. In questo senso scompare la sua differenza rispetto al mondo.
L’unico dialogo possibile, sembra essere oramai quello del mondo iper-produttivo con se stesso. Al silenzio del vuoto capace aprire uno spazio nel quale possano articolarsi le parole di chi parla e di chi ascolta, viene a sostituirsi il silenzio del vuoto che si riempie senza lasciare alcuno spazio di discussione biunivoca. La positività assoluta produce un meta-discorso costante e anonimo, che sovrasta ogni possibilità apertura di un autentico spazio di ascolto.
La rapsodicità accelerata del tempo non permette alcuna interruzione, stemperando così i sentimenti e le emozioni “forti”: le quali hanno bisogno appunto di un “tempo” di svolgimento e di una tensione dialettica. La collera, la rabbia, necessitano di una interruzione temporale che possa permettere loro di esercitarsi e di dirigersi rispetto all’Altro cui si rivolgono. Debbo stabilire una distanza rispetto all’Altro se voglio incontrarlo, seppure a partire dalla collera che provo verso di lui. E devo accettare per questo una certa “sospensione temporale” se voglio permettere alla mia collera di salire fino alla sua tensione apicale, e consentirle quindi di scaricarsi in quanto collera. Non c’è più distanza né tempo oramai, né per vedere l’altro né per esprimere la propria collera, la quale si è illanguidita in irritazione, nervosismo, disappunto. Niente ci appassiona, tutto ci irrita e ci innervosisce. L’intero cui sia la collera che l’angoscia sollevavano e si rivolgevano, l’essere cioè, a partire dal paradigma immunologico capace ancora di vedere e di espellere da sé l’Altro in quanto altro, subiscono una frammentazione in un presente puntiforme e in una positività assoluta che appiattisce tutto, persino i sentimenti. Nervosismo, irritazione, frustrazione, ansia: questi sono i sentimenti contemporanei, tradotti secondo l’iper-attività di un tempo accellerato e convulso.
Il mondo non ha più la capacità di creare una resistenza poiché la promiscuità e l’ibridazione continua di tutte le forme, sia nell’ambito culturale che nella percezione stessa della vita, fa il paio con il cambio di “paradigma immunologico”, come lo chiama Han, il quale lascia il passo a quello abreativo neurale del rifiuto.
Il paradigma immulogico prevedeva la risposta all’Altro in quanto Altro. Alla negatività cioè dell’Altro, la quale cercava di penetrare nel Proprio tentando di negarlo: la risposta immunologica si esprimeva in questo senso come il tentativo da parte del Proprio di negare la Negatività dell’Altro. Il Proprio cioè tentava la propria autoaffermazione nella negazione di Negazione. Ma la negatività dell’Altro è scomparsa cedendo il passo al consumo persino dell’estraneo, il quale si elicita non a partire dalla sua alterità profonda, ma in virtù della sua “differenza”, e cioè versione diluita, fluidificata dell’alterità, la quale non può provocare alcuna risposta immunologica, alcuna reazione.
Il paradigma immunologico, come dice l’Autore, è incompatibile con la globalizzazione, la quale abbisogna di un abbattimento incontrollato di tutte le barriere, di tutte le opposizioni, affinché tutto possa circolare liberamente. La reazione immunitaria bloccherebbe questo processo di abbattimento e di scorrimento. La positività assoluta produce una dissoluzione di tutti i confini nella iper-produzione indistinta di informazioni, comunicazione, beni e merci: in questo senso non ha ragion d’essere neanche la reattività immunologica, dice Han criticando Baudrillard, che pure sostiene la positivizzazione assoluta del sistema. Poiché è lo stesso paradigma dell’Uguale a essere penetrato così a fondo, da far si che non sia più necessario parlare in senso forte di “risposte”.
L’Uguale al posto dell’Altro domina trasversalmente tutti i sistemi, di modo che non è possibile nemmeno, in una ipotetica metafora sociologico-ematologica, far si che possano stabilirsi gli anticorpi capaci di respingere, appunto immunologicamente, l’estraneo in quanto Altro. Cosicché, al rifiuto immunologico dell’Altro inteso come negazione di Negazione – il quale viene esercitato anche solo in virtù della sua minima quantità di presenza, e quindi a partire dalla sua qualità di Altro in quanto Altro, a partire dal suo negativo intrinseco –, viene a stabilirsi un rifiuto dell’Uguale come digestione neurale, come rigetto. L’extracomunitario oramai non rappresenta più una minaccia, ma un peso, un “di più”.
Secondo Han la profusione incontrollata dell’Uguale a partire dalla positivizzazione assoluta degli apparati e dalla cancellazione del negativo, produce il “terrore dell’immanenza”. La violenza da parte dell’Altro vista dalla prospettiva immunologica, era una violenza deprivativa: l’Altro era ciò che rischiava di privarmi di me stesso. La violenza esercitata dalla presenza asfissiante dell’Uguale, è una violenza saturativa. Vi è un eccesso dell’Uguale, rispetto a ciò che già il sistema stenta a sostenere, nella sua continua spinta verso la positività assoluta e la prestazione di prestazione. È questo il terrore dell’immanenza di cui qui si parla, il quale provoca come dice l’Autore quegli “infarti psichici”, che egli intercetta nei nuovi disturbi contemporanei. Depressione, iperattività, sindrome da deficit di attenzione, il disturbo borderline di personalità, burnout.
I cosiddetti deficit di attenzione sarebbero causati da una iper stimolazione la quale produce a sua volta una iperattività dell’attenzione stessa: la quale inarrestabilmente accelera, fino a una saturazione delle funzioni corticali superiori. Alla attenzione profonda della cultura contemplativa dello spirito, viene a sostituirsi l’iper-attenzione della vigilanza paranoica.
Vi è una distrazione continua, un saltare da una connessione a un’altra, un continuo dileguarsi tra gli apparati tecnologici: dal telefono, alle mail, a facebook. Non c’è più spazio per la noia come “culmine del riposo spirituale”. Oltre a questa distrazione, si aggiunge anche una costante “dissociazione” dal presente: dal cosiddetto qui ed ora. Viviamo sempre in un “altrove”, in un “non qui” e in un “non ora”, rispetto al senso di realtà sviluppabile mediante l’esperienza sensoriale del presente.
Essendo solo ciò che viene condiviso ad assumere un valore di verità, penso ovviamente ai social network, viene a mancare la capacità di elaborazione autonoma dei sentimenti, delle emozioni, dei pensieri, vissuti nel momento attuale.
Tutte queste distrazioni e salti ontologici virtuali, tutto questo essere sempre altrove e dovunque, porta a un infiacchimento della volontà e a una all’allentamento dell’attenzione, la quale abbisogna di esercizio e di rigore per allenarsi alla focalizzazione. La volontà a sua volta necessita di una “resistenza” per potersi sviluppare e articolare: non è semplicemente una risposta automatica agli impulsi esterni, ma un esercizio etico e comportamentale insieme, il quale richiede una opposizione capace di svilupparla in un progetto che faccia i conti con il principio di realtà, e quindi con le proprie risorse interne disponibili, motivazioni progettuali, e significati personali. Così come l’attenzione vuole uno sforzo di concentrazione capace di fissarsi su un unico oggetto alla volta, per produrre un assorbimento mnemonico e una integrazione dell’esperienza. Nella distrazione continua e nella dissociazione dal presente, non c’è spazio né per la volontà né per l’attenzione. Tutto è dispersione, tutto è effimero.
Il mondo è diventato fragile. Ha perduto il suo spessore ontologico oppositivo originario – il suo valore di esistenza e di verità.
Ci sono troppi stimoli da gestire, troppe comunicazioni da intercettare.
La densità delle informazioni, sia televisive che digitali, rappresenta un miscuglio di immagini, parole, suoni, musica, che il cervello umano, in milioni di anni di evoluzione, non ha mai incontrato in natura, e quindi non è capace di gestirlo in modo efficace. Come mette in evidenza Pietro Trabucchi, rispetto a questo bombardamento e ingorgo informazionale il sistema entra inevitabilmente in un loop cognitivo che viene compensato da attività inconsce emotive e pulsionali sottostanti, le quali sono facilmente permeabili alla manipolazione esterna. Il cervello, che tende anch’esso alla sopravvivenza dell’intero organismo, quando quest’ultimo viene sovrastato da un eccesso di stimoli rispetto a una delle sue funzioni, in questo caso la neocorteccia, per prevenire il burnout organismico, attiva le funzioni sottocorticali, le quali permettono un dispendio minore di energia poiché sono automatiche e cioè non attivate dalla volontà. Non richiedono uno sforzo.
L’attenzione in questa maniera si diffonde in attività superficiali e rapsodiche che, nella violenza implosiva della saturazione coscienziale, danneggiano la capacità di memoria, la capacità critica, la concentrazione, e la facoltà di distinguere gli stimoli che hanno una certa rilevanza da quelli che portano a una distrazione. È come se la connessione costante del multitasking, disattivasse le aree prefrontali che si trovano in questa maniera a rinunciare a gestire le capacità attentive e a filtrare le informazioni e gli stimoli. Vi è una cortocircuitazione dell’intero organismo, il quale si espone in misura ancora maggiore al rischio della dipendenza esterna degli impulsi.
La società della stanchezza è quella società la quale, asservita all’imperativo categorico della prestazione a ogni costo, alla efficienza e alla competenza dell’individuo, soggiace a una iperestesia degli stimoli e a una iperattività maniacale, precipitando l’anima che consuma se stessa in una catatonia spirituale. È la società del doping. Che in fondo è una prestazione senza prestazione, nella quale l’individuo assume sostanze che aumentano progressivamente le sue attività prestazionali in modo prettamente chimico, e non a partire da uno sforzo di volontà e dalle sue proprie risorse.
L’anima diviene consunta nella continua deinteriorizzazione delle proprie funzioni complesse, come la riflessione, la contemplazione, l’immaginazione, declinate queste nelle mere prestazioni funzionali al sistema positivizzato. C’è così l’effetto di una stanchezza atomizzata, solipsistica, impotente, la quale produce un isolamento e una separazione dei soggetti, i quali, esaurite le loro energie nel tentativo sempre fallimentare di superare se stessi, ricadono sfiancati all’interno del proprio io. Un io incapace sia di guardare l’altro, sia di ascoltarlo. L’io positivizzato occupa tutto lo spazio mondano disponibile, non ha tempo né di ascoltare né di ascoltarsi. Deve produrre se stesso oltre se stesso. Ricadendo nuovamente, infine, al di qua del mondo, nelle proprie mura difensive costituite di impotenza.
[1] J. Baudrillard, Il delitto perfetto, tr. it. di G. Piana, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996
[2] J. Baudrillard, Le strategie fatali, tr. it. di S. D’Alessandro, Ed. Feltrinelli, Milano, 2007
[3] J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, tr. it. G. Mancuso, Ed. Feltrinelli, Milano, 2002
[4] Byung-Chul Han, Nello sciame. Visioni del digitale, tr. it. di F. Buongiorno, Ed. Nottetempo, Roma, 2015
[5] H. Arendt, La vita della mente, tr. it. di Giorgio Zanetti, Ed. Il mulino, Bologna, 2009
[6] Perls F., Hefferline R. F., Goodman P., Teoria e pratica della terapia della Gestalt. Vitalità e accrescimento nella personalità umana, Ed. Astrolabio, Roma, 1997
[7] Quattrini G. P., Per una psicoterapia fenomenologico-esistenziale, Ed. Giunti, Milano, 2011
[8] P. Trabucchi, Tecniche di resistenza interiore. Come sopravvivere alla crisi della nostra società, Ed. Mondadori, Milano, 2014
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