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Perché rileggere un libro che ci è piaciuto?
Le ragioni possono essere molte. Ce n’è una, però, che a me preme molto; di solito è quella mi riporta sulle pagine trascorse. Si tratta del piacere di stabilire un rapporto dialogico con il suo autore. Non so se capita anche a voi. La prima volta che si legge qualcosa generalmente ci si ferma al testo, ma se ci si trova a rileggerlo (e ripensarlo) beh, c’è da scommettere che la spinta venga da due molle: quella di capirsi meglio, certo, ma anche quella di capire meglio chi c’è dietro e dentro il testo letto e da rileggere. Così, la rilettura diventa occasione di dialogo con se stessi e con l’autore.
Chi è a conoscenza del fatto che con Bollorino siamo da anni legati ad un rapporto di amicizia e pure di colleganza (almeno per quanto riguarda la vita di rete) può pensare che la mia personale regola in questo caso non valga.
E invece sì. Vale, anche e tanto più in questo caso. E vale in tutte e due le direzioni: sia quella che porta a chiedermi perché questa lettura mi ha preso, al punto di volerla rifare, sia quella che mi conduce a interagire con questa parte di Bollorino che non conoscevo.
Tentare qualche risposta mi porta, apparentemente, lontano dal tema. Ma, come proverò a dire, mi ci avvicino (e così avvicino voi).
Comincio dunque col farmi aiutare da un altro esponente della categoria dei fabulatori.
"Dicono che siamo chiusi, meditabondi e taccagni. Non è vero, siamo solo stati educati a essere vedette del decadere del giorno. E conseguentemente del tramontare e dello sfinirsi in crepuscolo delle età, delle epoche, delle ere. Non che l’occidentale non abbia il suo fascino e il suo perché. Per dire, siamo qui che guardiamo i giorni e le cose finire e intanto noi non finiamo mai. Non taccagni ma parchi, ci avanza sempre qualcosa per tirare avanti, oltre l’imbrunire nella notte. La dissipazione non ci attrae, è faccenda del mezzodì. Il fatto è che questo nostro perdurare, questa nostra virtù dell’assistere e restarsene, se ci consegna il dono non comune di una congenita dolente e acuta ironia, ci condanna a invecchiare degradando nel sarcastico, e quindi nel caustico, e infine nel sardonico. E questo non ci fa belli. Questo fa di noi dei brutti vecchi".
Così narra Maurizio Maggiani (su “La Lettura” de “Il Corriere della Sera” del 6 settembre 2015), dicendo di noi liguri (Bollorino lo è e io lo sono): gente che ha di fronte a sé il tramonto e che se vuole vedere qualcosa che ricordi l’alba deve fare lo sforzo di girarsi indietro e aspettare che i monti si decidano a lasciar passare i raggi del sole; gente propensa a stare ferma, mentre tutto sembra girare, ovviamente a vuoto, ma che non rinuncia e mobilitare l’immaginazione e nutrirsi dei suoi frutti; insomma, gente meditabonda sì ma con venature mattoidi, predisposta anche al ruolo di cacciaballe (do you remember?).
Del resto, chi se non un mattoide (geniale, generoso, felice mattoide) poteva avere la forza e il coraggio di mettere su un’impresa così anomala, per il villaggio nazionale, ma anche importante, che dico: fondamentale come Psychiatry on line Italia? Chi se non l’autore di queste favole da rileggere? Se non sapete che cos’è Psychiatry on line Italia ve lo dico subito. A tutt’oggi, è la più grossa e ricca concentrazione di cultura psichiatrica, psicologia, psicoanalitica (e non solo) dell’italico web (e non solo).
Pensate: cinquemila e più articoli e cinquecento video ad accesso gratuito e libero (poi dicono dei genovesi!) e, a rendere tutto questo vivo e attivo, una comunità di duemila iscritti al sito e di settemila iscritti alla pagina di Facebook. Tutto merito di Bollorino.
Dunque, ecco un primo punto fermo. Questi racconti fantasiosi vengono da uno che vive pienamente dentro il mondo, con le sue gioie e i suoi dolori, e che queste gioie e dolori è abituato generosamente a condividere e interpretare. Sono, insomma, da prendere maledettamente sul serio.
Non basta. Come me, del resto, l’autore delle favole che avete gustato è “tifoso sfegatato” (ma ci sono tifosi che non solo tali?) di quella squadra calcistica che Gioân Brera, il più autorevole e amato dei giornalisti sportivi, appellava “il vecchio balordo”.
E dunque, che mai può fare un “vecchio”, per di più balordo (tra psichiatria e pazzia, del resto, i rapporti sono anche di fattiva collaborazione), per evitare la sorte che gli prospetta Maggiani? Ecco, può contarsela su, e contarvela. Nutrirsi e nutrire di narratività. Trasformare le cose immobili (quelle interne e quelle esterne a noi) in cose mobili.
Ecco allora da dove viene fuori il Bollorino narratore: praticamente dallo stesso humus che ha dato vita al Colombo di Dario Fo e ai fondali di Luzzati per Paolo Poli e che ha colorato di leggenda un passato calcistico che nessuno dei viventi ha provato direttamente.
Queste sono alcune delle risposte che mi sono dato e che hanno segnato la mia rilettura.
Per farla breve, c’è nella nostra terra e nel nostro modo di starci (debbo anche ricordare i “nostri” cantori?) un forte impulso nella direzione del favolistico. Stretti e pressati fra la realtà del mare e la realtà dei monti ci viene naturale viaggiare con l’immaginazione.
Ma questo non basta, ovviamente. Altrimenti saremmo tutti Montale o De Andrè. Poiché non sono determinista, penso che non bastino i natali, la malattia calcistica e la professione psichiatrica per far sì che uno si scopra favolista adulto (e per gli adulti).
Penso che ci vogliano anche tanta fantasia e tanta cocciutaggine.
Due tratti che invidio a Bollorino.
E che mi hanno predisposto ad una seconda lettura delle sue favole.
Cosa che raccomando anche a voi. Ma, visto che di professione faccio il pedagogista, permettetemi di aggiungere una considerazione sul destinatario di questi racconti da rileggere. Siamo portati a ritenere che la favola sia roba per bambini.
Crediamo il giusto, così, o meglio ciò che i più reputano giusto. Ma dimentichiamo, però, che l’adulto, per quanto sia o voglia essere tale, mantiene dentro di sé una parte bambina.
Che poi è ciò che gli permette di non essere travolto dagli avvenimenti, di sospendere almeno per un po’ il giudizio sul mondo, di vedere talora negli umani e nelle loro cose profili e colori netti, di uscire momentaneamente dai vincoli del tempo e dello spazio.
La favola alimenta tutto questo, ritempra l’uomo. Sopra tutto garantisce il “miracolo” di cogliere e far cogliere come “meravigliosa” anche la più ovvia delle realtà; e regala la maiuscola anche alla più banale delle parole. Insomma, per tutte queste ragioni la favola è salutare, terapeutica per l’adulto. Vale come risorsa per la sua educazione. Per l’autoeducazione.
Ecco, per tutto questo voglio bene alla parte bambina di Bollorino.
E lo ringrazio perché ce ne fa partecipi.
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